Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


venerdì 28 dicembre 2012

Qatar. Carcere a vita per al-Ajami, il poeta delle rivolte arabe

"La rivolta è iniziata con il sangue del popolo, ribelle, e ha dipinto la liberazione sui volti di ogni essere vivo", mentre "i governi arabi, e chi li guida, sono tutti, ugualmente, ladri". Ecco la traduzione del testo del 'poeta della rivoluzione'. 


di Anna Toro

Condannato all’ergastolo per “aver insultato il regime, offeso l'emiro al-Thani, e attaccato la Costituzione”, al-Ajami è l'autore della poesia Tunisian Jasmine, che qui potete leggere nella sua traduzione integrale.
Oggi, attivisti e intellettuali si mobilitano per salvarlo.
La sentenza, per il poeta qatariota Muhammad Ibn al-Dheeb al-Ajami, è arrivata a fine novembre, dopo un processo a porte chiuse rinviato per ben 5 volte.
Per mesi il poeta è stato sottoposto a un regime di isolamento assoluto, senza nessun contatto con famigliari e amici.
Visto che anche tutte le udienze si sono svolte in segreto, la causa ufficiale dell'arresto, avvenuto il 16 novembre di un anno fa, è ancora poco chiara.

In una copia della sentenza che Amnesty International è riuscita a procurarsi, non si fa infatti alcuna menzione dell'accusa, ma secondo gli attivisti per i diritti umani il tutto risalirebbe alla poesia, “Tunisian Jasmine”, scritta dal al-Ajami a sostegno delle rivolte arabe del 2011.

Ecco la traduzione della poesia:*
Oh signor primo ministro, oh Mohammad al-Ghannoushi
se guardiamo al tuo potere, esso non deriva dalla Costituzione.
Non piangiamo Ben Ali, nè piangiamo la sua epoca, che rappresenta solo un piccolo punto nella linea della storia.
La dittatura è un sistema repressivo e tirannico la Tunisia ha annunciato la sua rivolta popolare.
Se critichiamo, critichiamo solo ciò che è meschino e infimo
se cantiamo lodi, lo facciamo in prima persona.
La rivolta è iniziata con il sangue del popolo, ribelle, e ha dipinto la liberazione sui volti di ogni essere vivo.
Sappiamo che faranno ciò che vogliono e sappiamo che tutte le vittorie portano con sé eventi tragici,
ma povero quel paese che fa dell'ignoranza il suo governante e crede nella forza delle forze americane
e povero quel paese che affama il suo popolo mentre il governo gioisce dei successi economici e povero quel paese i cui cittadini si addormentano con la cittadinanza e si svegliano senza e povero quel sistema che eredita repressione.
Fino a quando sarete schiavi di tanto egoismo?
Quando il popolo prenderà coscienza del suo vero valore?
Quel valore che gli viene nascosto e che presto dimentica?
Perché i governi non scelgono mai il modo per porre fine al sistema del potere tirannico che sa della sua malattia e insieme avvelena il suo popolo che sa che domani sulla sua sedia si siederà il suo successore
Non tiene in conto che la patria porta il nome suo, e della sua famiglia, quella stessa patria che conserva la sua gloria nelle glorie del popolo, quel popolo che risponde con una voce sola ad un solo destino: siamo tutti tunisini davanti all'oppressore!
I governi arabi, e chi li guida, tutti, ugualmente, ladri.
Quella domanda che toglie il sonno a chi se la pone, non troverà risposta in chi incarna l'ufficiale.
Se possiamo importare ogni cosa dall'Occidente, perchè non importiamo anche i diritti e la libertà?


“Un potente appello perché si metta fine a delle condizioni intollerabili, una richiesta che negli ultimi due anni è stata espressa da milioni di persone in tutto il Nord Africa e il mondo arabo”, scrivono gli autori della petizione che chiede la liberazione del poeta, già firmata da numerosi intellettuali e artisti di tutto il mondo.
Amnesty International non ha mancato di denunciare le irregolarità durante il processo: come il fatto che gli osservatori, ma spesso perfino il suo avvocato, non siano stati autorizzati a entrare nella sala di udienza, e che al-Ajami era assente alla pronuncia del verdetto.
Per l'organizzazione per i diritti umani, la condanna all’ergastolo nei confronti del poeta qatariota “è manifestamente una violazione scandalosa della libertà di espressione”.
“E' deplorevole – continua il direttore per il Medio Oriente e Nord Africa, Phillip Luther – che il Qatar, che ama dipingersi agli occhi di tutto il mondo come un Paese promotore della libertà di espressione, vada avanti in ciò che appare come un flagrante abuso di questo diritto”.
Intanto l'avvocato del poeta, Nagib al-Naimi, ha già annunciato il ricorso in appello.

*traduzione dall'arabo a cura di Marta Ghezzi

Sotto, il video della poesia recitata in arabo.


28 dicembre 2012






Fonte:

Fratelli Cervi


Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia, tutti Medaglia d'Argento al Valor Militare alla memoria.
I fratelli Cervi (il maggiore aveva 42 anni, il più giovane 22) e il patriota Quarto Camurri, con loro ristretto prima nel carcere dei Servi e poi in quello di San Tomaso, avrebbero forse potuto salvarsi. Dopo la cattura i Cervi (il padre Alcide, già in età avanzata, dopo la sparatoria e la resa, decisa per non coinvolgere le donne e i bambini, era stato separato dai figli) erano stati a lungo interrogati e seviziati, ma i fascisti non ne avevano cavato nulla. Ad un certo punto - si racconta - giunsero a dirgli: "Volete il perdono? Mettetevi nella Guardia Repubblicana". Risposero: "Crederemmo di sporcarci". Nemmeno i quattro dei Cervi che erano ammogliati ed avevano figli, compreso Gelindo che ne aveva un altro in arrivo, cedettero alle lusinghe. Allora li presero e li portarono tutti al poligono di tiro.

Non si sa quanto abbia pesato, nella decisione di non cedere, l'influenza che Aldo, il più "politicizzato" dei Cervi, esercitava da anni sui fratelli e sui contadini della zona, ai quali aveva insegnato nuovi sistemi d'irrigazione. Aldo - scrisse Piero Calamandrei - non perdeva occasione per educare se stesso e gli altri. "Quando dopo molti anni di accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté permettersi il lusso di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio: e sulla strada che porta a Campegine i vicini lo videro tornare trionfante, al volante della macchina nuova, sulla quale aveva issato, come una bandiera internazionale, un gran mappamondo". Oggi la loro casa di Campegine è stata trasformata in un museo.

 

28.12.1908: l’alba tragica di Reggio e Messina

28 dic 2012

Di


“Stamane alle ore 05.21 negli strumenti dell’osservatorio è incominciata un’impressionante, straordinaria registrazione: le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri, misurando oltre 40 cm. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave”.
Iniziava così l’annotazione dell’osservatorio Ximeniano di Firenze la notte del 28.12.1908, alba tragica di Reggio Calabria e Messina.
Un terremoto disastroso del settimo grado Mercalli. Solo 37 intensi secondi di morte, seguiti da uno tsunami  di gigantesche dimensioni  che inghiottì case, vie, macchine.
Reggio, contava nel 1908 45.000 abitanti; ne perirono 15.000, un terzo della città. Messina, in pari data ne contava 140.000; ne perirono 80.000, cifra spaventosa.
Queste due città erano già sopravvissute ad una tragedia simile, quando un precedente sisma del 1783 le aveva rase al suolo provocando vittime e danni incalcolabili.
Reggio Calabria  e Messina, Calabria e Sicilia, terre entrambe scrigno della Magna Grecia. Dalle culle di antiche civiltà alle leggende di  Scilla e Cariddi, al procrastinare di sviluppi letterari nel panorama nazionale come il Verismo, il cui padre siculo, Verga, individuò nel calabro Corrado Alvaro, il suo  erede  naturale. Reggio e Messina significa anche le uniche città al mondo di due regioni diverse che si osservano 24 ore su 24, così come significa il fenomeno scientifico che si realizza solo in riva allo Stretto: il fenomeno “della Fata Morgana” (aspetti di vita quotidiana che si sviluppano in una delle due città, riflesse sulla riva dell’altra sponda per via di un gradiente termico e condotto atmosferico).
Due sponde divise dalla natura in epoca quaternaria, quando il disgelo successivo all’era glaciale frantumò l’Eurasia (difatti la radice greca di Ρήγιoν è in latino Rhegion, antico nome di Reggio, ossia luogo di divisione, di frattura)  e da un antico antagonismo calcistico successivamente,  ma unite da una conurbazione giornaliera fatta di scambi umani, culturali, gioie e dolori. Quella notte del Dicembre del 1908, in soli tre km di distanza si confondevano le urla di dolore e di disperazione di chi aveva perso tutto, due città, due macerie.
Nell’antica Zancle (Messina), si rase al suolo il Teatro ‘Marittimo’, il Palazzo Municipale, il monumento di S. Gregorio, il Duomo. La chiesa dei Catalani rimase miracolosamente intatta ed alla data odierna è visibilmente collocata in un livello più basso rispetto alla nuova conformazione urbanistica della città costruita nel post-terremoto (il turista se ne avvede a vista d’occhio).
A Reggio lo tsunami inghiottì il lungomare facendone un immenso detrito, l’onda d’urto abbatté la costruzione bizantina della Cattolica dei Greci, le fontane monumentali, il palazzo barocco di Genoese-Zerbi, soppiantando opere d’arte varie, di estrazione greco-normanna, sparse in cenacoli culturali.
In entrambe le città i feriti furono divisi in ospedali, caserma, luoghi di improvvisata dimora, mentre i soccorsi sopraggiungevano prevalentemente dal mare. Queste unità marine erano costituite da navi della marina militare italiana, navi inglesi, spagnole, tedesche, greche, francesi a cui le due città ancora oggi dedicano vie ed impianti sanitari, segno di una riconoscenza eterna (l’Ospedale Piemonte di Messina riporta il nome di un imbarcazione sabauda che portò aiuti dai piemontesi mentre la via Curzon in Calabria ricorda il politico britannico che si prodigò per i territori colpiti dal disastro ambientale).
Le due città, denominate ‘gemelle’, hanno avuto la forza di rialzarsi, costruire dalle macerie il loro destino, rimodellare con la propria dignità il futuro di generazioni protese a fare crescere le due realtà. Ad oggi entrambe, seppur moderne ed europee nello stile, conservano ben poco di quello che fu l’alba tragica del Dicembre 1908, se non nelle foto d’epoca ed in qualche rudere fatto rimanere volutamente intatto nel tempo, risparmiato dal progresso a futura memoria.
Dal punto di vista scientifico, gli studiosi hanno da sempre stabilito che lo Stretto di Messina sarà sempre una zona sismica, per  via di una faglia sotterranea costituita da fratture della crosta terrestre, che dallo Stretto conduce addirittura alla placca americana che si interseca alla Transverse Range, un segmento tellurico geologico che conduce altresì allo strato tettonico panafricano. Non è un bell’auspicio se consideriamo che il risveglio del vulcano Marsili, vulcano sottomarino altro 3000 metri a circa 150 km da Calabria e Sicilia, potrebbe provocare tragedie umane di portate incommensurabili.
Un’altra curiosità scientifica stabilisce che il dna dell’abitante dello Stretto è stato, nel corso dei secoli, modificato dal ‘Radon’, che inciderebbe in forma naturale la sua circolazione all’interno dell’organismo degli abitanti dei territori interessati, aumentando la globularità in vista dei terremoti. Un concetto scientifico che richiama la definizione di sismogeneticità, accertato nei territori americani ‘solcati’ dalla faglia di S. Andrea.
Ma la storia del terremoto del 1908 sullo Stretto non è solo una storia fatta di cumuli di dolore e macerie accatastate dalla natura, è una storia di passione e sollevazione dai ruderi di una civiltà sepolta.
Lo scrivente ha più volte interrotto la stesura di questo articolo, per personale coinvolgimento emotivo,  al pensiero che la generazione del 1908 è stata la generazione di mio nonno, reggino, sopravvissuto,  il cui pacchetto genetico si è ricondotto in quello di mio figlio, nato in terra di Trinacria.
E’ la storia di una generazione che, crescendo all’alba di un nuovo millennio che iniziava tragicamente,  in due sponde opposte percepiva di condividere i medesimi principi morali ispiratori ed i medesimi fondamenti ultimi umani: il senso della ripartenza, della ricostruzione dell’esistenza mattone su mattone.
E’ storia che diventa poetica immortale quando, qualche anno dopo il disastro, nel 1914, Giovanni Pascoli, scendendo in riva alle coste reggine, rimaneva visibilmente scosso davanti a quella porzione di terra abitata dai figli dei padri greci, in cui l’umiltà del dolore silenzioso della ricostruzione si mescolava con la storia decapitata. Pascoli, partoriva un’ode di intima e profonda commozione che recitava: “Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte.  Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.” . Da qualche anno sul lungomare di Reggio Calabria è presente una stele in marmo riportante tale poetica, come forma di ringraziamento del popolo reggino a Pascoli, testamento morale di quanto drammaticamente avvenuto nel 1908.
Ma se a Reggio è lo spiritualismo poetico a consegnare la storia alle gioventù future, a Messina è lo spiritualismo mistico a fornire emozioni trascendentali e storie immortali. Chiunque giunge nella città siciliana scorge inevitabilmente al porto la statua di una Madonna gigantesca, con una scritta dall’idioma latino e di inequivocabile interpretazione: “Vos et ipsam civitatem benedicimus”.
E’ la Madonna del mare, comunemente conosciuta dai messinesi  come la Madonna della Lettera, perché emissaria di un’epistola sacra perché scritta di pugno dal Sommo Padre, un invito del Creatore a non cadere nelle tenebre dell’angoscia.
Un messaggio che certifica, dunque, la benedizione di Dio al popolo messinese, una rassicurazione solida di protezione dogmatica ad un popolo che nel 1908 fu colpito dal demone della disperazione in pieno sonno.
Da una parte all’altra dello Stretto, poesia e fede si fondono nel destino e nel cammino di questi due popoli, penetrando violentemente nell’ossatura degli uomini, incidendo nella cartilagine della loro anima.
Quella del terremoto del 1908, è storia umana di popoli che diventa antropologia che si tramuta, per proprietà transitiva, in filosofia esistenzialista sul condotto delle novelle veriste dell’uomo, sul ‘ciclo dei vinti’, dove la provvidenza si pone in rapporto conflittuale fra l’uomo e la natura in una strutturazione filologica.
La provvidenza diviene dunque assetto centrale, concettualizzazione verghiana della vita che si discosta da quella manzoniana, che la pone come soccorso teosofico alle esigenze umane.


Fonte:


http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/44283/28-12-1908-lalba-tragica-di-reggio-e-messina/

Gaza, 28 dicembre 2008

28/12/2008

Di Vittorio Arrigoni

Il mio articolo su Il Manifesto di oggi:

 

Il mio appartamento di Gaza dà sul mare, una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale, spesso affranto da tanta miseria a cui è costretta una vita sotto l’assedio.
Prima di stamane. Quando dalla mia finestra si è affacciato l’inferno.
Ci siamo svegliati sotto le bombe stamane a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia.
E amici miei, ci sono rimasti sotto.
Siamo a 210 morti accertati finora, ma il bilancio è destinato drammaticamente a crescere. Una strage senza precedenti. Hanno spianato il porto, dinnanzi a casa mia, e raso al suolo le centrali di polizia.
Mi riferiscono che i media occidentali hanno digerito e ripetono a memoria i comunicati diramati dai militari israeliani secondo i quali gli attacchi avrebbero colpito chirurgicamente solo le basi terroristiche di Hamas.
In realtà visitando l’ospedale di Al Shifa, il principale della città, abbiamo visto nel caos d’inferno di corpi stesi sul cortile, alcuni in attesa di cure, la maggior parte di degna sepoltura, decine di civili.
Avete presente Gaza?
Ogni casa è arroccata sull’altra, ogni edificio è posato sull’altro, Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che compi una strage di civili. Ne sei coscente, e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali.
Bombardando la centrale di polizia di Al Abbas, nel centro,
è rimasta seriamente coinvolta nelle esplosioni la scuola elementare lì a fianco.
Era la fine delle lezioni, i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue.
Bombardando la scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel mercato lì vicino, il mercato centrale di Gaza. Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l’asfalto. Una Guernica trasfigurata nella realtà.
Ho visto molti cadaveri in divisa nei vari ospedali che ho visitato, molti di quei ragazzi li conoscevo. Li salutavo tutti i giorni quando li incontravo sulla strada recandomi al porto, o la sera camminando verso i caffè del centro.
Diversi li conoscevo per nome. Un nome, una storia, una famiglia mutilata.
La maggior parte erano giovani, sui diciotto vent’anni, per lo più non politicamente schierati nè con Fatah nè con Hamas, ma che semplicemente si erano arruolati nella polizia, finita l’università, per aver assicurato un posto di lavoro in una Gaza che, sotto il criminale assedio israeliano, vede più del 60% della popolazione disoccupata.
Mi disinteresso della propaganda, lascio parlare i miei occhi, le mie orecchie tese dallo stridulo delle sirene e dai boati del tritolo.
Non ho visto terroristi fra le vittime di quest’oggi, ma solo civili, e poliziotti.
Esattamente come i nostri poliziotti di quartiere, i poliziotti palestinesi massacrati dai bombardamenti israeliani se ne stavano tutti i giorni dell’anno a presidiare la stessa piazza, lo stesso incrocio, la stessa strada.
Solo ieri notte li prendevo in giro per come erano imbacuccati per ripararsi dal freddo, dinnanzi a casa mia.
Vorrei che almeno la verità donasse giustizia a queste morti.
Non hanno mai sparato un colpo verso Israele, nè mai lo avrebbero fatto, non è nella loro mansione. Si occupavano di dirigere il traffico, e della sicurezza interna,  tanto più che al porto siamo ben distanti dai confini israeliani.
Ho una videocamera con me, ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman,
non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime.
Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io.
All’ospedale AL Shifa con gli altri internazionali dell’ISM ci siamo recati a donare il sangue. E lì abbiamo ricevuto la telefonata: Sara, una nostra cara amica è rimasta uccisa da un frammento di esplosivo mentre si trovava vicino alla sua abitazione nel campo profughi di Jabalia. Una persona dolce, un’anima solare, era uscita per comprare il pane per la sua famiglia. Lascia 13 figli.
Poco fa invece mi ha chiamato da Cipro Tofiq.
Tofiq è uno dei fortunati studenti palestinesi che grazie alle nostre barche del Free Gaza Movement è riuscito a lasciare l’immensa prigionia di Gaza e ricominciare altrove una vita nuova. Mi ha chiesto se ero andato a trovare suo zio e se l’avevo salutato da parte sua, come gli avevo promesso.Titubante mi sono scusato perchè non avevo ancora trovato il tempo.
Troppo tardi, è rimasto sotto le macerie del porto insieme a tanti altri.
Da Israele giunge la terribile minaccia che questo è solo il primo giorno di una campagna di bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane.
Faranno il deserto,
e lo chiameranno pace.
Il silenzio del “mondo civile” è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.

Vik in Gaza



Fonte:

http://vittorioarrigoni.wordpress.com/piombo-fuso/guernica-gazawi/