28 dic 2012
Di Domenico Romeo
“Stamane alle ore 05.21 negli strumenti dell’osservatorio è incominciata un’impressionante, straordinaria registrazione:
le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate
nei cilindri, misurando oltre 40 cm. Da qualche parte sta succedendo
qualcosa di grave”.
Iniziava così l’annotazione dell’osservatorio Ximeniano di Firenze la
notte del 28.12.1908, alba tragica di Reggio Calabria e Messina.
Un terremoto disastroso del settimo grado Mercalli. Solo 37 intensi
secondi di morte, seguiti da uno tsunami di gigantesche dimensioni che
inghiottì case, vie, macchine.
Reggio, contava nel 1908 45.000 abitanti; ne perirono 15.000, un
terzo della città. Messina, in pari data ne contava 140.000; ne perirono
80.000, cifra spaventosa.
Queste due città erano già sopravvissute ad una tragedia simile,
quando un precedente sisma del 1783 le aveva rase al suolo provocando
vittime e danni incalcolabili.
Reggio Calabria e Messina, Calabria e Sicilia, terre entrambe
scrigno della Magna Grecia. Dalle culle di antiche civiltà alle leggende
di Scilla e Cariddi, al procrastinare di sviluppi letterari nel
panorama nazionale come il Verismo, il cui padre siculo, Verga,
individuò nel calabro Corrado Alvaro, il suo erede naturale. Reggio e
Messina significa anche le uniche città al mondo di due regioni diverse
che si osservano 24 ore su 24, così come significa il fenomeno
scientifico che si realizza solo in riva allo Stretto: il fenomeno
“della Fata Morgana” (aspetti di vita quotidiana che si sviluppano in
una delle due città, riflesse sulla riva dell’altra sponda per via di un
gradiente termico e condotto atmosferico).
Due sponde divise dalla natura in epoca quaternaria, quando il
disgelo successivo all’era glaciale frantumò l’Eurasia (difatti la
radice greca di Ρήγιoν è in latino Rhegion, antico
nome di Reggio, ossia luogo di divisione, di frattura) e da un antico
antagonismo calcistico successivamente, ma unite da una conurbazione
giornaliera fatta di scambi umani, culturali, gioie e dolori. Quella
notte del Dicembre del 1908, in soli tre km di distanza si confondevano
le urla di dolore e di disperazione di chi aveva perso tutto, due città,
due macerie.
Nell’antica Zancle (Messina), si rase al suolo il Teatro ‘Marittimo’,
il Palazzo Municipale, il monumento di S. Gregorio, il Duomo. La chiesa
dei Catalani rimase miracolosamente intatta ed alla data odierna è
visibilmente collocata in un livello più basso rispetto alla nuova
conformazione urbanistica della città costruita nel post-terremoto (il
turista se ne avvede a vista d’occhio).
A Reggio lo tsunami inghiottì il lungomare facendone un immenso
detrito, l’onda d’urto abbatté la costruzione bizantina della Cattolica
dei Greci, le fontane monumentali, il palazzo barocco di Genoese-Zerbi,
soppiantando opere d’arte varie, di estrazione greco-normanna, sparse in
cenacoli culturali.
In entrambe le città i feriti furono divisi in ospedali, caserma,
luoghi di improvvisata dimora, mentre i soccorsi sopraggiungevano
prevalentemente dal mare. Queste unità marine erano costituite da navi
della marina militare italiana, navi inglesi, spagnole, tedesche,
greche, francesi a cui le due città ancora oggi dedicano vie ed impianti
sanitari, segno di una riconoscenza eterna (l’Ospedale Piemonte di
Messina riporta il nome di un imbarcazione sabauda che portò aiuti dai
piemontesi mentre la via Curzon in Calabria ricorda il politico
britannico che si prodigò per i territori colpiti dal disastro
ambientale).
Le due città, denominate ‘gemelle’, hanno avuto la forza di
rialzarsi, costruire dalle macerie il loro destino, rimodellare con la
propria dignità il futuro di generazioni protese a fare crescere le due
realtà. Ad oggi entrambe, seppur moderne ed europee nello stile,
conservano ben poco di quello che fu l’alba tragica del Dicembre 1908,
se non nelle foto d’epoca ed in qualche rudere fatto rimanere
volutamente intatto nel tempo, risparmiato dal progresso a futura
memoria.
Dal punto di vista scientifico, gli studiosi hanno da sempre
stabilito che lo Stretto di Messina sarà sempre una zona sismica, per
via di una faglia sotterranea costituita da fratture della crosta
terrestre, che dallo Stretto conduce addirittura alla placca americana
che si interseca alla Transverse Range, un segmento tellurico geologico
che conduce altresì allo strato tettonico panafricano. Non è un
bell’auspicio se consideriamo che il risveglio del vulcano Marsili,
vulcano sottomarino altro 3000 metri a circa 150 km da Calabria e
Sicilia, potrebbe provocare tragedie umane di portate incommensurabili.
Un’altra curiosità scientifica stabilisce che il dna dell’abitante
dello Stretto è stato, nel corso dei secoli, modificato dal ‘Radon’, che
inciderebbe in forma naturale la sua circolazione all’interno
dell’organismo degli abitanti dei territori interessati, aumentando la
globularità in vista dei terremoti. Un concetto scientifico che richiama
la definizione di sismogeneticità, accertato nei territori americani
‘solcati’ dalla faglia di S. Andrea.
Ma la storia del terremoto del 1908 sullo Stretto non è solo una
storia fatta di cumuli di dolore e macerie accatastate dalla natura, è
una storia di passione e sollevazione dai ruderi di una civiltà sepolta.
Lo scrivente ha più volte interrotto la stesura di questo articolo,
per personale coinvolgimento emotivo, al pensiero che la generazione
del 1908 è stata la generazione di mio nonno, reggino, sopravvissuto,
il cui pacchetto genetico si è ricondotto in quello di mio figlio, nato
in terra di Trinacria.
E’ la storia di una generazione che, crescendo all’alba di un nuovo
millennio che iniziava tragicamente, in due sponde opposte percepiva di
condividere i medesimi principi morali ispiratori ed i medesimi
fondamenti ultimi umani: il senso della ripartenza, della ricostruzione
dell’esistenza mattone su mattone.
E’ storia che diventa poetica immortale quando, qualche anno dopo il
disastro, nel 1914, Giovanni Pascoli, scendendo in riva alle coste
reggine, rimaneva visibilmente scosso davanti a quella porzione di terra
abitata dai figli dei padri greci, in cui l’umiltà del dolore
silenzioso della ricostruzione si mescolava con la storia decapitata.
Pascoli, partoriva un’ode di intima e profonda commozione che recitava: “Questo
mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora
le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano
pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche
vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità
del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel
liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine
di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È
un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il
cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le
porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non
quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il
frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma
quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che
sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue
l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio,
ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è
rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi
distrutta la storia, resta la poesia.” . Da qualche anno sul
lungomare di Reggio Calabria è presente una stele in marmo riportante
tale poetica, come forma di ringraziamento del popolo reggino a Pascoli,
testamento morale di quanto drammaticamente avvenuto nel 1908.
Ma se a Reggio è lo spiritualismo poetico a consegnare la storia alle
gioventù future, a Messina è lo spiritualismo mistico a fornire
emozioni trascendentali e storie immortali. Chiunque giunge nella città
siciliana scorge inevitabilmente al porto la statua di una Madonna
gigantesca, con una scritta dall’idioma latino e di inequivocabile
interpretazione: “Vos et ipsam civitatem benedicimus”.
E’ la Madonna del mare, comunemente conosciuta dai messinesi come la
Madonna della Lettera, perché emissaria di un’epistola sacra perché
scritta di pugno dal Sommo Padre, un invito del Creatore a non cadere
nelle tenebre dell’angoscia.
Un messaggio che certifica, dunque, la benedizione di Dio al popolo
messinese, una rassicurazione solida di protezione dogmatica ad un
popolo che nel 1908 fu colpito dal demone della disperazione in pieno
sonno.
Da una parte all’altra dello Stretto, poesia e fede si fondono nel
destino e nel cammino di questi due popoli, penetrando violentemente
nell’ossatura degli uomini, incidendo nella cartilagine della loro
anima.
Quella del terremoto del 1908, è storia umana di popoli che diventa
antropologia che si tramuta, per proprietà transitiva, in filosofia
esistenzialista sul condotto delle novelle veriste dell’uomo, sul ‘ciclo
dei vinti’, dove la provvidenza si pone in rapporto conflittuale fra
l’uomo e la natura in una strutturazione filologica.
La provvidenza diviene dunque assetto centrale, concettualizzazione
verghiana della vita che si discosta da quella manzoniana, che la pone
come soccorso teosofico alle esigenze umane.
Fonte:
http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/44283/28-12-1908-lalba-tragica-di-reggio-e-messina/
Fonte:
http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/44283/28-12-1908-lalba-tragica-di-reggio-e-messina/
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