Mauro
Rostagno, una voce scomoda
Marco Rizzo
Fonte:
Pubblicato su L'Isola Possibile n.52 del maggio 2008
Era più buio
del solito, in quella stradina di campagna in contrada Lenzi, ai piedi del
Monte Erice. Era il 22 settembre del 1988, Trapani era molto diversa: non
accoglieva ancora i visitatori con il cartello "La città della vela",
aveva appena cominciato a espandersi a suon di palazzoni nella periferia e
c'erano ben tre reti locali. Una di queste era la combattiva Rtc. Da quei
microfoni, un carismatico giornalista milanese lanciava accuse contro la mafia
e gli imprenditori e i politici conniventi. Si chiamava Mauro Rostagno, e stava
attraversando quella "trazzera" accompagnato dalla collaboratrice
Monica Serra, proprio quella notte. Monica era una delle ragazze della comunità
per tossicodipendenti Saman, co-fondata dal poliedrico Rostagno. Ed è proprio
lì che stavano per arrivare: avevano lasciato poco prima la sede di Rtc, e si
erano addentrati in quell'insolito buio. La Fiat Duna bianca di Mauro passa
affianco ad una golf parcheggiata su un lato. Una Fiat Uno supera l'auto di
Rostagno e gli taglia la strada. Alcuni uomini, forse addirittura sette,
circondano l'auto. È un agguato: Rostagno spinge istintivamente Monica sotto il
cruscotto, e muore ucciso da due colpi di una calibro 38. Tra le armi, anche
due fucili, che esplodono dei colpi che (quasi miracolosamente!) non colpiscono
la Serra, circostanza che porterà in futuro a dubitare della testimonianza
della giovane. Prima di scappare, i killer hanno il tempo di sfondare con il
calcio del fucile il finestrino posteriore lato guidatore, rovistare nella
borsa che Mauro teneva sempre con sé, e prendere qualcosa. E nelle stesse ore,
qualcuno rovistava nel suo ufficio a Rtc, sempre alla ricerca di qualcosa. Che
cosa? È un mistero. È uno dei tanti misteri che porta a dubitare della tesi
dell'agguato mafioso. Nonostante a sparare (è stato confermato di recente)
siano state delle armi già coinvolte in almeno un'altra aggressione firmata
Cosa Nostra, quella del giovane poliziotto Giuseppe Montalto, per la quale è
condannato all'ergastolo il killer Vito Mazzara. A rivelarlo, è una nuova
perizia balistica, disponibile dopo il prolungamento di sei mesi delle indagini
dopo il rischio archiviazione di qualche mese fa. E in effetti, di mano
mafiosa, si parlò subito. Era inevitabile, quasi scontato: fino a quella sera
stessa, Rostagno si era scagliato contro Cosa Nostra, condannando gli omicidi del
giudice Saetta e del figlio Stefano, ad Agrigento. E in effetti la mafia
trapanese, in quegli anni sotto il comando del boss Vincenzo Virga, 12 giorni
prima non aveva esitato a eliminare un magistrato in pensione, Alberto
Giacomelli. Chicca Roveri, la compagna di Rostagno, dichiarò poche settimane
dopo l'omicidio che la pista da battere era quella mafiosa, e che ogni altro
tentativo, da parte di alcuni, di trovare altri moventi faceva "parte di
un disegno colluso, interessato, fiancheggiatore della piovra". Di mafia
parla l'allora capo della mobile Rino Germanà. Lo sostiene la Procura di
Palermo, che ha virato le indagini su quelle tracce piuttosto che sulle altre
ipotesi allora battute a Trapani. Anche i pentiti parlano di mafia, da Angelo
Siino a Giovanni Brusca: ma non sono ritenuti affidabili. Lo dice lo stesso pm
Antonio Ingoia, che oggi segue il caso: "C'è un collaboratore di
giustizia, ad esempio, che dice che Virga non ne sapeva nulla. Anzi, a suo dire
il boss era rimasto contrariato dalla vicenda perché avrebbe attirato le
attenzioni su Trapani". Però proprio intorno a Virga e ai suoi uomini
poggia la tesi mafiosa. In particolare su Vincenzo Mastrantonio, tecnico
dell'Enel nella contrada Lenzi, e soprattutto, autista del boss. Potrebbe
essere stato lui a staccare la luce nella zona la notte dell'agguato. Anche se,
stando agli atti ufficiali, erano state delle infiltrazioni d'acqua dovute alla
pioggia ad avere mandato in corto circuito la centralina. Peccato che a Trapani
non piovesse da parecchi giorni, e peccato che Mastrantonio fu trovato morto
otto mesi dopo quel 26 settembre. E la Uno, venne trovata abbandonata e
bruciata pochi giorni dopo. Tutto secondo il copione.
Ma qualcosa
non quadra. Troppe persone, presenti e a sparare: non coincide con il modus
operandi di Cosa Nostra. Così come è strano che la Serra sia stata lasciata
viva "perché non interessavo a nessuno", come disse lei stessa. E
secondo l'allora comandante dei carabinieri a Trapani Nazzareno Montanti, a
gestire l'agguato non erano stati dei professionisti: un fucile scoppia in mano
a uno dei killer, si crea confusione, viene scelta una strada più trafficata
rispetto a quelle percorse fino a pochi minuti prima dalla Duna bianca.
Negli anni,
si faranno tante altre ipotesi, legate a filo doppio con il complesso passato
di Mauro Rostagno. Nato a Torino nel '42, gira il mondo, fa mille professioni,
conquista donne. Studia sociologia, a Trento, ed è uno dei fondatori
dell'Università della contestazione con Renato Curcio. In seguito diventa uno
dei leader e degli ideologi di Lotta Continua con Adriano Sofri prima, e uno
degli animatori dello storico centro sociale "Macondo" di Milano,
dopo. A fine anni '70, un viaggio spirituale alla corte del santone Bhagwan
Shree Rajneesh Osho lo fa entrare nel movimento dei pacifisti
"arancioni": un'esperienza che lo porterà a fondare una delle prime
comunità per tossicodipendenti in Italia, insieme alla compagna Chicca Roveri e
al "guru" Francesco Cardella.
Una vita,
quella di Rostagno, che offre tanti spunti, anche per le teorie intorno ai
mandanti del suo omicidio. Per anni, ha tenuto banco l'ipotesi di una resa dei
conti interna agli ex-militanti di Lotta Continua. Leonardo Marino, uno che
secondo Rostagno "a Lc non contava niente", si era autoaccusato dell'uccisione
del commissario Luigi Calabresi, e aveva tirato in ballo alcuni membri, tra cui
il giornalista di Rtc. Ma l'ipotesi di un omicidio voluto dai vecchi compagni è
stata considerata sempre meno credibile col passare degli anni, nonostante si
leghi all'idea che a sparare non siano stati dei killer professionisti della
mafia. È la stessa considerazione alla base di un'altra ipotesi, che riteneva
che il delitto fosse maturato all'interno della Saman, in particolare con la
regia occulta del trapanese Cardella. Editore di porno capace di pubblicare
anche Bulgakov e Marquez, confidente e sostenitore di Bettino Craxi,
faccendiere, truffatore. Una persona facilmente descrivibile come inaffidabile,
ma per anni "il miglior amico di Rostagno", come dice lui stesso. Si
teorizzarono diverse motivazioni, tutte riconducibili a Francesco Cardella: un
delitto passionale, la necessità di fare fuori l'amico per scappare con il
malloppo delle donazioni alla comunità, segreti scoperti da Rostagno che
dovevano restare tali. Cardella rimase per anni latitante in Nicaragua, e
quando tornò, non aveva granché da raccontare se non la sua idea sulla pista
mafiosa e gli aneddoti dei pomeriggi ad Hammamet con Craxi.
Ma c'è un
altro retroscena, nel caso Rostagno, che prende sempre più piede. E che tutto
sommato, potrebbe coincidere con le scoperte recenti che spingono verso la
pista mafiosa. Si tratta di un intreccio che coinvolge, oltre al sociologo, la
reporter del Tg3 Ilaria Alpi, i servizi segreti deviati, i massoni della potente
loggia Iside2 di Trapani, la base della Gladio "Scorpio" nella città,
e un traffico d'armi tra l'Italia e l'Africa. Un corridoio che passava dal
piccolo aeroporto della Gladio a Kinisia, vicino Trapani, e che secondo il
collega e amico di Rostagno Sergio Di Cori, sarebbe stato immortalato da Mauro
pochi mesi prima della sua uccisione. Immagini di aerei militari, o elicotteri,
che scaricano riso e farmaci e caricano kalashnikov e mine. Armi da regalare ai
signori della guerra della polveriera africana, in cambio di terra; sotto la
quale nascondere rifiuti tossici e scorie industriali provenienti da mezza
Europa. Lo stesso scoop che nel 1994 avrebbe portato all'omicidio della Alpi e
del cameraman Miran Hrovatin.
Mauro, dice
Di Cori e dicono altri testimoni sentiti dall'allora procuratore , non si
separava mai da quella videocassetta. Anzi, avrebbe anche detto di avere un
grosso scoop per le mani. Voci dicono che ne abbia parlato anche con il
magistrato Giovanni Falcone. Una verità scomoda tra le mani di un uomo scomodo.
Una delle tante verità custodite da un giornalista che avrebbe potuto "far
tremare l'Italia" (come pare abbia detto) e che è stato zittito: di quella
cassetta, sempre che esista, non ci sono tracce. Che sia stata presa dai
killer? Che sia quello l'oggetto rubato dal sedile posteriore della Duna e
cercato nel suo ufficio? Che gli interessi della mafia e dei fantomatici
"poteri occulti", come troppo spesso pare, abbiano coinciso con la
morte di Rostagno?
Non ci è dato saperlo. I familiari, gli amici, i conoscenti, e chi porta ancora avanti il ricordo e le lotte di Rostagno (come Libera e l'associazione Ciao Mauro), di volta in volta propongono iniziative per ricordarlo o per stimolare la magistratura. Sullo sfondo, una città complessa e sfaccettata come Trapani, che troppo spesso, però, avverte la mancanza delle strigliate di quel giornalista del nord che tanto aveva capito dei siciliani.
Non ci è dato saperlo. I familiari, gli amici, i conoscenti, e chi porta ancora avanti il ricordo e le lotte di Rostagno (come Libera e l'associazione Ciao Mauro), di volta in volta propongono iniziative per ricordarlo o per stimolare la magistratura. Sullo sfondo, una città complessa e sfaccettata come Trapani, che troppo spesso, però, avverte la mancanza delle strigliate di quel giornalista del nord che tanto aveva capito dei siciliani.
Marco Rizzo
NOTA:
Pubblicato su L'Isola Possibile n.52 del maggio 2008
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