Di Vittorio Arrigoni
07/01/2009
07/01/2009
Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte, timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c’erano le case, le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite.
Ho
visto carovane di palestinesi disperati sfollare da Jabilia, Beit
Hanoun e da tutti i campi profughi di Gaza, ed andare ad affollare le
scuole delle Nazioni Unite come terremotati, come vittime di uno tsunami
che giorno per giorno sta inghiottendo la Striscia di Gaza e la sua
popolazione civile, senza pietà, senza alcuna minima osservanza dei
diritti umani e delle convenzioni di Ginevra. Soprattutto senza che
nessun governo occidentale muova un solo dito per fermare questi
massacri, per inviare qui personale medico, per arrestare il genocidio
di cui si sta macchiando Israele in queste ore.
Continuano
gli attacchi indiscriminati contro gli ospedali e il personale medico.
Ieri dopo aver lasciato l’ospedale di Al Auda di Jabilia ho ricevuto una
telefonata da Alberto, compagno spagnolo dell’ISM, una bomba è caduta
sull’ospedale. Abu Mohammed, infermiere, è rimasto seriamente ferito al
capo. Giusto poco prima, con Abu Mohammed, comunista, davanti ad un
caffè ascoltavo le eroiche gesta dei leaders del Fronte Popolare, i suoi
miti: George Habbash, Abu Ali Mustafa, Ahmad Al Sadat. Gli si erano
illuminati gli occhi nel sapere che le prime nozioni di cosa fosse la
Palestina e della sua immensa tragedia mi erano stati impartiti dai miei
genitori, comunisti convinti. Da mia madre “raissa”, sindaco di un
paese nel nord Italia. Mi aveva chiesto quali erano i leader di sinistra
italiani veramente rivoluzionari, del passato, e gli avevo risposto
Antonio Gramsci. È quelli odierni? Avevo preso tempo, gli avrei
risposto oggi. Abu Mohammed giace ora in coma, nello stesso ospedale
dove lavorava, si è risparmiato la mia deludente risposta.
Verso
mezzanotte ho ricevuto un’altra chiamata, questa volta da Eva,
l’edificio in cui si trovava era sotto attacco. Conosco bene anche quel
palazzo, al centro di Gaza city, ci ho passato una notte con alcuni
amici fotoreporters palestinesi, è la sede dei principali media che
stanno cercando di raccontare con immagini e parole la catastrofe
innaturale che ci ha colpito da dieci giorni. Reuters, Fox news, Russia
today, e decine di altre agenzie locali e non, sotto il fuoco di sette
razzi partiti da un elicottero israeliano. Sono riusciti a evacuare
tutti in tempo prima di rimanere seriamente feriti, i cameramen, i
fotografi, i reporters, tutti palestinesi, dal momento in cui Israele
non permette a giornalisti internazionali di mettere piede a Gaza. Non
ci sono obiettivi “strategici” attorno a quel palazzo, nè resistenza che
combatte l’avanzata dei mortiferi blindati israeliani, ben più a nord.
Chiaramente qualcuno a Tel Aviv non riesce a digerire le immagine dei
massacri di civili che si sovrappongono a quelle dei briefing dei
colonnelli israliani, con rinfresco offerto per i giornalisti
prezzolati. Tramite queste conferenze stampa stanno dichiarando al mondo
che gli obbiettivi delle bombe sono solo terroristi di Hamas, e non
quei bambini orrendamente mutilati che tiriamo fuori ogni giorno dalle
macerie.
A
Zetun, una decina di chilometri da Jabalia, un edificio bombardato è
crollato sopra una famiglia, una decina le vittime, le ambulanze hanno
atteso diverse ore prima di poter correre sul posto, i militari
continuavano a spararci contro. Sparano alle ambulanze, bombardano gli
ospedali. Pochi giorni fa, da una nota emittente radiofonica milanese,
una “pacifista” israeliana mi avevo detto a chiare lettere che questa è
una guerra dove le due parti contrapposte utilizzano tutte le loro armi a
disposizione. Invito allora Israele a sganciarci addosso una delle sue
tante bombe atomiche che tiene segretamente stivate contro tutti i
trattati di non proliferazione nucleare. Ci tiri addosso la
bomba risolutiva metta fine all’inumana agonia di migliaia di corpi
maciullati nelle corsie sovraffollate degli ospedali che ho visitato. Ho
scattato alcune fotografie in bianco e nero ieri, alle carovane di
carretti trascinati dai muli, carichi all’inverosimile di bambini
sventolanti un drappo bianco rivolto verso il cielo, i volti pallidi,
terrorizzati.
Riguardando
oggi quegli scatti di profughi in fuga, mi sono corsi i brividi lungo
la schiena. Se potessero essere sovrapposte a quelle fotografie che
testimoniano la Nakba del 1948, la catastrofe palestinese,
coinciderebbero perfettamente. Nel vile immobilismo di Stati e governi
che si definiscono democratici, c’è una nuova catastrofe in corso da
queste parti, una nuova Nakba, una nuova pulizia etnica che sta
colpendo la popolazione palestinese. Fino a qualche istante fa si
contava 650 morti, 153 bambini uccisi, più di 3.000 i feriti, decine e
decine i dispersi. Il computo delle morti civili in Israele,
fortunatamente, rimane fermo a quota 4. Dopo questo pomeriggio il
bilancio sul versante palestinese va drammaticamente aggiornato,
l’esercito israeliano ha iniziato a bombardare le scuole delle Nazioni
Unite. Le stesse che stavano raccogliendo i migliaia di sfollati
evacuati dietro minaccia di un imminente attacco. Li hanno scacciati dai
campi profughi, dai villaggi, solo per raccoglierli tutti in posto
unico, un bersaglio più comodo. Sono tre le scuole bombardate oggi,
l’ultima, quella di Al Fakhura, a Jabalia, è stata centrata in pieno.
Più di 50 morti. In pochi istanti se ne sono andati uomini, anziani,
donne, bambini che si credevano al sicuro dietro le mura dipinte in blu
con i loghi dell’ONU. Le altre 20 scuole delle Nazioni Unite tremano.
Non
c’è via di scampo nella Striscia di Gaza, non siamo in Libano,
dove i civili dei villaggi del Sud sotto le bombe israeliane evacuarono
al nord, o in Siria e in Giordania. La Striscia di Gaza da enorme
prigione a cielo aperto, si è tramutata in una trappola mortale. Ci si
guarda sconvolti e ci si chiede se il Consiglio di Sicurezza dell’Onu
riuscirà questa volta a pronunciare un’unanime condanna, dopo che anche
le sue scuole sono prese di mira. Qualcuno fuori di qui ha deciso
davvero di fare un deserto, e poi chiamarlo pace. Ci aspetta una lunga
nottata sulle ambulanze, anche se l’alba da queste parti è ormai una
chimera. I ripetitori dei cellulari lungo tutta la Striscia sono stati
distrutti, abbiamo rinunciato a contarci. Spero di riuscire a rivedere
un giorno tutti gli amici che non posso più contattare, ma non mi
illudo.
Qui
a Gaza siamo tutti bersagli ambulanti, nessuno escluso. Mi ha appena
contattato il consolato italiano, dicono che domani evacueranno l’ultima
nostra concittadina. Una anziana suorina che da vent’anni anni abita
nei pressi della chiesa cattolica di Gaza, ormai adottata dai
palestinesi della Striscia. Il console mi ha gentilmente pregato di
cogliere quest’ultima opportunità, aggregarmi alla suora e scampare da
questo inferno. L’ho ringraziato per la sua offerta, da qui non mi
muovo, non ce la faccio. Per i lutti che abbiamo vissuto, prima ancora
di italiani, spagnoli, inglesi, australiani, in questo momento siamo
tutti palestinesi. Se solo per un minuto al giorno lo fossimo tutti,
come molti siamo stati ebrei durante l’olocausto, credo che tutto questo
massacro ci verrebbe risparmiato.
Restiamo umani.
Vik
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