Dal blog di Valentina Perniciaro, http://baruda.net/
Roma, tra il febbraio e l’aprile del 1944, è schiacciata dalla morsa della fame, è una città sfinita, murata dall’occupante nazista. È il momento peggiore della guerra: bombardamenti, attentati, rastrellamenti, rappresaglie, gli Alleati sono fermi ad Anzio, non vanno né avanti né indietro, gli uomini al fronte o prigionieri o nascosti o non se ne sa più niente; i figli e i vecchi da sfamare.
L’approvvigionamento di una città di quasi due milioni di abitanti come Roma si presenta soprattutto come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane; se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, dopo lo sbarco alleato a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvengono per mezzo di autocarri. Quotidianamente partono 100 autocarri per il rifornimento della città. Ma i viveri che arrivavano non sono comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vede nella parziale evacuazione della città l’unica possibile “soluzione”, ma, prevedibilmente, il tentativo non viene mai fatto. Interi quartieri restano senza pane. Poveri e ricchi sono ugualmente costretti a ricorrere al mercato nero. I romani mangiano, quando ne trovano, carrube lesse, pane di vegetina, bucce di patate bollite; bruciano mobili d’arredamento per scaldarsi e cucinare. La città sopravvive sospesa in una atmosfera di terrore, fame e freddo.
La situazione economica alimentare va sempre peggiorando e la popolazione trae motivo di ulteriore pessimismo dalle recenti disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta. Si vorrebbe una energica e fattiva azione da parte delle autorità per arrestare la corsa al rialzo dei prezzi che, se favorisce l’ingorda speculazione dei commercianti e dei cosiddetti borsari neri, pregiudica ed esaspera i consumatori ed in special modo quelli appartenenti alle classi meno abbienti o a quelle costrette a vivere del reddito fisso.
Roma, tra il febbraio e l’aprile del 1944, è schiacciata dalla morsa della fame, è una città sfinita, murata dall’occupante nazista. È il momento peggiore della guerra: bombardamenti, attentati, rastrellamenti, rappresaglie, gli Alleati sono fermi ad Anzio, non vanno né avanti né indietro, gli uomini al fronte o prigionieri o nascosti o non se ne sa più niente; i figli e i vecchi da sfamare.
L’approvvigionamento di una città di quasi due milioni di abitanti come Roma si presenta soprattutto come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane; se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, dopo lo sbarco alleato a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvengono per mezzo di autocarri. Quotidianamente partono 100 autocarri per il rifornimento della città. Ma i viveri che arrivavano non sono comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vede nella parziale evacuazione della città l’unica possibile “soluzione”, ma, prevedibilmente, il tentativo non viene mai fatto. Interi quartieri restano senza pane. Poveri e ricchi sono ugualmente costretti a ricorrere al mercato nero. I romani mangiano, quando ne trovano, carrube lesse, pane di vegetina, bucce di patate bollite; bruciano mobili d’arredamento per scaldarsi e cucinare. La città sopravvive sospesa in una atmosfera di terrore, fame e freddo.
La situazione economica alimentare va sempre peggiorando e la popolazione trae motivo di ulteriore pessimismo dalle recenti disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta. Si vorrebbe una energica e fattiva azione da parte delle autorità per arrestare la corsa al rialzo dei prezzi che, se favorisce l’ingorda speculazione dei commercianti e dei cosiddetti borsari neri, pregiudica ed esaspera i consumatori ed in special modo quelli appartenenti alle classi meno abbienti o a quelle costrette a vivere del reddito fisso.
A
complicare ulteriormente una situazione già inquietante, da una parte
gli Alleati, che mitragliavano i convogli di viveri diretti in città,
dall’altra gli occupanti che sequestravano per il loro uso, ma
soprattutto per una sorta di deontologia dell’occupazione, intere
partite di generi alimentari. L’idea che i tedeschi tenessero tutti i
depositi sequestrati per il loro uso e consumo, è molto diffusa.
Ulteriori
problemi provoca un vertiginoso ma invisibile (perché clandestino, non
ufficiale) aumento della popolazione: dai Castelli, da Genzano, da
Albano, dalle campagne intorno ad Anzio e Nettuno, arrivano a Roma
intere famiglie di disastrati che cercano alloggio nelle scuole, nelle
caserme o nell’ala abbandonata di qualche ospedale, un incremento
silenzioso che va ad accelerare un andamento
già crescente della popolazione romana, prima del ventennio fascista.
Si calcola che oltre 200.000 persone vivessero in alloggi di fortuna in
condizioni inumane e senza lavoro. E trovare cibo diventa ancora più
difficile.
Gli
ospedali sono pieni di bambini denutriti, e si contano numerosi casi di
piccoli deceduti per fame e malattie da denutrizione: forse più di
trecento, una strage, altre vittime innocenti da inserire nell’elenco di
atrocità commesse dai nazifascisti a Roma e in Italia.
Dopo
l’attentato di via Rasella del 23 marzo, la rappresaglia tedesca non si
ferma alla strage delle Fosse Ardeatine, ma vuole colpire il maggior
numero di persone possibile. Così, per ordine diretto del generale
Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta da 150 a 100
grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito.
Ai
primi di aprile del 1944, dopo il catastrofico e lungo inverno, le
condizioni alimentari si fanno intollerabili portando allo stremo la
popolazione. La situazione nel settore del pane peggiora in modo
drammatico con l’approssimarsi del fronte. A metà aprile, a causa delle
difficoltà dei trasporti e dei disordini creati dalla lotta partigiana,
la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione; a quel
punto ci si rende conto che non solo circolano 50.000 carte per il pane
falsificate, ma anche che ingenti quantitativi di farina sono stati
venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione.
Protagoniste
di un così oscuro periodo sono le donne che da sole, con ogni mezzo,
con l’astuzia o la violenza, cercano di sopravvivere alle miserie della
guerra. È così che avvengono i primi assalti ai forni, destinati a
diventare sempre più frequenti; sono le donne spinte dal bisogno che li
pensano e li organizzano spontaneamente anche se qualche volta c’è
dietro l’aiuto e l’impulso dei gruppi femminili della Resistenza. Si
passano parola, vanno all’assalto provviste di sporte per metterci
dentro quel po’ che riusciranno a prendere, usano i figli come scudo;
sono le donne che si organizzano per assalire i forni ove si panifica il
pane bianco per fascisti e nazisti.
Gli
assalti avvengono nei quartieri di Trionfale, Borgo Pio, Via Leone
Quarto. A guidarle in questi quartieri sono le sorelle De Angelis,
Maddalena Accorinti ed altre.
In
via Leone IV, davanti alla sede della Delegazione rionale, scoppia una
rabbiosa protesta contro la sospensione della distribuzione di patate e
farina di latte. Nella stessa strada viene assaltato il forno De Acutis,
ma qui c’è il consenso dello steso proprietario, che distribuito il
pane e la farina, si dà alla clandestinità.
Sempre
fra i Prati e il Trionfale, zona di piccola e media borghesia,
avvengono assalti ai panifici in via Vespasiano, via Ottaviano e via
Candia.
Il 1° aprile 1944, di fronte a un forno di via Tosti, nel quartiere Appio, una forte manifestazione di donne contro la riduzione della razione di pane, dà inizio ad una nuova e disperata serie di assalti ai forni.
Il 1° aprile 1944, di fronte a un forno di via Tosti, nel quartiere Appio, una forte manifestazione di donne contro la riduzione della razione di pane, dà inizio ad una nuova e disperata serie di assalti ai forni.
“Sabato
primo aprile, al forno Tosti, quartiere Appio, la fila era
interminabile: le donne attendevano da più di due ore l’arrivo
dell’ordine di distribuzione e non si capiva
perché tardassero tanto ad aprire. Esasperate le donne protestavano ad
alta voce, erano furibonde, e c’era tra loro chi temeva che non ci
fossero neppure quei cento grammi per tutti. [] aveva cominciato una in
prima fila in faccia ai militi [che vigilavano alla porta]: “Ci ho
quattro creature che me se magnano puro a me se je porto sta crioletta
de cento grammi! Ve volete da’ na mossa! Buffoni!”. Un milite la prese
per il braccio e la portò fuori dalla fila, le donne cedettero che la
volessero arrestare e cercarono di strapparla dalle mani della GNR:
seguì un parapiglia, tutte strillavano, insultavano; poi d’improvviso,
rotta la fila, si ammassarono tutte davanti alla porta del forno. La
porta forzata cedette e tutte entrarono [] le donne trovarono, oltre al
pane nero, anche sacchi di farina bianca, forse pronti per la
panificazione per le alte gerarchie fasciste o per le truppe di
occupazione tedesche”.
Nei giorni a seguire e per tutto il mese di aprile, furono attaccati camion carichi di pane, come a Borgo Pio dove la folla assale un camion, scortato da militi fascisti, che trasporta pane per una caserma. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato. Altri assalti hanno lugo a forni in tutti i quartieri, costringendo i tedeschi a scortare ogni convoglio e a presidiare ogni punto di distribuzione.
Nei giorni a seguire e per tutto il mese di aprile, furono attaccati camion carichi di pane, come a Borgo Pio dove la folla assale un camion, scortato da militi fascisti, che trasporta pane per una caserma. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato. Altri assalti hanno lugo a forni in tutti i quartieri, costringendo i tedeschi a scortare ogni convoglio e a presidiare ogni punto di distribuzione.
L’episodio più tragico avviene all’Ostiense, al Ponte di Ferro. Il 7 aprile 1944
decine di persone si ritrovarono di fronte al mulino Tesei per chiedere
pane e farina; si diceva che quel mulino producesse pane destinato ai
militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense, Portuense
e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e
che probabilmente aveva grossi depositi di farina. La folla cominciò a
reclamare il pane, i cancelli del forno furono sfondati e le donne
riuscirono ad entrare. Il direttore del forno, forse d’accordo con
quelle disperate, lasciò che entrassero e che si rifornissero di pane e
farina, ma qualcuno avvertì la polizia tedesca che arrivò quando le
donne erano ancora sul posto. A quel punto i militi fascisti presenti
chiesero l’intervento delle SS tedesche, che bloccarono la strada, molte
donne riuscirono a scappare, ma dieci di loro furono prese, afferrate
di forza, portate sul ponte e lì fucilate in fila, contro la ringhiera. A
monito della popolazione i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla
spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni lattonieri e
sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme
su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e
sepolte.
Le dieci vittime
innocenti della furia nazi-fascista furono: Clorinda Falsetti, Italia
Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino,
Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda
Pistolesi, Silvia Loggreolo.
Durante
un nuovo assalto, quello avvenuto il 2 maggio, all’indomani delle
manifestazioni del giorno prima, una guardia della PAI (la Polizia
Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo
fascista repubblicano), accorsa per sedare il tumulto uccide con una
fucilata una donna del Tiburtino III, Caterina Martinelli, madre di sei
figli.
Cade sul
selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa, una pagnotta stretta
al petto, in braccio una bambina ancora lattante: stramazza a terra
sopra la figlia che sopravvive ma che avrà poi la spina dorsale
lesionata. Una specie di monumento alla madre affamata.
Il
giorno dopo, sul marciapiede ancora insanguinato, un cartello
antifascista ricorda la vittima. Quel cartello, subito fatto togliere
dalle autorità, tornerà come lapide a Roma liberata.
Mario
Socrate, partigiano gappista e poeta, così testimonia di
quell’episodio: “… ci fu l’assalto al forno e uno della Pai sparò e
uccise una donna. Allora noi facemmo una manifestazione, e io quel
giorno stesso ho scritto la lapide e la mettemmo al punto dov’era ancora
il sangue a terra”. Fu lui a scrivere le parole che si possone leggere
ancora oggi nella lapide sulla facciata di una casa in via del Badile
16:
Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli «io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme».
Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli «io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme».
Fonti :
Nessun commento:
Posta un commento