mercoledì 21 Novembre 2012, ore 16:00
In
crescita costante gli omicidi e i reati compiuti contro il sesso
femminile. Ma la questione è più ampia: riguarda anche il diritto allo
studio e l’accesso al lavoro.
Il 25 novembre è stata designata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione n. 54/134 del 17 dicembre 1999, come “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. La proposta di scegliere quella data venne avanzata da un gruppo di donne della Repubblica Dominicana nel 1981 a Bogotá, durante l’Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi.
Quel giorno ricorre infatti l’anniversario dellˈomicidio avvenuto nel 1960 da parte della polizia segreta del dittatore dominicano Trujillo delle tre sorelle Mirabal, ’Las Mariposas’ (le Farfalle), come erano chiamate allˈinterno del movimento rivoluzionario clandestino 14 de Junio da loro stesse fondato insieme ai mariti, compagni ed altri militanti rivoluzionari.
Le sorelle Mirabal, e in particolare Minerva, che aveva osato rifiutare le sue ripetute avances, rappresentavano lˈossessione di Trujillo. Non solo condannavano
i suoi metodi e il suo potere, lo sfidavano anche apertamente
rifiutando le sue attenzioni. E per di più erano belle, determinate e
intelligenti.
Ovviamente si trattò di un omicidio politico, in cui tuttavia la componente machista del dittatore ebbe un peso determinante. L’atteggiamento sfrontato e le posizioni politiche della giovane donna, poi costretta alla clandestinità insieme a tutto il movimento 14 de Junio, accrebbero il risentimento del tiranno contro tutta la sua famiglia e contro suo marito, un giovane dirigente comunista, Manolo Tavárez Justo.
Minerva, Patria e Maria Teresa Mirabal furono arrestate varie volte, poi liberate, infine sequestrate, torturate ed uccise. Manolo Tavàrez fece la stessa fine pochi anni dopo, quando giá Trujillo
era stato assassinato e lui ed alcuni compagni continuavano la lotta
per la libertà in Repubblica Dominicana contro il Triumvirato (governo
provvisorio di forte matrice trujillista).
La designazione dell’ONU del 25 novembre come Giornata internazionale
contro la violenza contro le donne rappresenta uno dei tanti passi che
gli organismi internazionali, le Nazioni Unite in testa, cercano di
compiere per dare una dimensione internazionale al problema. La Dichiarazione
sull’eliminazione della violenza contro le donne infatti era stata già
ratificata fin dal 20 dicembre del 1993 e rappresentava comunque un
momento importante in quanto si riconosceva “che la violenza contro le donne è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente diseguali tra
uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione
contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento
delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.
Nelle Americhe, ben piu determinante della dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 fu la Convenzione Interamericana per Prevenire, Sanzionare e Sradicare la Violenza contro le Donne adottata dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) a Belém do Parà nel 1994 che rappresenta una normativa internazionale vincolante per gli Stati che la hanno ratificata.
Il termine ’femminicidio’ così come lo conosciamo
oggi, fu introdotto nel gergo comune solo più tardi. Anche se alcune
fonti segnalano che in lingua inglese veniva usato già nel 1801 per
indicare gli omicidi di donne, si tratta nell’accezione odierna del
termine, di un neologismo introdotto nel 1992 dalle femministe
statunitensi Jill Radford e Diana Russel nel titolo del loro libro ’Feminicide: The politcs of woman killing’.
La parola fu poi usata, e divenne da allora di uso corrente, dall’antropologa e politica messicana Marcela Lagarde per indicare gli omicidi ’seriali’ commessi contro le giovani donne e adolescenti di Ciudad Juárez, una
cittadina messicana al confine settentrionale con gli Stati Uniti. Si
calcola che dal 1993, anno in cui si registrò il primo caso, ad oggi, a
Ciudad Juárez siano state uccise circa mille donne, di età compresa tra i 12 e i 30 anni, di umili origini, per lo più studentesse e lavoratrici delle locali maquilas (fabbriche delle zone franche dove si assemblano i prodotti destinati all’esportazione).
Sequestrate all’uscita di scuola o del lavoro, violentate, spesso
torturate, i loro corpi martoriati gettati nelle periferie sabbiose
della cittadina dopo essere stati utilizzati come macabri giocattoli
nella mani delle bande di narcos o di potenti signorotti locali. L’impunità regna sovrana a Juárez, tanto da far dichiarare ad Amnesty International che la città possiede uno dei tassi di impunità più alti del pianeta, rispetto agli omicidi delle donne.
Secondo l’autorevole quotidiano messicano ’La Jornada’, soltanto nel 2010 i casi di femminicidio a Juárez sono stati 469, “più del 50 per cento di tutti quelli commessi nei 16 anni precedenti”
. In Italia il termine femminicidio è apparso sulle pagine dei giornali
poco tempo dopo, prima come riferimento esclusivo al caso delle ’morti
di Juárez’, poi entrato anche nel nostro linguaggio comune per indicare l’uccisione di una donna per il solo fatto di essere donna.
In America latina e centrale la componente machista, che
come abbiamo visto ebbe un suo ruolo, anche se non
determinante, nell’omicidio delle sorelle Mirabal, ancora oggi
rappresenta un aspetto importante all’origine della maggior parte dei
casi di femminicidio nella regione. Ne rappresenta un fattore culturale o
di costume, ma che è solo la facciata, a volte tragica, a volte
solo caricaturale, ma non meno grave, di un rapporto a svantaggio della
donna in termini di accesso al lavoro e agli studi e quindi di
indipendenza economica.
Volendo esprimere il concetto con le parole della dichiarazione dell’ONU del 1993, il machismo rappresenta uno di quei meccanismi “per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.
Le violenze di genere testimoniano comunque che le donne sempre e in
ogni latitudine sono soggette a una doppia forma di discriminazione,
quella di genere e quella di classe (nel caso delle donne migranti
si aggiunge la componente discriminatoria della razza). Sono le donne
delle fasce sociali più povere, quelle delle campagne, le contadine, le
donne indigene, che subiscono più violentemente ogni forma forma di
discriminazione. Sebbene studi recenti rivelano che il numero dei femminicidi in America latina e centrale siano in aumento -
nonostante lo siano anche gli indici di crescita economica e nonostante
la regione sia avviata ormai verso una fase di consolidamento della
democrazia rispetto ai decenni passati, e quindi non sono direttamente
correlati alla povertà e povertà estrema - è evidente che il sistema capitalista che concede il potere dei capitali e dei mezzi di produzione, generalmente gli uomini, può
considerarsi come punto focale e causa della violenza di genere. Come
ebbe a dire una volta Hugo Chávez, presidente del Venezuela, “il capitale è machista”.
Oltre alla tesi marxista dell’origine della violenza di genere che
inquadra lo sfruttamento, la subordinazione e la discriminazione delle
donne relativamente alla struttura capitalista e patriarcale, altri studiosi fanno risalire l’origine delle problematiche di genere in America latina alla conquista e alla colonizzazione spagnola.
Oggi, invece, a determinare la drammaticità di una situazione di per
sé già gravissima è l’aumento degli alti indici di violenza in generale
che si registrano nella regione, la diffusione ormai fuori da ogni
controllo del narcotraffico e della criminalità ad
esso collegata, che trascina con sé un numero indescrivibile di violenze
commesse contro le donne e di femminicidi. A questo vanno aggiunte la fragilità e l’inefficienza strutturale dei sistemi giudiziari e della pubblica sicurezza.
Moni Pizani, rappresentante del Fondo di Sviluppo
delle Nazioni Unite per la Donna – Regione Andina, in un recente
incontro tenutosi a Panama ha affermato che nella in America latina più del 40 per cento delle donne sono state vittima di violenza fisica e il tasso dei maltrattamenti psicologici a danno delle donne nelle relazioni di coppia si colloca in un 50 per cento.
Tuttavia la situazione è tragica soprattutto in quello che lei definisce ’triangolo nero’
e cioè la regione compresa tra Guatemala, Salvador e Honduras. Il
Centroamerica infatti, è l’area dove più forti e violente si manifestano
le contraddizioni tra i modelli che provengono dal
nord e che spingono verso un ’progresso’ troppo accelerato in ogni
aspetto della vita umana e invece i ritmi naturali caraibici più lenti e
’antichi’.
In Guatemala, uno dei paesi dove la violenza contro le donne raggiunge proporzioni drammatiche, negli ultimi dieci anni 5mila donne sono state sequestrate e assassinate,
nella maggior parte dei casi dopo essere state violentate, torturate e
mutilate; solo nel 2010 secondo dati ONU sono state invece assassinate
675 donne. In Salvador nello stesso anno, 580. In Honduras, nel 2008
sono state 380, e il numero è andato in aumento negli anni successivi al
2009, quando c’è stato un colpo di Stato e sono incrementati anche gli
omicidi e le violenze a sfondo politico.
L’unico aspetto positivo, anche se contraddetto dai dati rispetto
all’impunità il fatto che l’America latina e centrale ha fatto enormi
passi avanti rispetto a quella che è la tipificazione del femminicidio nel
Codice Penale dei vari paesi, Guatemala e Costa Rica già dal 2008 e
2007, poi il Cile nel 2010, due stati del Messico, l’Argentina in
discussione in questi giorni, il Perú, tanto per citarne alcuni.
Fonte:
http://www.lindro.it/America-Latina-aumenta-la-violenza,11675#.UK0N3oZia8C