Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


lunedì 16 settembre 2013

VALLE DEL GIORDANO, UN INTERO VILLAGGIO DEMOLITO

Stamattina i bulldozer israeliani hanno distrutto la comunità di Khirbet Makhool, 120 palestinesi rimasti senzatetto. Dal 2009 trasferiti quasi 4mila palestinesi.

lunedì 16 settembre 2013 11:16



dalla redazione

  Betlemme, 16 settembre 2013, Nena News - Un intero villaggio raso al suolo. È successo questa mattina, all'alba: i bulldozer militari israeliani hanno demolito Khirbet Makhool, comunità palestinese beduina nella Valle del Giordano, nel distretto di Tubas. Centoventi i residenti rimasti senza un tetto sopra le testa, dopo la distruzione delle loro abitazioni e delle strutture agricole del villaggio. Aref Daraghmed, sindaco delle comunità di al-Malih e al-Madarib, ha raccontato all'agenzia palestinese Ma'an News, che le autorità israeliane sono giunte sul posto senza prima inviare alcun ordine di demolizione:"Israele sta tentando di giudaizzare la Valle del Giordano - ha detto Daraghmed - e lo fa attraverso il trasferimento forzato della popolazione palestinese".

La distruzione del villaggio di Khirbet Makhool è solo l'ultima di una lunga serie di demolizioni nella Valle del Giordano, area sotto il controllo civile e militare israeliano, quasi completamente dichiarata "zona militare chiusa". Una politica implementata da tempo, che si accompagna al divieto per i residenti palestinesi di costruire qualsiasi tipo di struttura permanente: obiettivo finale è l'espansione delle colonie agricole israeliane e l'assunzione del totale controllo delle risorse naturali.

Secondo dati dell'agenzia delle Nazioni Unite OCHA, nella Valle del Giordano vivono oggi 60mila palestinesi, per lo più concentrati nella città di Gerico, l'unica in Area A (sotto il controllo civile e militare palestinese). A causa della politica israeliana di trasferimento forzato, oggi solo un quarto della popolazione palestinese vive in Area C, che copre l'87% dell'intera Valle del Giordano. Oltre 9.500 i coloni israeliani residenti in 37 insediamenti illegali.

Una simile politica è finita ad agosto nel mirino di Human Rights Watch, che ha fatto appello al governo di Tel Aviv perché interrompa subito le demolizioni illegali di abitazioni e strutture di proprietà palestinese. "Quando le forze militari israeliane demoliscono ripetutamente case nei Territori Occupati senza dimostrare che si tratta di un'azione necessaria a operazioni militari, si comprende che la sola ragione è costringere le famiglie a lasciare le proprie terre, un crimine di guerra - ha commentato Joe Stork, direttore di HRW Medio Oriente - La politica del processo di pace non rende meno illegali le demolizioni israeliane di case palestinesi".

Secondo il rapporto dell'organizzazione, nei primi otto mesi del 2013 sono già state distrutte 420 strutture e 716 persone sono state cacciate dalle loro terre e dalle loro comunità in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Dal 2009, data di insediamento del governo Netanyahu, secondo dati OCHA, le forze israeliane hanno costretto 3.799 palestinesi a lasciare le proprie case; nello stesso periodo, quasi 4.600 unità abitative per coloni sono state costruite negli insediamenti di Gerusalemme Est e Cisgiordania.

La giustificazione che Tel Aviv dà a tale politica è la mancanza di permessi di costruzione. Permessi quasi impossibili da ottenere: in oltre il 90% dei casi le autorità israeliane non concedono alle famiglie palestinesi il permesso di costruire in Area C, costringendole ad agire senza copertura legale e a restare in attesa di una prossima demolizione. Nena News.




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Concerto per Aldrovandi, ecco il programma

Anche Marina Rei e Massimo Bubola suoneranno a Ferrara per ricordare Federico Aldrovandi a otto anni dall'omicidio. Continua la raccolta fondi.

lunedì 9 settembre 2013 17:07


 








Sabato 21 settembre 2013, dalle 16 in poi si terrà all'Ippodromo di Ferrara il concerto per commemorare Federico Aldrovandi, ucciso durante un violentissimo "controllo" di polizia, il 25 settembre di otto anni prima. Quattro agenti sono stati condannati in via definitiva per l'omicidio colposo e altri poliziotti sono sotto processo per i depistaggi innescati nei momenti successivi all'uccisione.

Suoneranno: I Nuovi Ranti, Dubby Dub, Hate the Nation, Massimo Bubola, Alessandro Fiori, Appino, Marina Rei, Majacovich, Strike. Continua la campagna di raccolta fondi.



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Rostagno, il ricordo a 25 anni dall’omicidio tra un processo infinito e disinformazione



Di Leandro Perrotta | 1 settembre 2013

Sono passati venticinque anni dalla morte del sociologo, politico e giornalista, ucciso il 26 settembre 1988 a poca distanza dalla comunità Saman da lui fondata. E che per anni, in una delle ipotesi seguite per le indagini, è stata considerata come implicata nel delitto. Prima di arrivare al processo attuale e alla pista mafiosa. «Sono già 55 le udienze nel processo, che è complicatissimo e di cui nessuno parla», spiega il giornalista Lillo Venezia, che ieri, in un convegno alla Camera del lavoro di Catania, ha proposto la realizzazione di un centro di documentazione su Mauro Rostagno e il processo in corso a Trapani.


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 Sociologo, politico, giornalista: definire le tante anime di Mauro Rostagno, di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’omicidio, non è mai stato semplice. Il convegno organizzato ieri alla Camera del lavoro di Catania, dal titolo Ciao Mauro, non fa molta eccezione alla regola. «Forse, la definizione migliore è questa: “Un comunista che lottava contro il padrone della Sicilia, la mafia”», spiega Lillo Venezia, giornalista, citando il collega Riccardo Orioles. Una lotta per la quale ha perso la vita, anche se non c’è ancora una verità processuale che dica perché Rostagno quel 26 settembre del 1988 fu ucciso a Lenzi di Valderice, a poca distanza dalla Saman, la comunità che aveva fondato a pochi chilometri da Trapani. «Il processo ha già avuto 55 udienze, è molto complesso e nessuno ne scrive. O spesso lo fa usando provocazioni giornalistiche», ricorda Venezia. Che propone la costituzione di un centro di documentazione, che raccolga innanzitutto gli atti del difficile processo in corso. Per fare «memoria» di quello che fu il personaggio Rostagno, che da Torino arrivò in Sicilia, scegliendo «una dimensione locale, dopo essere stato al centro degli avvenimenti del ’68 in Italia», ricorda il professore di Storia contemporanea Luciano Granozzi.


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Per l’omicidio di Rostagno, tra i fondatori del movimento Lotta Continua, sono state negli anni fatte varie ipotesi: ucciso dalla mafia, o per gli intrecci tra questa e la massoneria e la politica di una Trapani che, afferma Graziella Porto, direttrice del mensile Casablanca, «era una città dove la mafia non esisteva». Negli anni la procura di Trapani ha seguito due piste, che hanno avuto grande spazio sui giornali, a differenza del processo attuale che segue la pista mafiosa. La prima rimanderebbe all’omicidio Calabresi, seguendo un filo logico che parte dalla sua storia nella sinistra extraparlamentare. La seconda rimanderebbe addirittura a una pista interna alla sua comunità Saman. «L’esperienza di Rostagno diede grande valore alla controinformazione e al giornalismo di inchiesta. Oggi purtroppo non possiamo dimenticare che un giornalista come Marco Travaglio, considerato dai giovani un maestro del genere, è tra i maggiori sostenitori della pista interna», conclude Granozzi.
«Molte leggende metropolitane vengono portate avanti ancora sulla morte di Rostagno», conferma Paolo Brogi, giornalista anche lui in gioventù a Lotta Continua. Ma quelle che sono notizie e fatti realmente emersi dal processo, non hanno avuto altrettanto successo sui media. «Il cadavere di Don Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo che ordinò di uccidere Rostagno, fu trovato nei terreni dei D’Alì – racconta Brogi – Qualche mese fa il ministro della Giustizia Annamaria Cancelleri andò a Trapani a firmare un protocollo antimafia proprio a braccetto con il senatore Antonio D’Alì. Se avesse letto qualcosa del processo in corso non lo avrebbe fatto», ricorda Brogi. Che spende anche parole di stima nei confronti di Rino Giacalone, «l’unico giornalista che segue con costanza il processo, che è stato costretto a lasciare il suo posto nel quotidiano catanese e ora fa il collaboratore per il Fatto quotidiano», conclude Brogi, senza dire esplicitamente il nome del quotidiano La Sicilia.
Per Nadia Furnari, dell’associazione antimafie Rita Atria, «se i giornalisti facessero il loro lavoro, se i giornali facessero informazione, le parole di Rostagno citate avrebbero un senso, per fare memoria». E ricorda le posizioni antimilitariste di Rostagno, in particolare sulla base Nato di Sigonella, e come oggi non ci sia nulla di diverso con la lotta contro il Muos. Per lo scrittore Ottavio Cappellani, invece, il fatto che non si parli del processo Rostagno sui giornali è dovuto alle emergenze della cronaca su altri fatti di mafia, «come la trattativa Stato-mafia». Ma il motivo principale sarebbe che «il processo Rostagno è un fallimento della magistratura che non si può mostrare».
Daniele Lo Porto, segretario provinciale di Assostampa, annuncia che «l’associazione di categoria cercherà di dare supporto al centro di documentazione, ma non materiale, solo morale». Sara Fagone, della Cgil, nel portare i saluti del sindacato ai presenti conclude il suo intervento con una considerazione di carattere generale. «Non esistono eroi, solo persone che fanno bene e fino in fondo il proprio dovere». E così fu per il sociologo politico Mauro Rostagno, giornalista con uno stile unico nella sua radio tele Cine. «Tutta Trapani, arrivati alle due del pomeriggio, si fermava per guardare il suo telegiornale», ricorda Brogi.



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20 anni fa la Mafia uccideva Don Pino Puglisi

17:47

Nel giorno del suo 56esimo compleanno il padre palermitano veniva ammazzato con dei colpi di pistola alla nuca praticamente sotto casa sua. Da quel giorno la giustizia ordinaria ha fatto il suo dovere e Don Puglisi è stato beatificato: bisogna capire se gli uomini abbiano saputo comprendere il suo messaggio e attuarlo.

20 anni fa la Mafia uccideva Don Pino Puglisi.


Bastano poche parole per ricordare Don Puglisi, è sufficiente la calma serafica con la quale, secondo le testimonianze del pentito Salvatore Grigolo, esecutore del suo omicidio insieme a Gaspare Spatuzza, il prete siciliano affermò prima di essere ucciso “Me lo aspettavo”. Ci immaginiamo anche un sorriso beffardo sulle sue labbra, come a voler schernire chi stava tentando di fermare le sue parole mettendo fine alla sua vita. Ma le parole di Don Puglisi hanno continuato a camminare, questo è indubbio. Lo sa per primo lo stesso Grigolo, che dopo le sue confessioni sembra essersi indirizzato ad un processo di redenzione. Era il 15 settembre del 1993 quando, sulla porta di casa sua, al parroco venivano sparati colpi di pistola alla nuca. Quella di Don Puglisi è una storia che ha commosso l'Italia e continua a farlo oggi, dimostrazione concreta di una terra che può cambiare, che potrebbe cambiare, ma che non può farlo se si appella agli atti eroici di pochi, che in fondo eroi non sono. La sua beatificazione, confermata il 25 maggio di quest'anno, riconosce al primo martire della chiesa per mani della mafia un valore sociale e culturale che non bisogna correre il rischio di dimenticare.
Perché se da una parte la giustizia ordinaria si è prodigata nel cercare i colpevoli, al suo fianco dovrebbe persistere nel camminare quella straordinaria di giustizia, la memoria. E' vero, che queste parole vengano spese solo in occasione di una ricorrenza pare pretestuoso, opportunistico, di maniera. Don Puglisi non va incensato perché probabilmente non avrebbe voluto. A far parlare di lui non dovrebbe essere la ricorrenza ventennale della sua morte in sé, quanto la ricorrenza quotidiana di ciò che ha fatto e detto per la proprio terra, per il rispetto della propria dignità di uomo di chiesa. Ma anche di uomo e basta.



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