Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


mercoledì 23 maggio 2012

Luigi Di Rosa




di Andrea Barbera 

È il 28 maggio 1976. L'Italia è percorsa in lungo e largo dai molti comizi elettorali che precedono le imminenti elezioni politiche fissate per il successivo 20 giugno. A Sezze Romano, cittadina in provincia di Latina, è previsto il comizio di Sandro Saccucci, importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Ex paracadutista e sospettato di aver partecipato al tentato golpe orchestrato nel dicembre del 1970 dal principe Junio Valerio Borghese con l'aiuto di settori «deviati» di istituzioni e servizi segreti, il Saccucci giunge nel centro pontino con un manipolo di fedelissimi. La scelta della città è quanto mai provocatoria: Sezze è un centro tradizionalmente antifascista. L'adunata è prevista per il tardo pomeriggio e attorno alle 19,30 un corteo di sette o otto auto entra in paese. A bordo degli automezzi, tra gli altri, vi sono fascisti di dichiarata fede come: Pietro Allatta, suo figlio Benito e sua sorella Palma; Ida Veglianti, Mauro Camalieri, Sandro Grasselli, Massimo Gabrielli e un certo Russini, tutti provenienti da Aprilia; Filippo Alviti di Bassiano; Spagnolo e Mangani di Latina; il segretario locale della Cisnal Del Piano; Alessandro Petrianni, Virgilio Grassocci e Antonio Contento di Sezze; Calogero Aronica e Salvatore Trimarchi del Portuense; Gabliele Pirone, segretario della sezione missina della Magliana, Roma. Il manipolo si reca in piazza IV Novembre, luogo per il previsto raduno. Dal palco su cui sale Saccucci, vi sono molti camerati armati di bastoni e pistole. Le forze di polizia presenti non sembrano molto interessate e rimangono in disparte. La tensione è alta: i fascisti vogliono provocatoriamente portare avanti il comizio nonostante si trovino in netta minoranza. Ad un certo punto Saccucci dice: «Noi siamo un partito delle mani pulite!» e quando la piazza risponde con bordate di fischi e canti inneggianti il comunismo, l'ex parà, innervosito, aggiunge: «Non volete sentirmi con le buone, mi sentirete con queste» ed inizia a sparare. Saccucci si sarebbe poi dato alla fuga dirigendosi con il corteo delle altre auto fuori dal paese esplodendo numerosi colpi. Quando il seguito delle macchine giunge nella zona detta del «Ferro di cavallo», un proiettile, esploso da una «mano» che fuoriesce dall'auto di Saccucci, colpisce alla gamba sinistra il giovane Antonio Spirito, studente-lavoratore militante di Lotta continua. Un altro colpo centra quasi contemporaneamente Luigi Di Rosa. Il ragazzo morirà in ospedale dopo circa due ore di agonia. In realtà, come le indagini balistiche condotte dalla polizia scientifica dimostreranno, Luigi viene investito da due diverse pallottole: la prima, dello stesso calibro di quella che aveva colpito in precedenza Antonio Spirito, gli ferisce la mano; una seconda, di diverso calibro e quindi presumibilmente esplosa da una mano diversa, centrerà Luigi nella zona del basso ventre, causandone la ferita mortale. Di Rosa, padre muratore e madre casalinga, aveva ventuno anni e frequentava l'ultimo anno di un istituto tecnico di Latina. Era un militante, come suo padre, del Pci ed era iscritto alla Fgci.
L'iter giudiziario che ha tentato di fare luce sull'accaduto è stato lungo e tortuoso e a conclusione dei vari processi ha pagato solamente un «pesce piccolo»: Pietro Allatta, condannato in primo grado a tredici anni di cui otto effettivamente scontati in virtù di vari sconti di pena. L'Allatta è stato ritenuto colpevole di aver impugnato l'arma che ha colpito prima Spirito poi Di Rosa; non si è tuttavia tenuto conto delle prove balistiche e del referto medico secondo cui si afferma che Luigi era stato colpito da due pallottole di calibro diverso; ciò avvalora la tesi secondo la quale gli attentatori furono più di uno. Le indagini non hanno mai chiarito inoltre la presenza a Sezze di un ex maresciallo dei Carabinieri e agente del Sid, Francesco Troccia. Questi risulterà essere legato ad un altro personaggio avvistato quel giorno: Gabriele Pirone, segretario del Msi della Magliana, nonché proprietario dell'immobile in cui viveva lo steso Troccia. Quest'ultimo, sospettato di essere presente al comizio in qualità di «agente provocatore», sarà arrestato per un breve periodo con l'accusa di favoreggiamento: avrebbe impedito l'arresto di Saccucci. Sulla figura del dirigente missino è invece sceso un fitto velo di ombra fatto di depistaggi, appoggi politici e interminabili processi dagli esiti contradditori. Rieletto nel Parlamento della Repubblica con il doppio dei voti che aveva ottenuto nella precedente legislatura, il 27 luglio 1976 la Camera dei Deputati ne autorizza l'arresto con le pesanti accuse di: «omicidio di Luigi Di Rosa, cospirazione politica e istigazione all'insurrezione armata per il cosiddetto golpe Borghese». In altre parole l'onorevole Saccucci, non è mai stato «uno stinco di santo»; ma questi, informato anticipatamente da «ignoti» del suo imminente arresto, si rende «irreperibile» trovando rifugio nel Regno Unito dove rimarrà fino al 1980. Divenuto successivamente persona non più gradita alle autorità inglesi, trova riparo in Francia dove però subisce un primo breve arresto. La scarcerazione, si legge in una rogatoria, avviene in tempi brevissimi e grazie agli interventi di don Sixto di Borbone, del prefetto di Parigi e di un tale Jacques Susini, amico di Stefano Delle Chiaie, altro personaggio controverso già coinvolto nella stage di Piazza Fontana e «collega» ai tempi del golpe Borghese dello stesso Saccucci. Successivamente il fascista prosegue la sua fuga in Spagna, dove evita un nuovo arresto grazie ad un depistaggio organizzato con il sostegno di settori dei servizi segreti spagnoli: alle autorità italiane che lo ricercano, si fa credere che Saccucci non si trovi più in Spagna ma che sia fuggito in un paese sudamericano. Effettivamente, qualche tempo dopo, il ricercato ripara prima in Cile, poi in Argentina dove, attualmente, vivrebbe nella città di Córdoba. A livello penale, l'ex deputato missino è stato assolto in ultima istanza per i reati relativi alla vicenda Borghese e all'omicidio di Di Rosa. Rimane processabile solo per piccoli reati marginali legati delitto di Sezze.
La memoria di Luigi è stata infangata non solo dal fatto che nessuno abbia mai veramente pagato per la sua uccisione, ma anche per i ripetuti attentati al monumento posto, ad un anno dal suo omicidio, dall'Amministrazione Comunale in ricordo di tutte le vittime dell'antifascismo e culminato con la spregevole profanazione della sua tomba avvenuta nel 1978. Anche per quelle vicende, gli autori sono rimasti nell'oscurità.
Noi lo ricordiamo con quelle stesse parole che vennero pronunciate in un comizio antifascista all'indomani della sua morte: «Luigi era giovane, ma non troppo giovane per capire e battersi per la strada giusta. Non troppo giovane per cadere dalla parte giusta, come i partigiani di trent'anni fa, che erano poco più che ragazzi, come i nuovi partigiani di questi anni: Saltarelli e Mario Lupo, Serantini, Argada, Franceschi, Zibecchi e Varalli e Micciché e Brasili e Pietro Bruno e Mario Salvi».

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Alberto Brasili




Alberto Brasili e la sua fidanzata Lucia Corna furono aggrediti alle 22.30 di domenica 25 maggio 1975 in via Mascagni a Milano.
Cinque fascisti - Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi, Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco - li avevano seguiti fin da piazza San Babila perchè erano vestiti da comunisti e avevano osato sfiorare un manifesto del Msi. L'agguato scattò di fronte alla sede provinciale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia: "Li ho sentiti arrivare quando erano ormai alle nostre spalle - raccontò poi Lucia - e ho visto luccicare le lame dei coltelli. Uno dei cinque mi ha afferrata e ha cominciato a colpirmi mentre gli altri si accanivano su Alberto."
Raggiunto da cinque fendenti a organi vitali, Brasili spirò poco dopo il suo arrivo all'ospedale Fatebenefratelli con il cuore spaccato da una coltellata. E Corna, colpita due volte all'emitorace sinistro, sfuggì alla morte solo perché la lama aveva mancato il suo cuore di pochi centimetri.
"Il delitto - scrisse il Manifesto due giorni dopo - è tanto più impressionante in quanto ha chiaramente i connotati dell'azione terroristica. Alberto Brasili non era un compagno conosciuto, era un lavoratore studente che frequentava le scuole serali, l'ultimo anno dell'istituto tecnico industriale Settembrini, e il giorno lavorava per una ditta di antifurti elettrici, la Adt. Faceva questa vita dall'età di 14 anni perché in famiglia c'era bisogno di soldi.
Brasili, dichiararono preside, professori e studenti del Settembrini, era sicuramente di sinistra e impegnato nelle lotte per il diritto allo studio. Nel 1970 aveva partecipato all'occupazione della sua scuola per l' introduzione del biennio sperimentale ed era anche stato identificato dalla polizia quando il Settembrini fu sgomberato. Non per questo, però, era più conosciuto di altri, e poi di giovani come lui in quegli anni a Milano ce n'erano decine di migliaia. E allora, perché ucciderlo?
"Non è - rispose Stefano Bonilli su il Manifesto del 27 maggio 75 - come alcuni giornali hanno tentato di accreditare, un errore di persona, è un delitto fascista che si lega perfettamente al clima che la destra sta preparando in Milano in vista del comizio di giovedì, anniversario della strage di Brescia. Per quel giorno il Msi ha in programma di aprire la campagna elettorale con una manifestazione in piazza degli Affari, a pochi metri da piazza del Duomo. Milano però ha negato tutte le sue piazze ai fascisti per bocca del suo sindaco, il quale dopo l'assassinio di Claudio Varalli aveva preso solennemente questo impegno. Questa uccisione a freddo, apparentemente inspiegabile, - concluse il Manifesto - ha lo stesso impatto psicologico di un attentato dinamitardo".

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