Di
Sergio
Sinigaglia
Alceste
Campanile viene ucciso la notte del 12 giugno del 1975. Il corpo senza vita
viene ritrovato in un tratto di campagna vicino la strada provinciale
Montecchio- Sant'Ilario, in prossimità di Reggio Emilia. Ad ucciderlo è stata
una calibro 7,65. Alceste aveva 21 anni e militava in Lotta Continua. Era da
tutti ben voluto e stimato per il suo carattere solare. Amava la chitarra e la
musica rock, e madre natura gli aveva regalato una bellissima voce. Nonostante
che il suo omicidio avvenga in un contesto nazionale caratterizzato da un
continuo susseguirsi di violenze e agguati neofascisti, l'inchiesta prende una
strana piega. Infatti gli inquirenti iniziano a interrogare i compagni di
Alceste e numerose abitazioni di militanti di Lotta Continua subiscono accurate
e pesanti perquisizioni. Il pretesto lo dà un biglietto con un numero
telefonico di Napoli. Chi indaga fa filtrare che si tratta di un recapito di un
noto esponente dei Nap, Nuclei Armati Proletari, una formazione clandestina
fondata da fuoriusciti di LC. Ci vuole poco tempo per far cadere la montatura e
verificare che il telefono è di Goffredo Fofi, compagno di Lotta Continua, noto
intellettuale e animatore della "mensa dei bambini proletari",
esperienza verso la quale Alceste era fortemente interessato. Ma la "pista
rossa" non cade. Anzi è alimentata da Vittorio Campanile, padre di
Alceste, che, coerentemente con le sue idee di destra, avvia una forsennata
campagna contro gli amici e le amiche del figlio, nonostante gli altri
famigliari siano di opinioni molto diverse. Inizia così una lunga vicenda che
si concluderà solo trent'anni dopo con la confessione di Paolo Bellini
squadrista di allora che ammetterà le proprie colpe. In mezzo un zig zag
giudiziario che arriva anche ad ipotizzare, sempre in nome della "pista
rossa", un collegamento con lo sciagurato sequestro dell'ingegnere Carlo
Saronio, conclusosi tragicamente, attuato da un ex militante di Potere Operaio,
Carlo Fioroni, in combutta con un gruppo della mala milanese. Si ipotizza che
Alceste, tramite un'amicizia di adolescenza con un esponente reggiano
dell'Autonomia possibile basista per il riciclo del denaro frutto del
sequestro, non volendo, avrebbe visto ciò che non doveva. Invece la verità era
quella che sin dall'inizio avevano denunciato chiaramente i compagni di
Alceste. Gli assassini erano fascisti. Bellini confessa e chiama in causa altri
due camerati Roberto Leoni, l'altro esecutore dell'assassinio, e Piero Firomani
che avrebbe fato sparire l'arma. Entrambi, naturalmente, respingono ogni
addebito, ma per la giustizia Paolo Bellini, reoconfesso, è sicuramente
colpevole. Solo che la sua collaborazione per far emergere la verità, viene
premiata e l'accusa da "omicidio premeditato" diventa
"semplice", in modo che così possa andare in prescrizione. Ancora una
volta ingiustizia è fatta!
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