Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


lunedì 28 maggio 2012

LA STRAGE DI PIAZZA DELLA LOGGIA

28 maggio

 E' il 28 Maggio 1974 quando a Brescia in Piazza della Loggia,in mattinata venne fatta esplodere una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti, mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista.
L'attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue.

Dalle indagini, la prima istruttoria della magistratura portò alla condanna nel 1979 di alcuni esponenti dell'estrema destra bresciana. Dopo l'assoluzione; un secondo filone di indagine, sorto nel 1984 a seguito delle rivelazioni di alcuni pentiti, mise sotto accusa altri rappresentanti della destra eversiva; nuovamente gli imputati furono assolti in primo grado nel 1987, per insufficienza di prove, e prosciolti in appello nel 1989.

Nel corso di tutte le indagini e i procedimenti giudiziari relativi alla strage, si è costantemente fatta largo l'ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti e di apparati dello Stato nella vicenda.
Il fatto più eclatante scaturito dalle indagini, fu in primo luogo l'ordine proveniente da ambienti istituzionali, tutt'oggi sconosciuti, impartito meno di due ore dopo la strage affinché una squadra di pompieri ripulisse con le autopompe il luogo dell'esplosione, spazzando via indizi, reperti e tracce di esplosivo prima che alcun magistrato o perito potesse effettuare alcun sopralluogo o rilievo.
In seguito,anche la misteriosa scomparsa di reperti prelevati in ospedale dai corpi dei feriti e dei cadaveri destò sospetti, insieme all'ultima e recente perizia antropologica in cui si è individuata in una fotografia di quel giorno la presenza sul luogo di Maurizio Tramonte, militante di Ordine Nuovo e collaboratore del SID.


Durante la terza ed ultima istruttoria, il 19 maggio 2005 la Corte di Cassazione ha confermato la richiesta di arresto per Delfo Zorzi. Oggi cittadino giapponese, non estradabile, con il nome di Hagen Roi; per il coinvolgimento nella strage di Piazza della Loggia.
Il 15 maggio 2008 sono stati rinviati a giudizio sei imputati: tre esponenti e militanti di spicco di Ordine Nuovo, un capitano del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia e un collaboratore del ministro degli Interni del tempo, Paolo Emilio Taviani.
Il 21 ottobre 2010, dopo cinque giorni e mezzo di ricostruzione delle accuse, i pubblici ministeri titolari dell'inchiesta, hanno formulato l'accusa di concorso in strage per tutti gli imputati, ad eccezione di Pino Rauti, per il quale è stata invece chiesta l'assoluzione per insufficienza di prove, pur sottolineando la sua responsabilità morale e politica per la strage.


Il 16 novembre 2010 la Corte D'Assise ha emesso la sentenza di primo grado della terza istruttoria, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove.
Il filone d'indagine è stato quindi modificato svariate volte nel corso del tempo, ancora una volta senza che si sia trovato un colpevole.
Dopo l'ultima sentenza si è così espresso il presidente dell'Associazione familiari caduti della strage di Piazza della Loggia: "I processi per strage non possono più entrare in un'aula di giustizia. Capisco che la verità giudiziaria, diversa da quella storica, sia difficile da trovare ma a questo punto non è facile avere fiducia nelle istituzioni".

Fonte:

mercoledì 23 maggio 2012

Luigi Di Rosa




di Andrea Barbera 

È il 28 maggio 1976. L'Italia è percorsa in lungo e largo dai molti comizi elettorali che precedono le imminenti elezioni politiche fissate per il successivo 20 giugno. A Sezze Romano, cittadina in provincia di Latina, è previsto il comizio di Sandro Saccucci, importante esponente del Movimento Sociale Italiano. Ex paracadutista e sospettato di aver partecipato al tentato golpe orchestrato nel dicembre del 1970 dal principe Junio Valerio Borghese con l'aiuto di settori «deviati» di istituzioni e servizi segreti, il Saccucci giunge nel centro pontino con un manipolo di fedelissimi. La scelta della città è quanto mai provocatoria: Sezze è un centro tradizionalmente antifascista. L'adunata è prevista per il tardo pomeriggio e attorno alle 19,30 un corteo di sette o otto auto entra in paese. A bordo degli automezzi, tra gli altri, vi sono fascisti di dichiarata fede come: Pietro Allatta, suo figlio Benito e sua sorella Palma; Ida Veglianti, Mauro Camalieri, Sandro Grasselli, Massimo Gabrielli e un certo Russini, tutti provenienti da Aprilia; Filippo Alviti di Bassiano; Spagnolo e Mangani di Latina; il segretario locale della Cisnal Del Piano; Alessandro Petrianni, Virgilio Grassocci e Antonio Contento di Sezze; Calogero Aronica e Salvatore Trimarchi del Portuense; Gabliele Pirone, segretario della sezione missina della Magliana, Roma. Il manipolo si reca in piazza IV Novembre, luogo per il previsto raduno. Dal palco su cui sale Saccucci, vi sono molti camerati armati di bastoni e pistole. Le forze di polizia presenti non sembrano molto interessate e rimangono in disparte. La tensione è alta: i fascisti vogliono provocatoriamente portare avanti il comizio nonostante si trovino in netta minoranza. Ad un certo punto Saccucci dice: «Noi siamo un partito delle mani pulite!» e quando la piazza risponde con bordate di fischi e canti inneggianti il comunismo, l'ex parà, innervosito, aggiunge: «Non volete sentirmi con le buone, mi sentirete con queste» ed inizia a sparare. Saccucci si sarebbe poi dato alla fuga dirigendosi con il corteo delle altre auto fuori dal paese esplodendo numerosi colpi. Quando il seguito delle macchine giunge nella zona detta del «Ferro di cavallo», un proiettile, esploso da una «mano» che fuoriesce dall'auto di Saccucci, colpisce alla gamba sinistra il giovane Antonio Spirito, studente-lavoratore militante di Lotta continua. Un altro colpo centra quasi contemporaneamente Luigi Di Rosa. Il ragazzo morirà in ospedale dopo circa due ore di agonia. In realtà, come le indagini balistiche condotte dalla polizia scientifica dimostreranno, Luigi viene investito da due diverse pallottole: la prima, dello stesso calibro di quella che aveva colpito in precedenza Antonio Spirito, gli ferisce la mano; una seconda, di diverso calibro e quindi presumibilmente esplosa da una mano diversa, centrerà Luigi nella zona del basso ventre, causandone la ferita mortale. Di Rosa, padre muratore e madre casalinga, aveva ventuno anni e frequentava l'ultimo anno di un istituto tecnico di Latina. Era un militante, come suo padre, del Pci ed era iscritto alla Fgci.
L'iter giudiziario che ha tentato di fare luce sull'accaduto è stato lungo e tortuoso e a conclusione dei vari processi ha pagato solamente un «pesce piccolo»: Pietro Allatta, condannato in primo grado a tredici anni di cui otto effettivamente scontati in virtù di vari sconti di pena. L'Allatta è stato ritenuto colpevole di aver impugnato l'arma che ha colpito prima Spirito poi Di Rosa; non si è tuttavia tenuto conto delle prove balistiche e del referto medico secondo cui si afferma che Luigi era stato colpito da due pallottole di calibro diverso; ciò avvalora la tesi secondo la quale gli attentatori furono più di uno. Le indagini non hanno mai chiarito inoltre la presenza a Sezze di un ex maresciallo dei Carabinieri e agente del Sid, Francesco Troccia. Questi risulterà essere legato ad un altro personaggio avvistato quel giorno: Gabriele Pirone, segretario del Msi della Magliana, nonché proprietario dell'immobile in cui viveva lo steso Troccia. Quest'ultimo, sospettato di essere presente al comizio in qualità di «agente provocatore», sarà arrestato per un breve periodo con l'accusa di favoreggiamento: avrebbe impedito l'arresto di Saccucci. Sulla figura del dirigente missino è invece sceso un fitto velo di ombra fatto di depistaggi, appoggi politici e interminabili processi dagli esiti contradditori. Rieletto nel Parlamento della Repubblica con il doppio dei voti che aveva ottenuto nella precedente legislatura, il 27 luglio 1976 la Camera dei Deputati ne autorizza l'arresto con le pesanti accuse di: «omicidio di Luigi Di Rosa, cospirazione politica e istigazione all'insurrezione armata per il cosiddetto golpe Borghese». In altre parole l'onorevole Saccucci, non è mai stato «uno stinco di santo»; ma questi, informato anticipatamente da «ignoti» del suo imminente arresto, si rende «irreperibile» trovando rifugio nel Regno Unito dove rimarrà fino al 1980. Divenuto successivamente persona non più gradita alle autorità inglesi, trova riparo in Francia dove però subisce un primo breve arresto. La scarcerazione, si legge in una rogatoria, avviene in tempi brevissimi e grazie agli interventi di don Sixto di Borbone, del prefetto di Parigi e di un tale Jacques Susini, amico di Stefano Delle Chiaie, altro personaggio controverso già coinvolto nella stage di Piazza Fontana e «collega» ai tempi del golpe Borghese dello stesso Saccucci. Successivamente il fascista prosegue la sua fuga in Spagna, dove evita un nuovo arresto grazie ad un depistaggio organizzato con il sostegno di settori dei servizi segreti spagnoli: alle autorità italiane che lo ricercano, si fa credere che Saccucci non si trovi più in Spagna ma che sia fuggito in un paese sudamericano. Effettivamente, qualche tempo dopo, il ricercato ripara prima in Cile, poi in Argentina dove, attualmente, vivrebbe nella città di Córdoba. A livello penale, l'ex deputato missino è stato assolto in ultima istanza per i reati relativi alla vicenda Borghese e all'omicidio di Di Rosa. Rimane processabile solo per piccoli reati marginali legati delitto di Sezze.
La memoria di Luigi è stata infangata non solo dal fatto che nessuno abbia mai veramente pagato per la sua uccisione, ma anche per i ripetuti attentati al monumento posto, ad un anno dal suo omicidio, dall'Amministrazione Comunale in ricordo di tutte le vittime dell'antifascismo e culminato con la spregevole profanazione della sua tomba avvenuta nel 1978. Anche per quelle vicende, gli autori sono rimasti nell'oscurità.
Noi lo ricordiamo con quelle stesse parole che vennero pronunciate in un comizio antifascista all'indomani della sua morte: «Luigi era giovane, ma non troppo giovane per capire e battersi per la strada giusta. Non troppo giovane per cadere dalla parte giusta, come i partigiani di trent'anni fa, che erano poco più che ragazzi, come i nuovi partigiani di questi anni: Saltarelli e Mario Lupo, Serantini, Argada, Franceschi, Zibecchi e Varalli e Micciché e Brasili e Pietro Bruno e Mario Salvi».

Fonte:



Alberto Brasili




Alberto Brasili e la sua fidanzata Lucia Corna furono aggrediti alle 22.30 di domenica 25 maggio 1975 in via Mascagni a Milano.
Cinque fascisti - Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi, Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco - li avevano seguiti fin da piazza San Babila perchè erano vestiti da comunisti e avevano osato sfiorare un manifesto del Msi. L'agguato scattò di fronte alla sede provinciale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia: "Li ho sentiti arrivare quando erano ormai alle nostre spalle - raccontò poi Lucia - e ho visto luccicare le lame dei coltelli. Uno dei cinque mi ha afferrata e ha cominciato a colpirmi mentre gli altri si accanivano su Alberto."
Raggiunto da cinque fendenti a organi vitali, Brasili spirò poco dopo il suo arrivo all'ospedale Fatebenefratelli con il cuore spaccato da una coltellata. E Corna, colpita due volte all'emitorace sinistro, sfuggì alla morte solo perché la lama aveva mancato il suo cuore di pochi centimetri.
"Il delitto - scrisse il Manifesto due giorni dopo - è tanto più impressionante in quanto ha chiaramente i connotati dell'azione terroristica. Alberto Brasili non era un compagno conosciuto, era un lavoratore studente che frequentava le scuole serali, l'ultimo anno dell'istituto tecnico industriale Settembrini, e il giorno lavorava per una ditta di antifurti elettrici, la Adt. Faceva questa vita dall'età di 14 anni perché in famiglia c'era bisogno di soldi.
Brasili, dichiararono preside, professori e studenti del Settembrini, era sicuramente di sinistra e impegnato nelle lotte per il diritto allo studio. Nel 1970 aveva partecipato all'occupazione della sua scuola per l' introduzione del biennio sperimentale ed era anche stato identificato dalla polizia quando il Settembrini fu sgomberato. Non per questo, però, era più conosciuto di altri, e poi di giovani come lui in quegli anni a Milano ce n'erano decine di migliaia. E allora, perché ucciderlo?
"Non è - rispose Stefano Bonilli su il Manifesto del 27 maggio 75 - come alcuni giornali hanno tentato di accreditare, un errore di persona, è un delitto fascista che si lega perfettamente al clima che la destra sta preparando in Milano in vista del comizio di giovedì, anniversario della strage di Brescia. Per quel giorno il Msi ha in programma di aprire la campagna elettorale con una manifestazione in piazza degli Affari, a pochi metri da piazza del Duomo. Milano però ha negato tutte le sue piazze ai fascisti per bocca del suo sindaco, il quale dopo l'assassinio di Claudio Varalli aveva preso solennemente questo impegno. Questa uccisione a freddo, apparentemente inspiegabile, - concluse il Manifesto - ha lo stesso impatto psicologico di un attentato dinamitardo".

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martedì 22 maggio 2012

IL MASSACRO DI TANTURA



<<[…] il 22 maggio 1948, il villaggio fu attaccato di notte. […]
L’offensiva partì da quattro lati , seguendo una tattica insolita; si solito infatti la brigata circondava il villaggio su tre lati, lasciando libero il quarto in modo da consentire alla gente di fuggire. La mancata coordinazione fece sì che le truppe ebraiche accerchiarono completamente il villaggio e si trovarono quindi con un numero molto elevato di abitanti nelle loro mani.
Gli abitanti di Tantura furono condotti in massa alla spiaggia sotto minaccia delle armi. Lì le truppe ebraiche separarono gli uomini dalla donne e dai bambini, che furono trasferiti nella vicina Furaydis, dove alcuni degli uomini le raggiunsero dopo un anno e mezzo. nel frattempo centinaia di uomini erano stati radunati sulla spiaggia e fu ordinato loro di sedersi e aspettare l’arrivo di un ufficiale dei servizi segreti israeliani, Shimshon Mashvitz, che abitava nell’insediamento di Givat Ada, poco distante, e nel cui “distretto" si trovava il villaggio di Tantura.
Mashvitz arrivò insieme a un collaboratore locale, incappucciato come ad Ayn al_Zaytun, e selezionò alcuni uomini tra quelli radunati – per l’esercito isreaeliano, “uomini” significava maschi dai dieci ai cinquant’anni -, che vennero poi condotti a gruppi in un luogo poco distante e giustiziati. La selezione avvenne secondo un elenco preparato in precedenza e tratto dall’archivio di Tantura, ed erano coloro che avevano partecipato all’insurrezione del 1936 e ad attacchi contro le attività commerciali degli ebrei, coloro che avevano contatti contro le attività con il Mufti e chiunque avesse “commesso” uno dei crimini che comportassero automaticamente una condanna.
Questi però non furono gli unici uomini a essere giustiziati. Prima di procedere alla selezione a alle esecuzioni sulla costa, l’unità occupante si era lasciata andare alle uccisioni sfrenate nelle case e nelle strade. Joel Skolnik , geniere nel battaglione, era stato ferito in quest’attacco, ma durante il ricovero  in ospedale sentì dire da altri soldati che questa era stata <una delle più vergognose battaglie dell’esercito israeliano>. Secondo la sua testimonianza, spari provenienti dai cecchini del villaggio contro i soldati avevano provocato un fuggi fuggi tra le truppe ebraiche subito dopo l’occupazione e prima di quanto era accaduto sulla spiaggia. L’attacco ebbe luogo dopo che gli abitanti avevano dato un segno di resa sventolando bandiera bianca.
Skolnik sentì dire che due soldati in particolare si erano scatenati e che avrebbero continuato a uccidere se non fossero arrivati a fermarli alcuni ebrei dal vicino insediamento di Zikhron Yaacov. Fu il capo dell’insediamento, Yaacov Epstein, che riuscì a porre fine all’orgia di uccisioni a Tantura, ma arrivò <troppo tardi>, come ebbe a commentare amaramente un sopravvissuto.
La maggior parte delle uccisioni furono eseguite a sangue freddo sulla spiaggia. Alcune vittime furono dapprima interrogate sulla presunta esistenza di un <enorme deposito> di armi, nascosto da qualche parte nel villaggio. Poiché non sapevano niente – tale deposito non esisteva – furono giustiziati all’istante. Oggi molti dei sopravissuti a questi episodi orrendi vivono nel campo profughi di Yarmik, in Siria, e cercano di superare con grande difficoltà il trauma subito per aver assistito a quelle esecuzioni.
Ecco come un ufficiale ebreo descrisse le esecuzioni a Tantura:

I prigionieri venivano condotti in gruppi 200 metri più in là e poi fucilati. I soldati andavano dal comandante supremo e gli dicevano: <Mio cugino è stato ucciso in uno degli scontri>. Il comandante ordinava alla truppa di prendere un gruppo di cinque, sette persone, condurle da parte e ucciderle. Poi arrivava un altro soldato e diceva che suo fratello era morto in una battaglia. Per un fratello, la punizione era maggiore. Il comandante ordinava alle truppe di prendere un gruppo più numeroso e fucilarlo, e così via.>>


I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008, pp. 167-169.

sabato 19 maggio 2012

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino


 

"Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini."

Giovanni Falcone


 "Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo."

Paolo Borsellino


La strage del Turchino



La Strage del Turchino è il nome di un eccidio di prigionieri politici compiuto dalle SS, durante le prime ore del mattino del 19 maggio 1944 in località Fontanafredda, sulle pendici del Bric Busa, nelle vicinanze del passo del Turchino. Vi trovarono la morte 59 civili italiani.

La strage

La strage seguì di qualche giorno l'attentato al cinema Odeon di Genova, che era stato requisito per essere destinato ad uso esclusivo delle truppe tedesche. L'accesso ai civili italiani era rigorosamente vietato ed un presidio di militari controllava l'identità di chi entrava. Nell'attentato, compiuto alle ore 19 del 15 maggio da un gappista che si era travestito da tenente della Wehrmacht, morirono quattro marinai tedeschi ed altri sedici rimasero feriti, uno dei quali decedette nei giorni successivi.
Le modalità di esecuzione della rappresaglia furono particolarmente crudeli, andando tra l'altro oltre il rapporto di 10 a 1 previsto dal bando di Kesselring, già messo in opera nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Prelevate di notte dal carcere genovese di Marassi, le 59 vittime, molte non ancora ventenni, furono trasportate a bordo di camion al Passo del Turchino e di lì, dopo un percorso di un paio di chilometri, i prigionieri furono condotti fino ai prati del versante meridionale del Bric Busa. In questa località, a gruppi di sei, vennero fatti salire sopra delle tavole, disposte su una grande fossa che il giorno precedente un gruppo di ebrei era stato costretto a scavare, in modo che ognuno, prima di cadervi dentro dopo la scarica di mitra, potesse vedere i cadaveri dei suoi compagni.


Tra le 59 vittime, 17 erano scampate alla Strage della Benedicta compiuta solo un mese prima.
Per la Strage del Turchino e per quelle della Benedicta, di Portofino e di Cravasco, dove trovarono la morte complessivamente 246 persone, Friedrich Engel ex-capo delle SS a Genova, conosciuto anche come il «boia di Genova», è stato condannato all'ergastolo in Italia nel 1999, ma non ha mai scontato la pena in quanto la legge tedesca non ne permetteva l'estradizione. Nel 2002, ad ormai 93 anni, Engel è stato processato ad Amburgo e condannato a sette anni di reclusione per crimini di guerra che non ha scontato a causa dell'età ormai avanzata.
È morto nel 2006 a 97 anni senza aver mai fatto un solo giorno di carcere.
Nel luogo della strage, lungo la Strada Provinciale SP73 del passo del Faiallo, è stato costruito un monumento commemorativo conosciuto come "Sacrario dei Martiri del Turchino".


Fonte:

Auro Bruni


Il 19 maggio 1991 al centro sociale Corto Circuito, in una notte come molte altre, un rogo illuminò il cielo e un fumo denso riempì l'aria, quella notte fu assassinato Auro Bruni. Aveva 19 anni. Ancora oggi questo omicidio non ha colpevoli.
Quella notte Auro era rimasto a dormire al Corto, gli aggressori attesero che tutti i compagni andassero via per eseguire l'attentato contro il centro sociale, forse la sua presenza non era prevista o forse si, fatto sta che quando lo trovarono all'interno decisero di neutralizzarlo con un colpo alla testa, cosparsero il corpo e i locali del centro di benzina. L'incendio distrusse completamente il Centro Sociale e rese irriconoscibile il corpo di Auro.
Immediatamente i compagni individuarono la matrice fascista dell'aggressione, ma le forze dell'ordine e la magistratura decisero di non prendere in considerazione gli ambienti dell'estrema destra indirizzando al contrario le indagini contro gli stessi frequentatori del Centro Sociale, fermando ed interrogando per ore alcuni coetanei di Auro cercando, così, di avallare la tesi di una lite interna.
Il giorno successivo i "disoccupati italiani nazionalisti", riconducibile ad ambienti di estrema destra, rivendicarono l'omicidio con una telefonata al TG3. Ma né questa rivendicazione né gli attentati subiti nei mesi precedenti da altri centri sociali persuasero la magistratura.

Fonte:

martedì 15 maggio 2012

NAKBA DAY: SCONTRI IN CISGIORDANIA

Manifestazioni e proteste in tutta la Cisgiordania per il 64° anniversario della Nakba. Almeno cento feriti e dieci manifestanti arrestati. A Betlemme l'Autorità Palestinese si scontra con i dimostranti.

MARTA FORTUNATO

 

Beit Sahour (Cisgiordania), 15 maggio 2012, Nena News – Migliaia di palestinesi hanno partecipato oggi alle manifestazioni organizzate in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per commemorare il 64° anniversario della Nakba, la “catastrofe” nazionale del 1948, anno della nascita dello Stato di Israele, quando almeno 750 mila palestinesi sono stati scacciati dalle loro case e dalle loro terre verso i paesi limitrofi. Oggi i profughi del 1948 sono diventati 5 milioni e ogni anno il popolo palestinese organizza marce e manifestazioni per riaffermare il diritto di ogni rifugiato a fare ritorno nella propria terra. Diritto che è stato messo in un angolo dai negoziati e dagli “accordi di pace” firmati da Israele e Olp nel 1993.
Oggi si sono registrati incidenti meno gravi rispetto a quelli avvenuti l’anno scorso. Il 15 maggio 2011 migliaia di rifugiati palestinesi avevano cercato di varcare le linee armistiziali di Siria e Libano e le autorità israeliane avevano risposto sparando proiettili reali contro i manifestanti, uccidendo 8 persone e provocando centinaia di feriti.
La giornata è iniziata con degli scontri davanti alla prigione di Ofer (Ramallah) dove l’esercito israeliano ha lanciato gas lacrimogeni, bombe sonore e proiettili di gomma contro i manifestanti. Secondo fonti mediche 63 persone, tra cui un bambino di 16 anni, sono state ferite e soccorse dall’ambulanza. Anche presso il check-point di Qalandiya ci sono state proteste violente: un centinaio di manifestanti circa ha lanciato pietre contro l’esercito israeliano che ha risposto con il lancio di gas lacrimogeni: 21 persone sono state ferite. A Nil’in (Ramallah) alcuni dimostranti hanno cercato di attraversare il check-point all’estremità del villaggio e le autorità israeliane hanno arrestato tre persone, tra cui l’attivista palestinese Naji Tamimi.
A Betlemme la manifestazione è iniziata nella Piazza della Natività dove c’è stata una grande partecipazione da parte degli studenti delle scuole. Da lì circa 200 dimostranti si sono spostati verso il check-point di Betlemme, dove sono stati bloccati dalla polizia palestinese. Anche ieri sera, 14 maggio, una manifestazione organizzata vicino all’entrata del campo profughi di Aida, in solidarietà con i prigionieri politici palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, aveva trovato l’opposizione dei poliziotti dell’Autorità Palestinese che avevano attaccati e ferito alcuni partecipanti.
Nel quartiere di Issawiya a Gerusalemme Est quattro persone sono state arrestate.
A Gaza c’è stata una partecipata manifestazione davanti al quartier generale dell’ONU durante la quale si è celebrata anche la fine dello sciopero della fame dei prigionieri politici palestinesi dopo l’accordo raggiunto questa notte.
Proteste si sono svolte anche nelle città di Hebron, di Ramallah e di Qqlaqiliya e in decine di piccoli villaggi in tutta la Cisgiordania. Nena News

Fonte:

lunedì 14 maggio 2012

64° ANNIVERSARIO DELLA NAKBA (LA CATASTROFE PALESTINESE)

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Foto tratte da:

http://www.infopal.it/1948-2012-il-popolo-palestinese-e-aumentato-di-8-volte/

 
Da 64 anni, dal 1948, il 15 Maggio di ogni anno il popolo palestinese tutto commemora, ovunque si trovi, dalla Palestina ai luoghi della Diaspora, l’anniversario della Nakba palestinese.
Tragedia e pulizia etnica sistematiche iniziano nel 1948 per mano delle milizie terroriste sioniste, da quella data confluite ufficialmente nell’esercito dello Stato di Israele, fondato sulla terra di Palestina. La Nakba è la pulizia etnica con l’espulsione e la cacciata di 900mila palestinesi, da allora entrati nello status di rifugiati fuori dalla loro terra, massacrati ovunque in Palestina, dove 532 villaggi e 9 città palestinesi furono cancellati.
La continuazione delle pratiche coloniali sioniste: Apartheid, prigionia e tortura, bombardamenti indiscriminati, demolizioni di case, furto della terra, sono tutti crimini contro l’umanità compiuti da Israele ai danni del popolo palestinese, che poi non si sono mai arrestati, grazie anche alla complicità e al silenzio della comunità internazionale sulla conduzione della pulizia etnica e sulla costruzione delle colonie sulle terre della Palestina.

LA TERRA E’ AL CENTRO DELLA LOTTA DI LIBERAZIONE DELLA TERRA DI PALESTINA

Questo è lo sfondo nel quale collocare l’incerta sorte degli oltre 10milioni di palestinesi che abitano nei Territori palestinesi occupati nel ’48 (oggi Israele), nella Palestina occupata nel 1967 da Israele (Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme) e a coloro che vivono in Diaspora, nell’esilio, lontani dalla patria d’origine.
Al 64° anniversario della Nakba e di fronte all’attualità palestinese, affermiamo quanto segue:
1. E’ necessaria la condanna dell’occupazione sionista e del regime d’Apartheid che Israele ha instaurato in Palestina. Tale politica deve avere un termine. Chiediamo che si realizzi giustizia sociale, dignità e pace genuina per il popolo palestinese, per mezzo di provvedimenti e sanzioni di legge, boicottaggio nei confronti dei responsabili israeliani di tali crimini praticati contro il popolo palestinese..
2. Il Diritto al Ritorno degli oltre 7milioni di rifugiati palestinesi che dal 1948 attendono di tornare nelle loro case d’origine in Palestina e il risarcimento per i danni causati loro.
3. Diritto di autodeterminazione del popolo palestinese sulla sua terra, la Palestina Storica.
un diritto legittimo e umano e principio di autodeterminazione dei popoli previsto dal diritto internazionale.
4. La libertà di migliaia di prigionieri politici palestinesi nelle disumane prigioni dell’occupazione israeliana, in questi giorni impegnati nel più generale degli scioperi della fame, alcuni anche della sete, ad oltranza. La lora è una forma di protesta contro le violazioni dei propri diritti fondamentali. Essi protestano contro le detenzioni in isolamento, la detenzione amministrativa (senz’accusa e prorogabile a oltranza, ndr), per il ripristino del diritto allo studio, quello a ricevere le visite, contro le irruzioni nelle celle.
5.Porre fine al vergognoso silenzio della comunità internazionale durato 64 anni fino ai giorni nostri. Silenzio complice e responsabile della negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese

TU NON FARTI COMPLICE DELLA NEGAZIONE DELL’ESISTENZA DI UN INTERO POPOLO!

6.Fermare la cooperazione politica, economica e militare tra la Repubblica Italiana e il regime d’Apartheid di Israele, fermare le forme di copertura internazionale ai crimini che Israele continua a commettere, violando per mezzo di tale collaborazione la Costituzione della Repubblica, nella quale si vieta allo Stato italiano di sostenere o cooperare pratiche di persecuzione e pulizia etnica nei confronti di persone inermi.

 Giovani palestinesi in Italia


Fonte:


domenica 13 maggio 2012

I VOLI DELLA MORTE

I voli della morte (spagnolo: vuelos de la muerte) furono un atroce distintivo della Guerra sporca Argentina, durante il cosiddetto Processo di Riorganizzazione Nazionale (1976-1983). Mediante i vuelos de la muerte migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare vivi e sotto l'effetto di droghe da appositi aerei militari.

I fatti

I

Un Fokker F28 dell'Aviación Naval dell'Armada de la República Argentina, la Marina militare argentina, nell'Aeroporto Militare Jorge Newbury.




Short SC.7 Skyvan della prefettura, usato per i voli della morte. L'aereo è ora di proprietà dell'Helsinki University of Technology, Laboratory of Space Technology, e si trova all'Oulu Airport (EFOU).

Le prove riguardanti l'assassinio di oppositori mediante il lancio da aerei sono incontestabili e non vi sono controversie al riguardo. Già nel 1977, durante il regime militare, erano apparsi vari corpi nelle insenature atlantiche di Santa Teresita e Mar del Tuyú, circa 200km al sud della Città di Buenos Aires. I medici forensi che esaminarono i corpi dichiararono che la causa del decesso era riconducibile a una collisione con oggetti da una grande altezza. I cadaveri furono comunque seppelliti frettolosamente come N.N. nel cimitero di General Lavalle (Buenos Aires).
Nel 1995, l'ex repressore dell'ESMA Adolfo Scilingo ha raccontato in modo particolareggiato al giornalista Horacio Verbitsky la metodologia di sterminio alla quale gli stessi carnefici si riferivano con il termine vuelos (voli). La testimonianza fu in seguito pubblicata in un libro, con il titolo "El Vuelo" (Il volo). Scilingo, nella sua testimonianza, racconta della procedura, dell'autorizzazione della Chiesa Cattolica, dell'utilizzo di iniezioni anestetiche, del tipo di aerei utilizzati (Lockheed L-188 Electra [1], Short SC.7 Skyvan 3M-400[2]), l'ampia partecipazione degli ufficiali, l'utilizzazione dell'aeroporto militare Jorge Newbury (Città di Buenos Aires). In un'intervista [3] di Martín Castellano a Adolfo Scilingo (4 ottobre 1997), quest'ultimo afferma:
« I voli furono comunicati ufficialmente da Mendía (viceammiraglio della Armada, la marina militare) pochi giorni dopo il golpe militare del marzo 1976. Ci è stato spiegato che le procedure per lo smistamento dei sovversivi nell' Armada si sarebbero svolte senza uniformi, indossando solo scarpe da ginnastica, jeans e magliette. Ci ha spiegato che nell' Armada i sovversivi non sarebbero stati fucilati, giacché non si volevano avere gli stessi problemi avuti da Franco in Spagna e Pinochet in Cile. E neanche bisognava "andare contro al Papa", ma è stata consultata la gerarchia ecclesiastica ed è stato adottato un metodo che la Chiesa considerava cristiano, ossia gente che si alza in volo e non arriva a destinazione. Davanti ai dubbi di alcuni marinai, si è chiarito che "i sovversivi sarebbero stati buttati nel bel mezzo del volo". Di ritorno dai voli, i cappellani cercavano di consolarci ricordando un precetto biblico che parla di "separare l'erba cattiva dal grano". »

Sebbene vi siano pochi dati in proposito, la sparizione dei cadaveri dei desaparecidos tramite il lancio da aerei sembra essere stato un metodo molto diffuso, in aggiunta a quello delle tombe clandestine. I Centri Clandestini di Detenzione (CCD) collegati a questa pratica erano soprattutto la ESMA, l'Olimpo, la Perla, il Campito. In particolare, quest'ultimo centro clandestino fu allestito in prossimità dell'aerodromo appunto per facilitare il trasporto dei detenuti agli aerei. L'Aeronautica uruguaiana ha ammesso nel 2005 di aver effettuato voli della morte in collaborazione con le Forze Armate argentine (Operazione Condor)[4]. Scilingo ha anche dichiarato al cospetto del giudice spagnolo Baltasar Garzón che si sono anche raccolti prigionieri dalla base della marina militare a Punta Indio (Provincia di Buenos Aires). Il CCD conosciuto come Quinta de Funes a Rosario si trovava a 400m dall'aeroporto e vi sono testimonianze che alcuni di quei detenuti sono stati gettati in mare nella zona della Bahía de Samborombón (Provincia di Buenos Aires)[5] [6].

Procedura

L'aeroporto militare Jorge Newbury, usato per i voli della morte.

I detenuti che venivano trasladados ("trasferiti", termine usato dagli aguzzini per indicarne l'eliminazione definitiva), di norma erano raggruppati nel sottosuolo di un Centro di Detenzione Clandestino. Qui gli ufficiali comunicavano loro che sarebbero stati trasferiti ad un centro di detenzione situato nel Sud del paese, e che quindi sarebbero stati sottoposti ad una vaccinazione. In realtà, quest'ultima consisteva in un'iniezione di pentothal, che aveva lo scopo di addormentare le vittime (ma non di ucciderle). A questo punto i detenuti, vivi ma incoscienti, venivano spogliati, caricati su camion, trasportati al più vicino aeroporto militare e imbarcati sugli aerei. La maggior parte dei detenuti veniva lanciata ancora in stato di incoscienza, ma vi sono alcuni casi in cui qualche vittima si sia risvegliata e sia stata buttata a mare in stato cosciente. Come venne testimoniato da Scilingo nella citata intervista [7], tutti gli ufficiali, a turno, prendevano parte all'operazione, che durava all'incirca un'ora e mezza.

Recenti identificazioni

Nel novembre del 2004, il Gruppo Argentino di Antropologia Forense (Equipo Argentino de Antropología Forense, EAAF) ha scoperto che i resti di una persona seppellita come N.N. nel cimitero di General Lavalle (Provincia di Buenos Aires) corrispondeva a un desaparecido. Si è quindi passato all'esame dei registri del cimitero scoprendo che quella persona e altre cinque erano state trovate sulle spiagge tra il 20 e il 29 dicembre 1977, e si cominciò a sospettare che si trattasse di vittime dello stesso vuelo de la muerte. Pochi giorni dopo i corpi furono esumati e nel lasso di qualche mese si stabilì che si trattava dei resti delle madri di Plaza de Mayo Esther Ballestrino, María Eugenia Ponce, Azucena Villaflor[8], della suora francese Léonie Duquet [9] e della militante Angela Auad[10]. Ana María Careaga, figlia di una delle vittime, dichiara:
« È la prima volta che si recuperano corpi dal mare, li si identifica e li si vincola chiaramente all'arresto, successiva sparizione e reclusione in un centro clandestino di detenzione, in questo caso la Escuela Mecánica de la Armada (ESMA). »
Il Gruppo Argentino di Antropologia Forense ha anche osservato[11] che i corpi presentavano:
« [...] fratture multiple a livello di membra superiori, inferiori, e del cranio, compatibili con la caduta da una grande altezza con una superficie dura che potrebbe essere il mare. »

Controversie

Durante un comizio tenuto nel febbraio 2009, il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi fece una battuta di spirito sui voli della morte. L'Argentina convocò l'ambasciatore italiano esprimendo «preoccupazione e disagio» per la leggerezza delle parole.[12][13] Per il governo italiano si è trattato di uno stravolgimento delle parole del Presidente del Consiglio.

Note

1. ^ http://www.fuerzaaerea.mil.ar/conflicto/electra.htm
2. ^ http://www.fuerzaaerea.mil.ar/conflicto/skyvan.html
3. ^ http://www.laopinion-rafaela.com.ar/opinion/2005/01/27/c512777.htm
4. ^ http://www.clarin.com/diario/2005/08/10/um/m-1031040.htm
5. ^ http://www.lacapital.com.ar/2005/12/23/politica/noticia_257039.shtml
6. ^ http://www.telediariodigital.com.ar/leer.asp?idx=14365
7. ^ http://www.laopinion-rafaela.com.ar/opinion/2005/01/27/c512777.htm
8. ^ http://www.rionegro.com.ar/arch200507/09/n09a01.php
9. ^ http://www.terra.com.ar/canales/politica/121/121787.html
10. ^ http://www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-56595-2005-09-16.html
11. ^ http://www.clarin.com/diario/2005/08/30/elpais/p-00301.htm
12. ^ L'Argentina protesta per la battuta di Berlusconi sui Desaparecidos, La7
13. ^ Berlusconi scherza sui desaparecidos. L'Argentina convoca l'ambasciatore. la Repubblica


Fonte:

http://it.wikipedia.org/wiki/Voli_della_morte

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venerdì 11 maggio 2012

Giorgiana Masi





Scheda a cura di Paola Staccioli

Il 12 maggio 1977, nell'anniversario della vittoria referendaria sul divorzio, i radicali decidono di tenere un sit-in in piazza Navona, nonostante l'assoluto divieto di manifestare in vigore a Roma dopo la morte, il 21 aprile, dell'agente Passamonti nel corso di scontri di piazza. Il movimento e i gruppi della nuova sinistra aderiscono all'iniziativa, per protestare contro il restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima repressivo, favorito dall'appoggio esterno del PCI al cosiddetto "governo delle astensioni", il monocolore democristiano guidato da Andreotti. Per far rispettare, a qualsiasi costo, il divieto, il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga schiera migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali, in alcuni casi travestiti da "autonomi". Fin dal primo pomeriggio la tensione è molto alta. A quanti difendono il diritto di manifestare con brevi cortei e fortunose barricate, le forze di polizia rispondono sparando candelotti lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. Anche numerosi fotografi, giornalisti, passanti e il deputato Mimmo Pinto sono picchiati e maltrattati. Con il passare delle ore la resistenza della piazza si fa più decisa, e vengono lanciate le prime molotov. Mentre nelle strade sono in corso gli scontri, i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, fra gli insulti di quasi tutte le forze politiche. Mancano pochi minuti alle 20 quando, durante una carica, due ragazze sono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi, dove erano attestati poliziotti e carabinieri. Elena Ascione rimane ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studentessa del liceo Pasteur, viene centrata alla schiena. Muore durante il trasporto in ospedale.
Le chiare responsabilità emerse a carico di polizia, questore, Ministro dell'Interno, porteranno il governo a intessere una fitta trama di omertà e menzogne. Cossiga, dopo aver elogiato il 13 maggio in Parlamento "il grande senso di prudenza e moderazione" delle forze dell'ordine, modificherà più volte la propria versione dei fatti. Costretto dall'evidenza ad ammettere la presenza delle squadre speciali - tra gli uomini in borghese armati furono riconosciuti il commissario Gianni Carnevale e l'agente della squadra mobile Giovanni Santone - continuerà però a negare che la polizia abbia sparato, pur se smentito da vari testimoni e dalle inequivocabili immagini di foto e filmati. L'inchiesta per l'omicidio si concluse nel 1981 con una sentenza di archiviazione del giudice istruttore Claudio D'Angelo "per essere rimasti ignoti i responsabili del reato". Successive indagini hanno tentato, senza risultati significativi, di individuare gli autori dello sparo mortale in un "autonomo" deceduto da tempo, oppure nel latitante Andrea Ghira, uno dei tre fascisti condannati per il massacro del Circeo.

Fonte:


Gianni De Gennaro, il capo della "macelleria messicana" nominato sottosegretario del governo Monti

11 maggio 2012

Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio Mario Monti, «ha deliberato la nomina a sottosegretario di Stato della presidenza del Consiglio del Prefetto Gianni De Gennaro, che cessa dalle funzioni di Direttore del Dis». A darne conferma è il comunicato di Palazzo Chigi, emesso al termine del Consiglio dei Ministri.

Un'altra promozione per il protagonista numero uno degli abusi, le torture e i soprusi nei confronti dei manifestanti inermi durante le contestazioni al g8 di Genova del 2001.

mercoledì 9 maggio 2012

9 maggio 1976: morte di Ulrike Meinhof

9 maggio 1976, il corpo di Ulrike Meinhof viene trovato senza vita, appeso alla finestra della sua cella nel braccio speciale del 9 maggiocarcere di Stoccarda Stammheimer. Le perizie legali, sempre molto lacunose  ed incomplete, si orientano tutte verso l’ipotesi del suicidio della militante rivoluzionaria. Ma ci sono elementi che non convincono; gli altri detenuti non credono alla versione ufficiale in cui poliziotti e medici legali si contraddicono senza pudore. E non sono solo i suoi compagni di prigionia ad avere dei dubbi: anche nell’opinione pubblica comincia a farsi spazio quest’idea che la Meinhof sia “stata suicidata” da terzi. Così nasce la Commissione internazionale di inchiesta sulla morte di Ulrike Meinhof, che comincia a portare alla luce tutte quelle discordanze prodotte dalle autopsie legali. Non ultimo il problema di un cappio troppo largo per sostenere il corpo. Citiamo dalla traduzione italiana: “Si può appendere un cadavere in un cappio troppo largo, solo se si approfitta della rigidità cadaverica per mettere la testa in una posizione fissa, che non permetta più al cappio di scivolare.”.
Ulrike Meinhof è in prigione in attesa del processo che probabilmente la condannerà al carcere a vita. È membro fondatore della Rote Armee Fraktion (Fazione dell’Armata Rossa), un’organizzazione rivoluzionaria della Germania ovest, attiva dal 1970 al 1998. Incarcerati insieme a lei ci sono altri membri della prima generazione del gruppo: Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller. Anche loro, il 13 ottobre dell’anno successivo “decideranno” di suicidarsi. Baader e Esslin moriranno nelle loro celle, Raspe in ospedale, mentre la Möller non “riuscirà” a togliersi la vita con una serie di coltellate in petto, e avrà quindi la possibilità di raccontare in un libro, di come i suoi tre compagni abbiano subito la stessa sorte di Ulrike.
Il movimento nella Germania ovest è alquanto eterogeno. Molto forti sono le correnti libertarie e situazioniste; rara la militanza in forma organizzata. Tutte le proteste hanno come epicentro la sensazione che la denazificazione nella repubblica federale non sia stata neanche abbozzata. Le strutture e i volti del potere sono gli stessi che operavano sotto il regime hitleriano. È in questo clima che nel gruppo di Baader e Meinhof sorge spontanea la necessità di organizzarsi in una risposta armata al regime di cose presente. Si sceglie come nome Rote Armee Fraktion, per chiarire quel sentimento di appartenenza ad un movimento rivoluzionario più ampio e mondiale. Fin dall’inizio la RAF prende contatti con organizzazioni rivoluzionarie straniere: dalle BR, ai Tupamaros, all’FPLP, cui i militanti tedeschi devono l’addestramento militare in Cisgiordania. L’influenza che queste esperienze internazionali hanno sulla RAF è impressionante. L’organizzazione tedesca comincia a sperimentare sul suo campo di battaglia metodi e strutture saggiati dai movimenti uruguayano e palestinese. Un’organizzazione articolata in cellule di combattimento, simile anche se meno radicale della struttura di Settembre Nero; una teoria della guerriglia urbana mutuata dai teorici del Sud America fanno delle RAF una delle organizzazioni rivoluzionarie europee più longeve del secondo dopo guerra.

Fonte:

9 maggio 1978



Nubi di fiato rappreso
s'addensano sugli occhi
in uno stanco scorrere
di ombre e di ricordi:
una festa,
un frusciare di gonne,
uno sguardo,
due occhi di rugiada,
un sorriso,
un nome di donna:
Amore
Non
Ne
Avremo. 


Peppino Impastato 



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Copertina del libro La "pazzìa di Aldo Moro di Marco Clementi

Copertina anteriore

lunedì 7 maggio 2012

Franco Serantini

 


 

Franco Serantini (Cagliari, 16 Luglio 1951 - Pisa, 7 maggio 1972), é stato un anarchico pisano morto il 7 maggio 1972 dopo un violento pestaggio poliziesco avvenuto qualche giorno prima durante una manifestazione antifascista

Biografia 

L'infanzia 

Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 Luglio del 1951. Abbandonato al brefotrofio di "Infanzia abbandonata" della sua città natale, deve forse il suo nome e cognome ad un qualche ufficiale di Stato civile o ad un qualche religioso che apprezzava uno scrittore romagnolo autore di romanzi pittoreschi ottocenteschi che all'epoca aveva una certa celebrità, Franco Serantini [1]. Nel brefetrofio vi resta sino al 16 maggio 1953, quando viene dato in affidamento a due coniugi siciliani: Giovanni Ciotta, figlio di braccianti e guardia di pubblica sicurezza che all'epoca lavorava nel capoluogo sardo, e Rosa Alaimo, figlia di un piccolo possidente terriero. I due sono genitori affettuosi col bambino, ma quando alla madre adottiva viene diagnosticato un tumore la famiglia fa rientro al paese natale, Campobello di Licata. Dopo la morte della madre, il piccolo Franco diviene motivo di tensione familiare; Giovanni Ciotta ottiene il trasferimento del bambino a Caltanisetta, vorrebbe che gli fosse concessa l'affiliazione del bambino e fa domanda all'Amministrazione provinciale di Cagliari, a cui Franco ufficialmente era affidato. La richiesta viene però rigettata a causa di un cavillo burocratico. Il bambino vorrebbe essere preso in affidamento anche dai nonni materni (Maria Bruscato e Giovanni Alaimo) ed allora, il 13 dicembre 1955, sentito anche il parere dei fratelli adottivi (Santo e Carmelina), l'Amministrazione affida ufficialmente Franco alla sua nuova famiglia. [2]
Quando Maria Bruscatto si ammala, tenendo conto anche del fatto che Giovanni Alaimo era ormai anziano e i loro figli erano emigrati al Nord o in America, viene chiesto di ricoverare Franco in un nuovo istituto, giacché nessuno della famiglia, pur essendo sinceramente affezionati, poteva più occuparsi di lui. L'Amministrazione provinciale, nell'aprile 1960, ordina che Franco Serantini venga affidato all'Istituto Buon Pastore di Cagliari. [3]
Nel capoluogo sardo frequenta le scuole medie con scarso profitto, viene bocciato in seconda media. È un ragazzo timido, chiuso e taciturno, desideroso di ricevere affetto, cosa che le suore evidentemente non riescono a dargli. A quindici anni il rapporto con le suore è insostenibile, i litigi sono continui e nei primi mesi del 1968 l'Istituto si rivolge al tribunale dei minorenni, esprimendo l'impossibilità ad ospitare ancora Franco Serantini nel loro istituto. Malgrado adducano motivazioni disciplinari, una delle ragioni dell'insofferenza delle suore potrebbe anche essere che a quell'età, all'epoca, le amministrazioni provinciali smettevano di pagare la retta. [4]
A Pisa: prima il marxismo e poi l'anarchismo
Franco ha diciassette anni, il Tribunale dei minori riconosce che il ragazzo «ha una assoluta carenza affettiva» e che dovrebbe essere aiutato «con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». L'incredibile contraddizione del Tribunale sta nel fatto che per curare questa carenza affettiva, la sentenza emessa dal giudice minorile stabilisce che Franco debba essere rinchiuso in un riformatorio [5](!!!!!). 


Franco Serantini durante una manifestazione

Dopo essere stato psicoanalizzato per un mese intero a Firenze, Franco Serantini viene affidato all'istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa, in regime di semilibertà (è bene precisare che Franco Serantini era incensurato). Nella città toscana riprende gli studi, consegue la licenza media alla scuola statale Fibonacci e poi frequenta la scuola di contabilità aziendale. Con l'esplosione della contestazione, Franco si avvicina agli ambienti della sinistra, frequentando prima le sedi delle Federazioni giovanili comunista e socialista e poi quella di Lotta continua (LC). Durante il periodo di questa militanza politica, insieme ad una ventina di ragazzi, Serantini è protagonista dell'esperienza del Mercato rosso, al CEP (quartiere popolare pisano). L'idea del gruppetto è quella di comprare merce ai mercati generali per poi rivenderla a prezzo di costo agli abitanti del quartiere. Il mercato, che si teneva nell'area del piazzale Giovanni XXIII, viene inteso dai giovani militanti di LC come un modo per aiutare la povera gente e, contemporaneamente, per entrare in contatto diretto con loro, invitandola poi a partecipare alle riunioni che Lotta continua teneva ogni domenica pomeriggio.
Il mercato però attira le ira di commercianti, di fascisti e della polizia, mentre il PCI pare più attento a non perdere l'appoggio dei commercianti che a sostenere il gruppo di giovani di cui faceva parte Serantini. Il 16 settembre 1971 la polizia irrompe al CEP, nel tentativo di sgomberare il mercatino abusivo carica violentemente i ragazzi e ne trattiene in stato di fermo alcuni. Finisce in questo modo l'avventura del mercato.
Dopo alcuni litigi con il gruppo dirigente pisano di LC, anche a causa della vicenda del mercato, l'intolleranza di Franco Serantini verso ogni forma di autoritarismo lo spinge su posizioni legate all'anarchismo. Nella seconda metà del 1970 comincia a frequentare la sede del Gruppo anarchico Giuseppe Pinelli, che ha la sede presso la Federazione Anarchica Pisana (aderente ai GIA) in via S. Martino n° 48, dove conosce anziani militanti come Cafiero Ciuti, il prof. Renzo Vanni e altri libertari, giovani e meno giovani, del luogo. Inizia anche a leggere libri anarchici di Kropotkin, Cafiero e Malatesta che gli presta il prof. Vanni. Franco è molto attivo, partecipa a diverse iniziative e quando Renzo Vanni trova il bando di Almirante (un documento controfirmato da Giorgio Almirante che il 17 maggio 1944 imponeva la condanna a morte per i renitenti alla leva.), nel giugno 1971, è lui stesso ad annunciarlo a Luciano Della Mea, antifascista e militante storico della sinistra pisana del quale era divenuto amico tempo prima. Ed è sempre lui che si incarica di farne delle fotocopie. 

La morte

Prima delle elezioni del 7 maggio 1972 si susseguono le iniziative dei vari partiti e movimenti politici. Sono giornate molto animate e "calde". Franco e gli anarchici decidono di partecipare ad una contestazione, indetta a Pisa per il 5 maggio da Lotta Continua, contro un comizio fascista. Durante la protesta antifascista la polizia comincia a caricare pesantemente i militanti della sinistra extraparlamentare che contestavano il comizio, per consentire al fascista Giuseppe Niccolai di portare a termine il suo discorso, causando decine di feriti e procedendo a 20 arresti. 


Umanità Nova annuncia la morte di Franco Serantini (n. 17 del 13 maggio 1972)

Franco, dopo essersi inspiegabilmente fermato di fronte ad una carica della polizia, viene raggiunto dai celerini del 2° e 3° plotone della Terza compagnia del I° raggruppamento celere di Roma, picchiato con una ferocia inaudita con i calci dei fucili, pugni e calci e quindi caricato su una camionetta in stato di arresto.
«Erano circa le 20. Io mi trovavo alla finestra di un appartamento[...] in lungArno Gambacorti [...] Ho sentito le sirene delle camionette venire dalla parte del comune [...] si son fermate sotto la casa mia dalla parte delle spallette dell'Arno [...] sotto la mia finestra, una quindicina di celerini gli sono saltati addosso e hanno cominciato a picchiarlo con una furia incredibile. Avevano fatto un cerchio sopra di lui [...] si capiva che dovevano colpirlo sia con le mani che con i piedi, sia con i calci del fucile. Ad un tratto alcuni celerini [...] sono intervenuti sul gruppo di quelli che picchiavano, dicendo frasi di questo tipo: Basta, lo ammazzate![...] poi uno che sembrava un graduato [6]è entrato nel mezzo e con un altro celerino lo hanno tirato su [...] lo hanno poi trascinato verso le camionette...» (Testimonianza di Moreno Papini, Lungarno Gambacorti n°12) [7]
Nonostante le condizioni fisiche in cui è stato ridotto dal pestaggio (aveva evidenti ecchimosi in tutto il corpo), viene trattenuto nel carcere Don Bosco ed interrogato dal magistrato Giovanni Sellaroli, al quale rivendica la propria appartenenza al movimento anarchico:
«Ho partecipato alla manifestazione del 5 maggio, sono un anarchico e un antifascista militante, è forse un delitto?» (Ammazzato due volte di Laura Landi)
Completamente abbandonato al suo destino, ritorna nella sua cella nella completa indifferenza di tutt. Di lì a poche ore la morte lo raggiungerà: alle 9.45 del 7 maggio Franco Serantini muore. Il certificato medico del dottor Alberto Mammoli parla genericamente di «emorragia cerebrale». Nel tentativo di nascondere ogni prova dell'omicidio, il pomeriggio dello stesso giorno le autorità carcerarie cercano di ottenere dal comune l'autorizzazione al seppellimento del ragazzo. L'obiettivo è quello di occultare cadavere e prove connesse, ma il tentativo viene respinto da un funzionario dell'ufficio del Comune che riteneva illegale la procedura subdolamente portata avanti.
Intanto, Luciano Della Mea ed il professore Guido Bozzoni, sostenuti dagli avvocati Arnaldo Massei e Giovanni Sorbi, prendono l'iniziativa di costituirsi parte civile e danno vita ad un'intensa campagna di controinformazione. Nei giorni seguenti, in tuta Italia, si terranno numerose manifestazioni di protesta contro la violenza delle forze dell'ordine.
Il 9 maggio 1972 si svolgono i funerali dell'anarchico sardo. Migliaia di persone lo accompagnano in mezzo ad una marea di pugni chiusi e di bandiera nere con la rossa A cerchiata nel mezzo.
Indagini
Le indagini furono due: la prima contro gli arrestati (tra cui, oltre a Serantini, c'erano 4 studenti greci, di cui uno - Tsolinas Evangelos - fu brutalmente pestato nonostante fosse poliomelitico); la seconda contro ignoti per la morte dell'anarchico. La prima indagine si concluse con il proscioglimento di tutti gli imputati, Serantini fu prosciolto in quanto morto. Egli era stato accusato di oltraggio (avrebbe urlato alle forze di polizia: «Porci!» e «Fascisti»), resistenza e violenza contro le forze dell'ordine. Le brevi indagini non dimostrarono mai se Serantini avesse o meno partecipato agli scontri; sicuramente stava nel cuore degli scontri, ma non vi sono prove se egli abbia o meno effettivamente partecipato al lancio di molotov o sassi contro le forze dell'ordine (anche per gli altri imputati fu impossibile dimostrare la loro effettiva partecipazione agli scontri). Le indagini misero anche in luce che egli si era del tutto inspiegabilmente fermato di fronte alla carica della polizia e per questo fu raggiunto e pestato a morte dalla polizia.
La seconda indagine fu più complessa e si scontrò con i comportamenti omertosi delle forze di polizia e dei medici, degli infermieri e delle autorità del carcere Don Bosco. Ci fu inoltre un tentativo da parte del procuratore generale, Mario Calamari, di trasferire 3 magistrati di Magistratura democratica (l'associazione di sinistra dei magistrati dell'Associazione Nazionale Magistrati) per impedir loro di portare avanti alcune indagini, tra cui quella su Serantini, in cui venivano messe in luce gravi responsabilità ed illegalità delle forze dell'ordine e di uomini dello Stato.
Nel novembre 1972 il medico del carcere Alberto Mammoli ricevette comunque un avviso di procedimento per omicidio colposo, mentre il giudice istruttore Funaioli (uno dei magistrati che Calamari cercò di trasferire) si espresse in favore di un'azione penale contro Albini Amerigo e Lupo Vincenzo, capitano e maresciallo di PS del I° celere di Roma, e la guardia Colantoni Mario, per aver affermato il falso e taciuto «ciò che era a loro conoscenza [...] per assicurare l'impunità agli agenti responsabili dell'omicidio di Franco Serantini».
Nella sentenza depositata nell'aprile 1975 il giudice Nicastro dichiarò «non doversi procedere in ordine al delitto di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori». Lupo e Mammoli vennero prosciolti. Albini e Colantoni, condannati per falsa testimonianza a 6 mesi e 10 giorni con la condizionale e la non iscrizione nel casellario giudiziale, furono assolti nel gennaio 1977. Nel marzo dello stesso anno il dottor Mammoli venne ferito alle gambe da militanti di Azione Rivoluzionaria.
Concludendo si può affermare che, nonostante formalmente non si siano trovati gli esecutori materiali dell'omicidio di Franco Serantini, a causa dei tanti "non ricordo" da parte degli uomini appartenenti ai vari apparati dello Stato (polizia, carceri e arte della magistratura), il procedimento ha dimostrato inequivocabilmente le responsabilità delle forze dell'ordine che si accanirono contro il giovane anarchico. Ha inoltre evidenziato la disumanità del magistrato (Sellaroli) che lo interrogò nonostante le varie ecchimosi che gli ricoprivano tutto il corpo (rilevati ufficialmente anche dall'autopsia) e la completa indifferenza di tutto il sistema carcerario di fronte all’agonia di Serantini, che fu ricoverato solo in punto di morte (un ricovero immediato gli avrebbe probabilmente salvato la vita). Ha scritto Corrado Stajano nel suo Il sovversivo. Vita e morte dell'anarchico Franco Serantini:
«Lo Stato, stupito dalle reazioni dell'opinione pubblica democratica in difesa di un uomo senza valore, un rifiutato sociale privo di ogni forza di scambio politico, si è obiettivaamente confessato colpevole. Lo accusano i suoi comportamenti, i suoi continui e impudenti tentativi di mascherare e di insabbiare le responsabilità e di chiudere un caso che ha assunto un valore di simbolo del rapporto tra cittadino e stato di diritto, fra autoritarismo e libertà».