Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


domenica 30 settembre 2012

L'ECCIDIO DI MONTE SOLE

LA STRAGE DI MARZABOTTO 



L'eccidio di Monte Sole (noto anche come strage di Marzabotto, dal maggiore dei tre comuni colpiti) è un insieme di stragi compiute dalle truppe naziste del 16mo Reparto Esplorante comandato dal Maggiore Walter Reder tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, nell’area di Monte Sole in provincia di Bologna, nel quadro di un'operazione di rastrellamento di vaste proporzioni contro la Brigata Stella Rossa.

Sicuramente l’azione nasce dalla volontà del feldmaresciallo Albert Kesselring di dare un duro colpo ai partigiani della Stella Rossa e ai civili che li sostengono ma, per l’efferatezza e capillarità delle azioni contro semplici civili appare evidente che di fatto lo scopo ultimo è l’eliminazione della popolazione civile in quanto tale.
Gli italiani infatti sono visti come traditori dopo l’armistizio con gli alleati.

Il modus operandi del Reparto comandato da Reder prevede che le varie Compagnie si distribuiscano a ventaglio nella valle in modo da rastrellare tutti i nuclei abitativi e radunare gli abitanti in sacche, per poter poi facilmente procedere alla loro eliminazione fisica.

Alla fine dei sette giorni di operazione si contano 770 vittime civili, fra donne, vecchi, bambini, neonati.
Immediatamente la stampa fascista nega la strage dalle colonne de Il Resto del Carlino, additando come menzognere le voci in circolazione; solo dopo la Liberazione l'entità del massacro è stata resa pubblica.


mercoledì 19 settembre 2012

Ambientalista, pacifista e poeta: il sogno spezzato di Miccoli




Claudio, studente ventenne ucciso nel 1978 dai fascisti
9 ottobre 2011 - Antonella Cilento
Fonte: Il Mattino

Ha quest'aria serena da santo indù, o da eroe risorgimentale con barba e capelli leonini Claudio Miccoli nella foto che lo ritrae, appena ventenne. Ha già un'aria adulta, ben più adulta di chi oggi ha vent'anni, proprio com'era degli uomini in altri tempi. Serio, forse malinconico di fronte alla macchina fotografica, ma fiducioso. Ecco un pezzo di storia recente, la storia di un eroe che non voleva diventarlo.
Per quanto abusata e fuori moda sia la parola «eroe», specie in questi anni cosmetici e pubblicitari, pure ne esistono e sono assai spesso persone comuni, che compiono gesti che dovrebbero essere normali ma che l'ignavia della collettività rende straordinari. Ambientalista e pacifista in tempi in cui non era ancora una tendenza occuparsi di ambiente, nucleare e pacifismo, Claudio Miccoli è testimone per impedirci di dimenticare. In questi giorni ricorre l'anniversario della sua morte: ucciso a colpi di spranga la notte del 30 settembre 1978 e morto dopo sei giorni d'agonia in ospedale, questo ragazzo, che saliva sulle montagne di Civitella Alfedena ad osservare gli uccelli per conto del WWF, ci parla di un mondo che sembra già lontanissimo e che pure è presente nel nostro quotidiano, che lo ha, bene o male, determinato. Ci parla degli anni in cui si era fascisti o comunisti - e Claudio, anche se era su posizioni chiaramente di sinistra, non apparteneva ad alcun partito o schieramento, il pacifismo non essendo una scelta politica di alcun partito nell'Italia di allora e di oggi - e in cui gli scontri si radicalizzavano in continue violenze, una vera e propria guerra civile, eredità, è stato scritto, della mancata pacificazione dopo Salò, nonostante la fine della Seconda Guerra. Prima di essere vorticosamente assorbiti nella pappa senza senso degli ultimi vent'anni, che ha divorato idee e convinzioni per restituirne in buoni sconto da supermercato, offerte Sky, tangenti e prostituzione istituzionalizzata, la Napoli in cui cresceva Claudio Miccoli, studente del liceo scientifico «Vincenzo Cuoco», che gli ha anche intestato la Biblioteca, era al centro di mille tensioni, non diversamente da oggi.
E non diversamente da oggi, mi fa notare Francesco Ruotolo, che negli anni ha curato con attenzione e passione la memoria di Claudio, insieme al fratello minore di Miccoli, Livio, settembre era un mese caldo, quasi estivo, e la sera del sabato a Piazza Sannazaro tanti erano, come Claudio, occupati a mangiare la pizza dal ristorante soprannominato «Il Marchese». Era con amici più giovani e chiacchierava, tranquillo. Ad uno dei suoi amici spuntava dalla camicia, come a tanti in quegli anni, una copia di Lotta Continua e questo era bastato perché un gruppetto di fascisti armati aggredisse, senza alcuna ragione o provocazione, i ragazzi. Solo perché portavano una barba folta o i capelli lunghi, come li aveva Claudio, segnale certo di idee libertarie da ormai due secoli e in ogni paese dell'Occidente. Erano tutti fuggiti, anzi, Claudio si era adoperato per mettere al riparo gli amici più giovani di lui.
E poi, correndo lungo Salita Piedigrotta per andare a prendere la metropolitana e togliersi dal tafferuglio, aveva incontrato di nuovo i fascisti armati e aveva chiesto loro: ma perché professate le vostre idee con le armi? Nessuna risposta, ovviamente, salvo un primo colpo in testa. Claudio era riuscito a salire ancora verso la chiesa di Piedigrotta benché ferito, ma altri diciassette colpi l'avevano steso definitivamente. Questa storia che molti in città conoscono, per esserne stati testimoni diretti o coinvolti emotivamente dai fatti, produceva subito un'onda di dolore e una ferma volontà di ottenere rispetto. Corone, fiori, striscioni, comparvero al mattino davanti alla chiesa, dove era caduto Claudio.
La lapide, che venne posata poco tempo dopo a cura dei suoi compagni di scuola, al centro di Piazza Sannazaro, nell'aiuola spartitraffico, recitava: «A Claudio Miccoli, venti anni, uno di noi, ucciso dalla barbarie fascista. I compagni non dimenticheranno». Per anni parenti e amici si sono riuniti a ricordare intorno a questa pietra. E per anni questa lapide è stata oggetto di continue profanazioni e distruzioni.
Persino dopo il completo restauro con una nuova iscrizione («A Claudio Miccoli, vittima a vent'anni dell'intollerenza e della violenza, per non dimenticare!»), avvenuto nel 1998 con tanto di inaugurazione, una croce celtica il giorno dopo campeggiava sul ricordo di Claudio, subito ripulito.
Il processo portò alla condanna di alcuni dei responsabili, ma con pene lievissime a paragone dell'omicidio gratuitamente perpetrato. La famiglia di Miccoli ha scelto, nello spirito pacifista del figlio, di non accanirsi in ricorsi, che avrebbero comminato sicuramente pene maggiori ma non riportato in vita Claudio. Ha scelto con grande dignità e superiorità morale di portare invece nelle scuole il messaggio, da sempre scandaloso, di chi non offende e non colpisce e ama la vita, non la sopraffazione. Claudio abitava nella zona di Poggioreale, in via Lahalle, e oggi una strada gli è intestata (via Claudio Miccoli, pacifista 1958-1978), fra le torri di fronte al Cimitero del Pianto, volute a misura delle famiglie da Democrazia Proletaria: una rara lotta vinta, pacifica anche questa; che sarebbe di certo piaciuta al ragazzo che, il 4 giugno 1978 nel suo diario, pochi mesi prima di morire in modo tanto inaspettato, scriveva poesie e, con triste profezia, in una diceva: «Non ho lottato perché volevo lottare, ma perché mi ci avete costretto. Non ho colpito perché volevo colpire, ma perché sono stato colpito. Io che non volevo colpire, sono stato colpito! Non volevo lottare, e ho dovuto farlo. Non ho vinto perché volevo vincere, ma perché mi avete sconfitto».
A ricordare l'uomo e i suoi valori, anche Civitella Alfedena gli ha intestato una strada e, ancora a Napoli, nell'Istituto Leonardo da Vinci, l'aula magna gli ha dedicato uno spazio. Il Comitato Claudio Miccoli ha costruito, nel tempo, un sito Internet, pubblicato tre libri, intestato a Claudio un premio di poesia perché la memoria dei più giovani - gli adulti, in fondo, sono già persi - sia alimentata e si rafforzino convinzioni e valori umani imprescindibili. Infine, Francesco Ruotolo mi mostra alcune foto a colori - il tempo trascorso denunzia persino il supporto: le nostre polaroid sono scomparse dalla circolazione, sostituite dal digitale, rivoluzione veloce. Le foto ritraggono l'ascesa al rifugio di montagna dove Claudio s'inerpicava per osservazioni per conto del WWF. Livio Miccoli e Francesco Ruotolo, a dorso di mulo ci hanno portato una lapide. Anche su questa targa, posta in cima ad una sella di monte distante da ogni furia umana, si legge un'altra poesia di Claudio.
Gli ultimi versi sono autentico monito ai distratti e agli arroganti, quasi un'eco dei meravigliosi versi di Kavafis che incitano a non fare della nostra vita una stucchevole estranea, che chissà se Claudio conosceva ma certo interpretava con la sua disposizione matura alla meditazione e al senso della vita: «Quando salii più su, tra grida di cornacchie dicenti: noi esistiamo, che di tanto in tanto si sentivano salendo su in cima, vidi i gracchi. Essi parlavano con le loro ali: vedete, noi non siamo aria ma è come se lo fossimo, solo, noi, muovendoci, abbiamo uno scopo. Viviamo, amiamo su queste cime, il vento è nostro fratello e la pioggia non ci è nemica perché noi realizziamo unità con ciò che ci è intorno e viviamo. Non perdetevi in sciocchezze, fate così anche voi».

Fonte:

martedì 18 settembre 2012

Walter Rossi





Dal libro “In Ordine Pubblico” di autori vari – 2003 – curato da Paola Staccioli - Editore Associazione Walter Ross:

“Il clima di quello scorcio di settembre del 1977 era a Roma molto teso. Le azioni fasciste contro i militanti della sinistra si susseguono a ritmo serrato. Il 27 due studenti sono feriti a colpi di arma da fuoco all’EUR e la sera del 29 Elena Pacinelli, 19 anni, è colpita da tre proiettili in piazza Igea, luogo di ritrovo dei giovani del movimento. Per venerdì 30 viene organizzato un volantinaggio di protesta nel quartiere della Balduina. In viale medaglie d’oro i compagni di Elena, dopo aver subito un’aggressione con sassi e bottiglie partita dalla vicina sede del MSI, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Tra costoro c’è anche Andrea Insabato, autore nel 2000 di un attentato contro “Il Manifesto”. Dopo aver fatto fuoco contro i giovani di sinistra i missini arretrano, mentre gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrere Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta Continua colpito alla nuca. Proseguendo la corsa, il proiettile ferirà lievemente un benzinaio. Walter arriverà privo di vita in ospedale. Cortei e manifestazioni percorrono l’Italia nei giorni successivi, mentre sedi e ritrovi dei fascisti vengono devastati e dati alle fiamme. Durante i funerali 100 mila persone salutano Walter con le note dell’Internazionale.
Nessun provvedimento sarà preso nei confronti dei poliziotti presenti: 10 nel furgone blindato, 3 in una volante vicina e due o tre in borghese che si muovevano a piedi, secondo quanto dichiarato dal dirigente, dott. Falvella. Il fermo dei missini avverrà solo 1 ora e un quarto dopo gli spari. I 15 arrestati, tra i quali Riccardo Bragaglia, risultato positivo al guanto di paraffina, saranno ben presto scarcerati e prosciolti dall’accusa di omicidio volontario e tentato omicidio, e in seguito da quella di rissa aggravata, contestata anche a quattro compagni di Walter. Il missino Enrico Lenaz, arrestato il 4 ottobre, tornerà libero dopo pochi giorni. Nel 1981 alcuni pentiti indicarono nei fratelli Fioravanti e in Alibrandi i possibili assassini. Cristiano Fioravanti, arrestato per appartenenza ai Nar, ammise di essere stato presente ai fatti armato di una pistola, a suo dire difettosa, fornitagli da Massimo Sparti. Attribuì ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale e a Fernando Bardi la detenzione dell’arma omicida. In seguito alla morte di Alibrandi in uno scontro a fuoco con la polizia il procedimento penale fu archiviato. Fioravanti venne condannato a nove mesi e 200 mila lire di multa solo per i reati concernenti le armi.
La vicenda giudiziaria si è definitivamente chiusa nel 2001 con l’incriminazione di tre compagni di Walter per falsa testimonianza e il non luogo a procedere, per non aver commesso il fatto, nei confronti di Cristiano Fioravanti, che ora vive libero, sotto altro nome, protetto dallo stato.”

L’ASSOCIAZIONE
L’Associazione si è costituita nel 1997, a vent'anni di distanza dall’assassinio di Walter.
Il suo obiettivo è quello di individuare i responsabili dell’omicidio, ma anche di raggiungere la verità sulle uccisioni di altri militanti della sinistra e sulle stragi e gli attentati che hanno insanguinato il nostro paese nell’ambito di quel processo di stabilizzazione violenta del potere che si è espresso attraverso la strategia della tensione.
Una verità che deve essere innanzi tutto giudiziaria – per questo abbiamo chiesto e ottenuto la riapertura dell’inchiesta, archiviata pure se un noto pentito fascista aveva confessato di essere stato presente, armato, al momento dell’omicidio – ma anche e soprattutto storica, per rendere giustizia alla memoria di quegli anni, sconfiggere la criminalizzazione delle lotte, opporre un rifiuto al revisionismo storico che intende relegare l'antifascismo e il comunismo fra i fatti ormai superati, che ci vorrebbe uniformati e integrati in una società basata sull’ingiustizia e l’oppressione.
Per questo l’Associazione è attualmente impegnata nella proposta di un collegamento fra le varie realtà che si occupano di giustizia, verità e antifascismo, con l’obiettivo di costruire una rete di informazione e discutere la possibilità di realizzare annualmente una Giornata della verità e della memoria.

Fonte:

mercoledì 12 settembre 2012

Il massacro del Circeo













Il massacro del Circeo è uno dei fatti di cronaca più violenti mai avvenuto in Italia, consumato sul litorale pontino, nella zona del Circeo e concluso a Roma tra il 29 e il 30 settembre 1975. Una ragazza morì dopo innumerevoli torture subìte da parte di un gruppo di neofascisti romani, l'altra restò viva solo per una distrazione dei criminali, ma la sua vita fu comunque distrutta per sempre.
Donatella Colasanti (1958-2005) di 17 anni e Rosaria Lopez (1956-1975) di 19 anni, due amiche provenienti da famiglie di modesta condizione sociale, residenti in una zona popolare della capitale, furono invitate ad una festa da Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira nella villa di quest'ultimo ubicata sul promontorio del Circeo, in zona "Punta Rossa", nel comune di San Felice Circeo.
Le due ragazze avevano conosciuto Guido ed Izzo pochi giorni prima frequentando entrambi il bar del famoso Fungo all'EUR, accogliendoli con simpatia dato il loro habitus garbato ed il comportamento irreprensibile.
Andrea Ghira, 22 anni, figlio di un noto e stimato imprenditore edile, grande ammiratore del capo del Clan dei marsigliesi, Jacques Berenguer, nel 1973 fu condannato per una rapina a mano armata compiuta insieme a Angelo Izzo e per questo scontò venti mesi nel carcere di Rebibbia. Izzo, studente di medicina, insieme a un paio di amici, nel 1974 aveva violentato due ragazzine ed era stato condannato a soli due anni e mezzo di reclusione, che comunque non scontò nemmeno in parte, essendogli stata concessa la sospensione condizionale della pena. Giovanni "Gianni" Guido, diciannovenne studente di architettura, anch'egli proveniente da un ambiente agiato, era l'unico incensurato dei tre.
Una volta giunte a destinazione intorno alle sei e venti di sera tutto si trasformò in un incubo, come dalle parole della Colasanti: «Verso le sei e venti, ci trovavamo tutti e quattro nel giardino della villa quando, improvvisamente, uno di loro tirò fuori la pistola. Cominciarono a dirci che appartenevano alla banda dei Marsigliesi e che Jacques, il loro capo, aveva dato l'ordine di prenderci in quanto voleva due ragazze».
Per più di un giorno ed una notte le due ragazze furono violentate, seviziate e massacrate. I tre esternarono un odio sia misogino che di censo, con tanto di recriminazioni ideologiche contro le donne ed il ceto meno abbiente, a due malcapitate mai interessatesi di politica. Guido ritornava a Roma per non mancare la cena con i propri familiari per poi ripartire per il Circeo e riunirsi ai suoi amici aguzzini. Entrambe vennero drogate. Rosaria Lopez fu portata nel bagno di sopra della villa, picchiata ed annegata nella vasca da bagno. Dopo tentarono di strangolare con una cintura la Colasanti e la colpirono selvaggiamente. In un momento di disattenzione dei due aguzzini, Donatella riuscì a raggiungere un telefono e cercò di chiedere aiuto ma fu scoperta e colpita con una spranga di ferro. Credendole entrambe morte i tre le rinchiusero nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca intestata al padre di Gianni Guido, Raffaele. Dopo esser arrivati vicino a casa di Guido decisero di andare a cenare in un ristorante. Lasciarono la Fiat 127 con le due ragazze in via Pola, nel quartiere "Trieste". Donatella Colasanti, sopravvissuta per miracolo e in preda a choc, approfittò dell'assenza dei ragazzi per richiamare l'attenzione venendo udita da un metronotte, in servizio, alle h. 22:50. Subito dopo la volante Cigno dei Carabinieri fece partire un messaggio-radio cifrato: "Cigno, cigno... c'è un gatto che miagola dentro una 127 in viale Pola...". A intercettarlo fu anche un fotoreporter, che pertanto riuscì a essere presente all'apertura del bagagliaio, alle h. 23:00, dando con le sue foto un volto alla morte.
Izzo e Guido furono arrestati entro poche ore (è nota una foto d'archivio in cui Izzo esibisce spavaldamente le manette ai polsi, sorridendo), Ghira, grazie a una soffiata, non sarà mai catturato. La Colasanti fu ricoverata in ospedale con ferite gravi e frattura del naso, guaribili in più di trenta giorni, e gravissimi danni psicologici.
Grande apporto alle indagini fu dato dai Carabinieri, comandati dal Maresciallo Simonetti Gesualdo, che seppero ben ricostruire, anche grazie alle deposizioni della Colasanti, la dinamica del massacro. La giovane Donatella, costituitasi poi parte civile contro i suoi carnefici, venne rappresentata dall'avvocato Tina Lagostena Bassi nel processo.
Diverse associazioni femministe si costituirono parte civile e presenziarono al processo. Il 29 luglio 1976 arrivò la sentenza in primo grado, ergastolo per Gianni Guido e Angelo Izzo, ergastolo in contumacia per Andrea Ghira. I giudici non concessero alcuna attenuante.
Ghira fuggì in Spagna e si arruolò nel Tercio (Legione spagnola) (da cui venne espulso per abuso di stupefacenti nel 1994) con il falso nome di Massimo Testa de Andres. Ghira sarebbe morto di overdose nel 1994 e sarebbe stato sepolto nel cimitero di Melilla, enclave spagnola in Africa, sotto falso nome. Nel dicembre 2005 il suo cadavere fu ufficialmente identificato mediante esame del DNA. I familiari delle vittime hanno tuttavia contestato le conclusioni della perizia, sostenendo che le ossa sarebbero quelle di un parente di Ghira. Esiste d'altra parte una foto del 1995, scattata dai Carabinieri a Roma, che ritrae un uomo camminare in una zona periferica della città: l'analisi dell'immagine al computer ha confermato che si trattava di Andrea Ghira.
Nel corso degli anni suoi avvistamenti sono stati segnalati in Brasile, Kenya, Sudafrica.
Guido e Izzo nel gennaio 1977 presero in ostaggio una guardia carceraria e tentarono di evadere dal carcere di Latina, senza successo.
La sentenza viene modificata in appello il 28 ottobre 1980 per Gianni Guido. La condanna gli viene ridotta a trenta anni, dopo la dichiarazione di pentimento e la accettazione da parte della famiglia della ragazza uccisa di un risarcimento.
Gianni Guido riuscì in seguito ad evadere dal carcere di San Gimignano nel gennaio del 1981. Fuggì a Buenos Aires dove però venne riconosciuto ed arrestato, poco più di due anni dopo. In attesa dell'estradizione, nell'aprile del 1985 riuscì ancora a fuggire, ma nel giugno del 1994, fu di nuovo catturato a Panama, dove si era rifatto una vita come commerciante di autovetture, ed estradato in Italia.
Nel novembre del 2004, nonostante la condanna pendente, i giudici del tribunale di sorveglianza di Palermo decidono di concedere a Izzo la semilibertà. ll criminale comincia a beneficiarne a partire dal 27 dicembre e ne approfitta presto per fare nuove vittime, Maria Carmela Linciano (49 anni) e Valentina Maiorano (14 anni), rispettivamente moglie e figlia di un pentito della Sacra Corona Unita che Izzo conobbe in carcere a Campobasso. Il 28 aprile del 2005 le due donne sono state legate e soffocate (è stato accertato, dopo vari esami autoptici, che la ragazza non ha subito violenza sessuale) e infine sepolte nel cortile di una villetta a Mirabello Sannitico in provincia di Campobasso, di proprietà di un ex detenuto amico di Izzo. Questo nuovo fatto di sangue ha scatenato in Italia roventi polemiche sulla giustizia. Il 12 gennaio 2007 Izzo è stato condannato all'ergastolo per questo crimine, condanna confermata anche in Appello.
Donatella Colasanti è morta all'età di 47 anni, il 30 dicembre 2005 a Roma per un tumore al seno, ancora duramente sconvolta per la violenza subita 30 anni prima. Avrebbe voluto assistere al nuovo processo contro Izzo. Le sue ultime parole sono state "Battiamoci per la verità".

Fonte:

martedì 11 settembre 2012

Giovanni Aricò, Angelo Casile, Luigi Lo Celso, Franco Scordo, Annelise Borth



GIOVANNI ARICO', ANGELO CASILE, LUIGI LO CELSO, FRANCO SCORDO, ANNELISE BORTH

Maria Itri 

È la notte del 26 settembre 1970; quattro ragazzi anarchici di origine calabrese, e una giovanissima tedesca, muoiono in un incidente stradale alle porte di Roma. Erano partiti poche ore prima da Vibo Valentia ed erano diretti verso la capitale: scopo del viaggio, partecipare ad una manifestazione contro la visita del presidente americano Nixon, ma non solo. Ad attenderli a Roma ci sono anche alcuni compagni anarchici e l'avvocato Edoardo Di Giovanni, al quale i cinque devono consegnare alcuni documenti.
Sono mesi cruciali per il Paese: i ragazzi muoiono in un'Italia che, appena nove mesi prima, ha conosciuto l'orrore di piazza Fontana, dopo un'intensa stagione di scontri sociali; muoiono in un paese confuso, mentre il "mostro" Valpreda è ancora in carcere e in altre stanze pare si stia preparando- di lì a poco- un colpo di stato. Due mesi prima, a Gioia Tauro, il deragliamento di un treno aveva provocato la morte di sei persone. Le prime indagini, frettolose e farraginose, avevano stabilito che si trattava solo di un incidente ma le cose in realtà erano molto diverse. Gli anarchici reggini avevano lavorato a lungo sulla vicenda, scoprendo un intreccio tra destra eversiva e 'ndrangheta, e il loro collegamento aveva portato dritto a Junio Valerio Borghese, il principe nero. La verità sulla strage di Gioia Tauro, per i tribunali, arriverà solo nel 2001, quando la Corte d'Assise di Palmi, dopo le rivelazioni del pentito Giacomo Ubaldo Lauro, stabilirà che la tesi dei cinque anarchici era corretta, e che la tragedia non era da imputare ad una fatalità, ma all'esplosivo che era stato collocato sui binari prima del passaggio del treno. Mandanti ed esecutori, però, restano ignoti o sono morti, e la giustizia italiana deve fermarsi qui.
Si fermano invece a Ferentino [...] anche i documenti dei ragazzi, quando la loro Mini si incastra sotto al rimorchio di un autotreno. Incidente, come sostiene la procura di Frosinone, o omicidio, come ripetono i compagni e le famiglie? "In Italia va di moda l'incidente" scriveva Camilla Cederna raccontando come nei mesi successivi la strage di piazza Fontana numerosi testimoni o persone in qualche modo legate alla vicenda avevano perso la vita in misteriosi scontri d'auto. Nella storia dei cinque ragazzi le prime coincidenze riguardano la figura di Borghese, che appare in maniera inquietante sullo sfondo in più occasioni. I fratelli Aniello , alla guida del Tir contro il quale impatta l'auto,risultano essere suoi dipendenti; in secondo luogo l'incidente avviene in vista del castello di Artena, di proprietà del principe Borghese. Nello stesso punto, otto anni prima, era morta in un incidente d'auto la moglie del comandante della Decima Mas, la nobile russa Daria Osluscieff, e nella stessa occasione era rimasto ucciso Ferruccio Troiani, il giornalista che l'accompagnava: stesso incidente d'auto nello stesso punto. Ancora più inquietanti appaiono però le dichiarazioni del pentito Giuseppe Albanese: "L'avvocato Barbalace di Pizzo Calabro, durante la comune detenzione nel carcere di Lecce, ebbe a confidarmi che i giovani anarchici erano stati uccisi da una squadra che era alle dipendenze del principe Borghese. Aggiunse che quello stesso sistema era stato utilizzato per eliminare una parente scomoda dello stesso Borghese". E ancora, i rapporti dell'incidente della polizia stradale sono firmati da Crescenzio Mezzana, che pochi mesi più tardi si precipiterà a Roma per partecipare al fallito golpe. Dieci giorni prima dell'incidente di Ferentino, inoltre, viene ucciso a Palermo il giornalista Mauro De Mauro, marò della X Mas; tra le molte ipotesi sulla sua scomparsa c'è chi ha sostenuto che fosse a conoscenza delle collusioni tra la mafia siciliana e i piani di realizzazione del colpo di stato diretto da Borghese. Dalla tessera ferroviaria di Casile risulta che il ragazzo aveva compiuto nell'estate 1970 numerosi viaggi proprio a Palermo: è possibile che anche l'anarchico stesse seguendo una traccia simile a quella di De Mauro? Cosa stava accadendo a Palermo in quei mesi tanto da richiamare tutta questa attenzione? Infine, esiste un'informativa del controspionaggio su quello che è successo a Ferentino: il documento però, contro ogni logica, è compilata dal controspionaggio di Palermo, diretto nel settembre 1970 dal colonnello Bonaventura, braccio destro del generale Miceli, accusato di aver partecipato ad alcune riunioni a Roma come referente dei servizi deviati siciliani. Nel novembre 2001 Aldo Giannuli, consulente della commissione stragi, consegna una relazione al tribunale di Brescia: sostiene di avere identificato una nuova struttura clandestina parallela ai servizi segreti, attiva dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, denominata come "Noto servizio". La struttura era stata fondata da un gruppo di ex repubblichini riuniti attorno alla figura di Junio Valerio Borghese, e può contare su un gruppetto di "specialisti" in grado di simulare incidenti stradali, eliminando così elementi scomodi. Oltre alla dinamica dell'incidente di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, risultano incomprensibili alcune questioni: perché alle famiglie non furono mai restituiti gli oggetti personali e le agende dei ragazzi? E perché agli amici fu impedito di visitare le salme e di vedere Annelise se non quando la ragazza entrò in uno stato di coma ormai irreversibile? E ancora, cosa c'era dentro il fascicolo intestato ai ragazzi scoperto in un deposito della via Appia dallo stesso Giannuli nell'estate del 1996, e trovato completamente vuoto? E poi ci sono le testimonianze, che raccontano di una misteriosa telefonata a casa Lo Celso la sera precedente l'incidente, nella quale un amico di famiglia che lavora nella polizia politica avverte il padre di Luigi di non far partire il figlio con gli altri ragazzi. E ancora, è esistito davvero questo dossier di controinformazione? Il 6 settembre, tre settimane prima dell'incidente, Aricò telefona a Roma e comunica agli anarchici della federazione che la controinchiesta procede bene, e che una parte del materiale è stata spedita al compagno Veraldo Rossi, che non riceverà mai il plico. Lo stesso Aricò prende poi un appuntamento con l'avvocato Edoardo De Gennaro per il 27 settembre a Roma: non arriverà mai. Fra la fine di agosto e il mese di settembre, raccontano i compagni dei cinque, succedono strani episodi: rullini fotografici che scompaiono, minacce telefoniche, aggressioni. Nel 1993 il pentito Giacomo Ubaldo Lauro, nel corso dell'inchiesta Olimpia, torna a parlare di quella vecchia storia dimenticata. Racconta di come quella morte, in realtà, possa avere una spiegazione, parla di conversazioni a proposito dei presunti mandanti; voci, appunto, non sufficienti, però,a riaprire il caso. Ricorda Tonino Perna, il cugino di Aricò: "Ho sempre di fronte l'immagine di mio cugino che due giorni prima di partire l'ho visto scuro in viso, veramente terrorizzato. Credo che un paio di giorni prima di partire per Roma avevano capito di aver toccato un nervo vitale. Avevano paura".

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