Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


sabato 23 novembre 2013

A TORINO CONTRO IL VERTICE ITALIA-ISRAELE PER DIRE NO AL PIANO PRAWER


Comunicato dell'Assemblea Nazionale

Dalla solidarietà alla Lotta Internazionalista - al fianco della Resistenza Palestinese


Siamo in dirittura d'arrivo in una fase che segnerà una nuova partenza: la solidarietà con la Palestina a livello nazionale ha intrapreso un percorso nel tentativo di sostenere la lotta di liberazione dall'occupazione israeliana perpetrata impunemente, rintracciando le strategie per appoggiare la Resistenza palestinese.




In tal senso sono stati organizzati tre convegni nazionali nei quali si è costruita una piattaforma di lotta che ribadisse con chiarezza alcuni punti fondamentali in appoggio ai diritti del popolo palestinese. Già nel primo incontro sono state approvate due mozioni, una relativa al sostegno alle lotte dei prigionieri, l'altra per indire una manifestazione nazionale che potesse finalmente esplicitare un nuovo linguaggio, che parli di sostegno alla Resistenza e che condanni gli accordi malevoli che invece mirano alla resa.
Inizialmente si era ipotizzato di organizzarla a Roma, successivamente si è convenuto per spostarla a Torino, in vista del post-annunciato vertice tra Italia-Israele che si sarebbe dovuto tenere nel capoluogo piemontese: un'occasione rilevante sia per costruire una forte contestazione contro un governo che stringe accordi di morte con il sionismo, sia per ribadire il nostro sostegno alla Resistenza palestinese, tra l'altro a ridosso della giornata internazionale di solidarietà con la Palestina che si celebra il 29 novembre.
Tutto questo non solo si è realizzato, grazie alla campagna per la mobilitazione generale che si è creata attorno alla piattaforma proposta, ma sta anche avendo prospettive di più ampia portata. Il 30 novembre saremo a Torino anche per dire no al Piano Prawer insieme alle compagne ed ai compagni palestinesi che nello stesso giorno organizzeranno manifestazioni di protesta a Gaza e a Ramallah.

Saremo inoltrea Torino per condannare lo stesso governo italiano che si piega alle logiche imperialiste dimostrando la sua sudditanza al governo fascista turco sequestrando il compagno Bahar Kimyongur, militante del movimento della Tayad, impegnato contro le guerre neocolinialiste del regime turco e nel sostegno delle classi oppresse, perché crediamo che l'internazionalismo sia far sentire la nostra vicinanza a chi lotta per l'autodeterminazione dei popoli.
Le iniziative promosse per costruire la mobilitazione hanno rilanciato in Italia un nuovo fermento di solidarietà con la Palestina caratterizzato da chiare parole d'ordine, come un nuovo fermento è oggi presente tra i palestinesi, sempre più determinati ed ostinati a resistere, e che troveranno in noi un sostegno nella loro lotta di liberazione.
Il 30 novembre dunque saremo a Torino, anche dopo aver appreso la notizia di un probabile tour italiano itinerante di Netanyahu che lo vedrebbe spostarsi nella capitale; nulla è cambiato rispetto al lavoro fatto e agli obiettivi prefissati, che non sono né inseguire il boia sionista in giro per l'Italia né tantomeno rincorrere gli eventi: le discriminazioni, gli assassini e gli arresti in Palestina sono all'ordine del giorno, gli accordi tra sionismo ed istituzioni ed i loro frutti sono sempre più capillari ed evidenti... E' necessario agire contro queste dinamiche portando avanti una campagna che dia progettualità ed obiettivi chiari all'impegno dei movimenti internazionalisti che si schierano contro la colonizzazione sionista della regione araba.
Riteniamo che a pochi giorni dall'appuntamento Roma non possa essere in grado di sostenere e riprendere in mano quello che invece è stato già costruito a e per Torino; allo stesso tempo siamo convinti di voler dare rilevanza a quanto abbiamo costruito insieme, per dar respiro ad una piattaforma di lotta e resistenza contro il sionismo chiara e netta, sicuri anche che la disponibilità data per la logistica e la gestione di tutti gli impegni presi resterà salda sia a Torino sia nel resto delle città in cui si sta continuando a lavorare.
Forse lo spirito della manifestazione non era o non è chiaro a tutti, ma spostarla con il solo scopo di essere presumibilmente nella stessa città in cui sarà Netanyahu significa mostrare una posizione politica fragile e precaria, volta solo a tentare di risolvere le problematiche presenti a livello territoriale e che non rientra nelle nostre logiche di internazionalismo.
Sappiamo che quella del 30 novembre sarà solo una tappa, la strada è certo lunga, ma è stata intrapresa e proseguiremo convinti che possa maturare dando dei frutti concreti. Come diceva il compagno George Habash «La lotta contro l’impresa sionista potrebbe durare un altro centinaio di anni; chi non ha la forza necessaria dovrebbe farsi da parte».
Perciò chiediamo a tutte le realtà che si sono adoperate nel costruire insieme questa “tappa” di continuare a sostenere il percorso che ci vedrà presenti in una mobilitazione nazionale che prevederà la Manifestazione Nazionale il 30 novembre ed il seminario sul sionismo il 1° dicembre a Torino, una o più giornate di contestazione attraverso presidi vicino ai luoghi della città in cui si terranno gli incontri bilaterali con la presenza di Netanyahu.
Per noi esiste un solo baricentro e non è a Torino, né a Milano, o Firenze, Salerno... e nemmeno a Roma, ma nella Palestina occupata.
 
CON LA RESISTENZA PALESTINESE
CON I POPOLI CHE LOTTANO CONTRO L'IMPERIALISMO ED IL COLONIALISMO
TUTTE A TUTTI A TORINO IL 30 NOVEMBRE 2013 PER UNA GRANDE
MANIFESTAZIONE NAZIONALE
 
Rete di solidarietà con la Palestina - Milano
per l'Assemblea Nazionale
Dalla solidarietà alla Lotta Internazionalista - al fianco della Resistenza Palestinese
 

Inviato da admin il Ven, 22/11/2013 - 14:58





Fonte:

mercoledì 20 novembre 2013

SARDEGNA: GABRIELLI E CAPPELLACCI SAPEVANO TUTTO

Un meteorologo li aveva avvertiti dell'imminente alluvione 5 giorni prima. Né Protezione Civile, né Regione Sardegna hanno preso provvedimenti. E ora dicono che è stato un «evento imprevedibile».
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
martedì 19 novembre 2013 18:29
 
 

Antonio Sanò, fondatore del sito IlMeteo.it.
Antonio Sanò, fondatore del sito IlMeteo.it.
 

di Franco Fracassi

Sapevano tutto e non hanno fatto niente per prevenire il disastro. È l'ennesima volta che accade in Italia. L'ultima volta era accaduto per il terremoto dell'Aquila. La Protezione Civile e la Regione Sardegna erano state avvertite mercoledì 13 novembre che in Sardegna ci sarebbe stato un nubifragio di proporzioni bibliche. Nulla è accaduto da allora, se non l'arrivo del ciclone "Cleopatra" con i suoi morti e le sue distruzioni.


A dare l'allarme era stato Antonio Sanò, meteorologo e fondatore del sito "IlMeteo.it". «Le previsioni basate su calcoli fisico-matematici avevano permesso con almeno cinque giorni di anticipo di indicare un possibile evento alluvionale per la Sardegna per la giornata di lunedì. Purtroppo il dissesto idrogelogico, una scarsa cultura della prevenzione, una sufficienza nei confronti delle previsioni meteo, hanno causato e causeranno alluvioni», ha dichiarato Sanò.

Secondo una fonte interna alla Regione, Popoff è in grado di aggiungere che «Il 17 novembre la Protezione Civile chiamò Cappellacci informando ufficialmente la giunta regionale dell'imminente stato di all'erta rossa, significa anche prevedere dei morti, ma lui, Cappellacci, pensava al PPS da presentare ai sindaci di tutti i Comuni, spiegando l'utilità di costruzioni nella fascia di trecento metri dal mare».

Ma vediamo chi sono le autorità che il meteorologo aveva messo in allarme.


Franco Gabrielli, capo Protezione Civile ed ex prefetto dell'Aquila dal 6 aprile 2009. Dall'1 maggio 2009 al 31 gennaio 2010 è stato vice commissario vicario dell'Emergenza Abruzzo, al fianco del Commissario Guido Bertolaso. In altre parole, una delle persone responsabili della mancata ricostruzione post terremoto e sodale di un plurinquisito.


Ugo Cappellacci, presidente della Regione Sardegna dal febbraio 2009 e coordinatore regionale di Forza Italia. In questo caso, la lista delle indagini giudiziarie pendenti sul capo dell'uomo di Berlusconi sull'isola è lunga:
Il 15 maggio 2010 si apprende che il governatore è indagato per presunta corruzione nell'aggiudicazione degli appalti dell'energia eolica in Sardegna. Si tratta dell'inchiesta che coinvolge l'imprenditore amico di Licio Gelli e Silvio Berlusconi, Flavio Carboni, oltre che l'ex capo della Protezione Civile, il già citato Bertolaso.
Cappellacci è indagato per l'indagine Cisi, costola della più importante maxi-inchiesta Fideuram sulla truffa agli enti regionali.
Il 15 giugno 2012 viene richiesto il rinvio a giudizio nell'inchiesta sul crac della municipalizzata del centro di Carloforte: Cappellacci dovrà rispondere di bancarotta per una società, di cui era presidente del consiglio di amministrazione, fallita nel 2010 con un passivo accertato di circa due milioni di euro.
L'8 marzo 2013 la Procura di Cagliari sollecita il rinvio a giudizio del governatore per l'inchiesta relativa al crac milionario della Sept Italia, azienda specializzata nella produzione di vernici, della quale Cappellacci faceva parte in qualità di membro del consiglio di amministrazione. Il governatore è stato accusato di bancarotta per dissipazione e documentale.

La notte 6 aprile del 2009 L'Aquila venne scossa da un terremoto che causò la morte di 303 persone. Durante tutto il mese precedente al sisma, Giampaolo Gioacchino Giuliani (ex tecnico dell'Istituto di Fisica dello Spazio Interplanetario distaccato presso i Laboratori Nazionali del Gran Sasso) aveva provato a lanciare l'allarme, descrivendo, inascoltato, il terremoto nelle fattezze in cui poi si manifestò.



Fonte:

LANDER E' LIBERO. ADESSO LIBERI TUTTI!

  •               di Marco Santopadre
Lander è libero. Adesso liberi tutti!
“Lander assolto”. La notizia è arrivata ieri all’ora di pranzo, poco prima che nel Lucernario occupato da pochi giorni all’interno dell’Università La Sapienza di Roma iniziasse un incontro con due giovani baschi, uno dei quali sotto processo a Madrid, insieme ad un’altra quarantina di compagni e compagne, esclusivamente per aver militato in una organizzazione giovanile di massa – Segi – che la Spagna ha prima messo fuori legge e poi dichiarato ‘terroristica’. 
Dopo 2 giorni passati nel carcere di Regina Coeli, dieci mesi ai domiciliari in una casa occupata a Garbatella e poi quasi 7 mesi di carcere a centinaia di chilometri da casa, Lander Fernandez ha potuto recuperare ieri sera la libertà. Insieme ad Aingeru Cardano, il suo amico e compagno che torturato dalla polizia, firmò una dichiarazione in cui asseriva che nel 2002, durante una manifestazione a Bilbao contro la repressione spagnola del movimento basco di liberazione nazionale, Lander era presente quando un autobus, vuoto e in sosta, venne incendiato da alcuni dimostranti. Appena finito il periodo di isolamento totale al quale era stato sottoposto senza la possibilità di comunicare con la famiglia e neanche con un avvocato – una ‘incomunicaciòn’ di 5 giorni nelle mani della polizia che permette abusi e torture nei commissariati – Aingeru si affrettò a dichiarare davanti al giudice che la sua ‘confessione’ era falsa e che aveva dichiarato solo ciò che i carcerieri e i torturatori volevano sentirsi dire per cessare gli abusi. Ma per la legge spagnola le dichiarazioni estorte sotto tortura sono prove, ed è su questo elemento che spesso la Audiencia Nacional di Madrid intenta processi che portano a condanne di anni di carcere per reati che in un contesto non infinatamente emergenzialista come quello basco (o meglio, spagnolo) comporterebbero lievi pene se non addirittura solo una multa.
Questa volta, per fortuna, non è andata così: Lander è stato assolto. Contro di lui, hanno dovuto ammettere i giudici del tribunale speciale di Madrid, non c’è nessuna prova. Lo avevano sostenuto da subito coloro che quando il giovane basco fu arrestato a Roma nel giugno del 2012 dalla polizia italiana iniziarono a denunciare un’operazione di natura tutta politica, sottolineando che Lander era da anni sottoposto a una pesante persecuzione da parte dei tribunali spagnoli.
Ma nonostante documenti e testimonianze i giudici e i ministri italiani incaricati di decidere se concedere o no l’estradizione preferirono girare la testa dall’altra parte di fronte alle denunce di Amnesty International, dell’Onu e della stessa Unione Europea, che da anni mettono sotto accusa un sistema giudiziario e carcerario spagnolo che utilizza sistematicamente la tortura, che viola i diritti processuali degli imputati per motivi politici. Anche la stampa italiana ha preferito trattare la questione scopiazzando le veline del Ministero degli Interni di Madrid e riportando notizie false, completamente inventate e tese esclusivamente a dare in pasto alla già intossicata opinione pubblica dello Stato Spagnolo un mostro da sbattere in prima pagina.

Da giornalisti e giudici incompetenti e complici della repressione non avremo risposte, eppure di domande da fare ne avremmo molte: perché estradare Lander a Madrid quando era evidente che contro di lui non c’erano prove? Perché continuare a dare credito ad un paese come la Spagna che non tratta i baschi diversamente da come la Turchia tratta i curdi? Perché neanche appelli firmati da intellettuali e parlamentari italiani di diversa ispirazione politica hanno rotto un sistema ben oliato di complicità tra le istituzioni italiane e quelle spagnole? Chi risarcirà Lander e la sua famiglia per gli anni passati in carcere e per la continua e pesante diffamazione subita dai mezzi di informazione?
Mentre i familiari e gli amici – che a Roma non sono meno di quelli di Bilbao – si godono la liberazione di Lander e la fine – speriamo definitiva – di una lunga e pesante persecuzione nei suoi confronti, il pensiero va a tutti e a tutte coloro che sono rinchiusi nelle carceri francesi e spagnole, o in esilio, a causa della loro militanza politica e sociale nel movimento indipendentista basco. Nei giorni scorsi una ventina di militanti hanno recuperato la loro libertà, dopo decenni di prigione, grazie alla bocciatura da parte del Tribunale Europeo dei Diritti Umani di una norma – la dottrina Parot – che Madrid si era inventata alcuni anni fa per prolungare artificiamente le già pesanti condanne inflitte ai militanti indipendentisti. Ma proprio in questi giorni centinaia di persone sono sotto processo perché accusate di aver militato in diverse organizzazioni – principalmente Segi e Batasuna – nonostante queste fossero state dichiarate fuorilegge perché ‘emanazione dell’Eta’. Nessun reato specifico viene loro contestato, se non quello di aver continuato ad esercitare il loro diritto di fare politica alla luce del sole, violando assurdi divieti. Assurdi quanto la pena che il tribunale franchista ereditato dalla ‘Spagna democratica’ vuole infliggere ad alcuni attivisti del movimento No Tav basco che osarono lanciare una torta in faccia alla governatrice della Navarra ed esponente dell’estrema destra liberista e cattolica da sempre sostenitrice dell’alta velocità. Se in Spagna anche lanciare torte è ‘terrorismo’ la solidarietà e la denuncia non possono riposare neanche un minuto.
Lander è libero, ora liberi/e tutti/e!

Di seguito il comunicato del comitato "Un caso basco a Roma":

http://uncasobascoaroma.noblogs.org/post/2013/11/19/lander-e-aingeru-sono-di-nuovo-liberi/

 
Ultima modifica il Martedì, 19 Novembre 2013 12:38 
 
 
 
Fonte:
 

lunedì 18 novembre 2013

PER CHI SUONA REGGIO CALABRIA

  • Scritto da 

 

Migliaia di cittadini hanno sfilato il 16 novembre per le vie della città di Reggio Calabria rispondendo all’appello “Suona Reggio, Suona!”, nato tramite il tam tam sui social media su iniziativa di Saro Poppy Lanucara, presidente del circolo Arci Fanfulla di Roma e raccolto dall’Associazione Mu.Stru.Mu., all’indomani dell’incendio doloso che ha colpito il Museo dello Strumento Musicale.
Doveva succedere ed è successo. E’ stato un successo, di quelli che la città non vedeva da anni o non ha mai voluto vedere perché a crederci erano in pochi.
“Ma quanti saremo?” ci si domanda ansiosi verso le 16,00 quando almeno un centinaio già affollavano Piazza Italia, luogo del concentramento nel bel mezzo della febbre del sabato pomeriggio da shopping stanco ed esacerbato sul Corso Garibaldi, ove IOS e Whatsapp hanno soppiantato la conversazione lungo il cammino avanti e indietro per vetrine, e magari un caffè che sa di più e del meno.
“Ma quanti siamo?” ci si domanda all’imbocco della rotonda verso Pineta Zerbi quando un fiume in piena invade l’arteria principale con davanti il Grande Gong, la croce musicale di Giovanni Laganà, Jesus dell’Eco Jazz, la fisarmonica del prof. Consolato Pedagogista Cantore e gli strumenti a corda (chitarre, violini, violoncelli) nel mezzo fiati e percussioni (pipite, clarini, jambè, tamburi, tamburelli), innumerevoli ciancianeddi, cucchiai, pentole e ammennicoli vari di chi non sa suonare ma ha voluto suonare lo stesso per farsi sentire. A chiudere, sull’autobus aperto offerto dall’Atam, la Banda Musicale del Comune di Mosorrofa (RC), Cavalleria Rusticana di feste patronali paesane.
In mezzo c’è stato di tutto: mamme e papà, carrozzine, bambini con nacchere, studenti e studentesse che hanno spaziato da “I miei sogni d’Anarchia” di Rino Gaetano a “Resistance” dei Muse, giovani lavoratori venuti giù dal Nord infischiandosene dei costi altissimi delle Ferrovie dello Stato, anziani che hanno perpetuato l’attacco de “non ‘nventu canzuni e non sacciu cantari, me mamma non mi fici cantaturi ma aju l’organettu e mi mentu a sunari”, il Comitato “Salviamo il Teatro Masciari” di Catanzaro, il Coro Be Free del Liceo Scientifico “L. Da Vinci”, l’orchestra giovanile “Leotta” e l’Associazione culturale Snap. E tantissimi altri. Demetrio Spagna e i ragazzi dell’Associazione Mu.Stru.Mu. invasi dall’abbraccio di una città che ha voluto mandare un segnale chiaro di vitalità e presenza, a prova del fatto che Reggio, nonostante riceva attacchi quotidiani, non vuole continuare a subirli passivamente.
L’assenza dei partiti e delle organizzazioni rappresentative e istituzionali (a parte le eccezioni solite che si contano sulle dita di una mano) passa inosservata tanto è sempiternamente normale. E’ stato il trionfo di una moltitudine sconosciuta agli stessi partecipanti, perché anche se la manifestazione è stata caratterizzata da un attacco subito come tanti altri, stavolta non vi è stato il codazzo di protagonismo e primogeniture.   
Non è stata nemmeno una “passeggiata”, ma un cammino festante e brigante che, non posando chitarra e tamburi, li ha voluti suonare come una scupetta a chi ha sempre voluto fare di Reggio una poco novella Terra dei Fuochi.
Giungendo davanti a quel che resta del Mu.Stru.Mu. ci sovviene ancora quella domanda: “Ma quanti siamo?”. Guardando le migliaia di volti differenti ad esprimer rabbia col sorriso sornione sulle labbra, ci si accorge che la domanda è inutile. Non importa la quantità dell’esercito musicante, ma lo spirito del suono delle truppe in festa. Perché è una festa e non una marcia funerea.
Di certo si era molti di più del solito, la cosa importante è stata la volontà di non testimoniare più ma di agire per la ricostruzione del Museo e nel suo insieme della “piccola grande Città, bastardo posto”.
Occorre cogliere questa rinnovata e fresca volontà di partecipazione, non richiudibile in sofismi da capipopolo o etichette rappresentanti del nulla.
Occorre surfare su questo fiume in piena che, mentre agitava Pisa, Val Susa, Gradisca di Isonzo e Napoli, ha straripato anche a Reggio Calabria che piaccia o no, difficile da gestire per chi resta e per chi ritorna su in esilio voluto o forzato, senza contrapposizioni perché Reggio è a Reggio ed è in tutta Italia.
Il secondo album è sempre il più difficile, ma “Suona Reggio, Suona!”.

Pigghiamu la musura di li scarpi.
(cit. tarantella)



Fonte:


domenica 17 novembre 2013

#STOP BIOCIDIO, #FIUMEINPIENA


 Foto: Dinamo Press



domenica 17 novembre 2013 - 00:05


di Giuliana Caso

Centomila o meno, questa volta, i numeri non contano. Perché il consueto balletto di cifre tra gli organizzatori e la questura, con la media data per accettabile, nella manifestazione di questa sera non si può applicare. Non si possono contare la rabbia, il dolore, l’entusiasmo e la passione di chi ha dato vita questa sera a #fiumeinpiena. Noi l’abbiamo vista, l’abbiamo ascoltata e respirata questa manifestazione oceanica di cui, mente la testa arrivava a piazza Plebiscito, la coda sfilava ancora a piazza Nicola Amore. Abbiamo visto che c’erano tutti, ma proprio tutti. Il dissenso coagulato attorno ad una nuova idea di partecipazione. Senza simboli, senza partiti, senza targhe. Qualche gonfalone delle città di Pozzuoli, di Caivano, di Casoria, di Frattamaggiore, Frattaminore. Quello del Comune di Napoli, che chissà perché si apprestava alla testa del corteo, è stato invitato a confondersi nel mezzo, come gli altri, insieme agli altri.
C’erano don Patriciello e il professore Marfella, ma c’era anche padre Alex Zanotelli, c’erano tutti i comitati, e c’erano le mamme, che hanno sfilato con le foto dei loro figli morti, protette da un cordone di silenzio; c’erano i Medici per l’Ambiente in camice bianco e mascherina. Marciare per non morire, era il loro slogan. C’era una delegazione di No Tav e una di Taranto, c’erano i comitati contro l’inceneritore di Giugliano, c’erano tanti, tantissimi studenti dei licei e delle scuole della Terra dei Fuochi. C’erano i sindacati, i boy scout, la chiesa evangelista e i frati francescani.
Ma più di tutto, c’era la voglia fortissima di urlare forte questa lotta è nostra, la vita è nostra, non riuscirete ad ammazzarci tutti. La testa del corteo procedeva in un silenzio surreale, lungo un corso Umberto deserto e con i negozi chiusi. Procedeva in una pioggerellina che non ha mai smesso di cadere, ma che non ha spento il fuoco di chi ha deciso, organizzato, di chi ha preso la macchina, l’autobus, il treno, pur di fare parte di #fiumeinpiena. C’era il silenzio ma c’era anche la musica, quelle delle lotte, c’era bella ciao e c’erano i Modena City Ramblers, la musica che accompagna sempre i passi di chi scende in piazza per rivendicare un diritto.
C’erano i colori e l’ardore di chi non è uso a tenere in mano uno striscione, di chi non è mai appartenuto a una bandiera. C’erano le foto dei presunti colpevoli del biocidio, alti cartelli come le facce dei vari commissari per i rifiuti. C’erano le tragedie, le morti e le speranze di chi ha visto devastare la propria terra, di chi oggi è sconcertato e disorientato, e chiede la verità. Ecco, le centomila o poco meno persone che questa sera hanno invaso la città di Napoli hanno chiesto la verità; non vendette o ritorsioni, ma una verità che se anche fosse troppo dura da dire, loro hanno tutto il diritto di ascoltare. “Vogliamo risposte certe”, ha detto don Patriciello.
Il corteo di #fiumeinpiena si è svolto in un disordinato ordine; non c’erano i professionisti delle manifestazioni che dettano slogan, stabiliscono il ritmo della camminata e l’ordine degli striscioni. Non c’erano politici, o se c’erano erano defilati, quasi in incognito. Maurizio Landini, e poco più in là Nino D’Angelo. Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris si è unito al corteo quando è passato sotto le sue finestre, a piazza Municipio.
A Piazza Plebiscito i ragazzi di #fiumeinpiena hanno letto il documento collettivo con le dieci proposte per salvare la Terra dei Fuochi, padre Alex Zanotelli ha spezzato il pane della legalità, prodotto nella Terra dei Fuochi, e don Patriciello ha ricordato che in questa terra si muore, si muore troppo; lo ha fatto chiamando sul palco le mamme dei bambini uccisi dal cancro, e chiedendo al presidente Napolitano di intervenire. Ma il popolo della Terra dei Fuochi ha fischiato, dal presidente si sente tradito, del cardinale Sepe non sente la vicinanza. E ha fischiato.
“Voi giovani – ha detto ancora don Patriciello – ci state dando un insegnamento incredibile. La mia generazione passerà alla storia come quella degli stolti. Mi sento come un padre a cui hanno violentato un figlio sotto gli occhi e non se n’è accorto. Io facevo il prete e dicevo a tutti di avere fiducia nelle istituzioni ma ora non lo dico più, perdonatemi, vi dico di avere fiducia nei buoni. La chiesa campana è con noi. Il cardinale Sepe non è potuto venire ma è con noi. Stasera mettiamo un punto e andiamo a capo. Qualcosa succederà”.
Questa sera, nel corteo e in piazza non c’erano i disturbatori violenti che pure si temevano, quelli che abitualmente vengono chiamati anarchici; se anarchici c’erano, erano decisamente pacifici. Quello che c’era, una splendida coscienza civica, che rifiuta etichette e padroni, che ha un obiettivo e lo persegue. Le istanze di una cittadinanza che non si rassegna, a cui non stanno più bene tante cose, e non solo l’avvelenamento della terra. Una cittadinanza che non ha bisogno di bandiere, ma che adesso è protagonista; che, decisamente, si è stancata di a delegare, e che questa sera, qui a Napoli, ha urlato forte, come ha ripetuto don Patriciello “noi siamo qui, siamo questo, dovete avere a che fare con noi, ci dovete delle risposte, delle azioni. Eccoci”.


Fonte:


http://www.paralleloquarantuno.com/2013/11/17/in-piazza-la-voglia-di-urlare-la-vita-e-nostra-e-ce-la-riprendiamo/






martedì 12 novembre 2013

PER I NO TAV TERZO VALICO DUE IMPORTANTI GIORNATE DI LOTTA

novembre 11, 2013 

genova 


Dopo circa un anno i No Tav – Terzo Valico sono ritornati nelle strade della Valpolcevera per dire  no al terzo valico e lo hanno fatto in tanti. Oltre un migliaio di persone per le strade di Pontedecimo che forse non vedeva un corteo così partecipato dai giorni della Liberazione del nazifascismo, in una staffetta immaginaria per un’altra liberazione, quella della Terra.
Nonostante l’aggressione del territorio, le denunce, i fogli di via, la pantomima degli espropri prima dichiarati e poi rinviati, sono tornati nelle strade della Valpolcevera per urlare ancora più forte la  contrarietà all’ennesima opera inutile e dannosa per realizzare la quale  si vogliono abbattere case per costruire il by-pass, l’ennesima opera compensativa, una strada che si reggerà su 15 campante nel greto del torrente Verde, proprio nei pressi di un ospedale che mano a mano si sta chiudendo. Ecco questa è la logica del terzo valico, quella del profitto, del cemento, della mafia, della morte mentre si respira amianto.
E poi domenica ancora in piazza nel versante piemontese, ad Arquata per andare di nuovo in tanti a Borgo Radimero per riprendersi i terreni che Cociv ha recintato e dove ha iniziato la distruzione tagliando diversi alberi; le reti sono stati abbattuti ed altri alberi piantati.



Fonte:


 

 




domenica 10 novembre 2013

ARAFAT AVVELENATO

I palestinesi indicano come mandante Israele. Sanno pero' che la lenta uccisione del leader dell'Olp può essere stata compiuta solo dalla mano di qualcuno che gli era vicino.

venerdì 8 novembre 2013 10:00

 

AGGIORNAMENTO ORE 13
Ramallah - Alla conferenza stampa dell'Anp sull'avvelenamento di Yasser Arafat, Il capo della commissione palestinese d'inchiesta Tawfiq Tirawi ha detto che Israele e' l'unico sospettato e che saranno seguite tutte le strade anche giudiziarie per arrivare alla conferma definitiva dell'avvelenamento di Arafat, morto nel 2004 per cause rimaste sino ad oggi misteriose.


di Michele Giorgio - Il Manifesto 

  Gerusalemme, 8 novembre 2013, Nena News - «I vertici dell'Anp hanno sbagliato, dovevano essere protagonisti sin dal giorno della morte di Yasser Arafat di una iniziativa forte volta a far piena luce sulle cause della sua malattia. Invece sono rimasti indietro, hanno esitato, hanno scelto il basso profilo, facendosi superare dalle inchieste giornalistiche. Per i leader dell'Anp questa vicenda potrebbe rivelarsi molto dannosa». L'ex ministro Ghassan al Khatib, ora analista politico, rispondendo alle domande del manifesto mette il sale sulla ferita aperta dalla pubblicazione del rapporto preparato dagli esperti svizzeri che hanno esaminato e analizzato la salma riesumata dell'uomo che per oltre 40 anni è stato il simbolo della causa palestinese. Perchè la conferma «all'83%» giunta da Losanna che Arafat è stato avvelenato con il polonio non mette sotto accusa soltanto Israele che nega il suo coinvolgimento ma viene indicato dai palestinesi come «mandante dell'assassinio» di Mister Palestina.

Sotto pressione sono anche i leader dell'Anp e dell'Olp che scelgono di rimanere in silenzio. Ai palestinesi nei Territori occupati non sfugge il più inquietante dei tanti aspetti misteriosi di questa vicenda: Israele, dicono, ha ordinato ma la mano che ha avvelenato Arafat è sicuramente palestinese. La mano di qualcuno che doveva essere vicino al presidente mentre viveva, di fatto confinato, nel suo ufficio di Ramallah. «C'era una decisione del governo israeliano di non toccarlo (Arafat)», sostiene Ranan Gissin, un collaboratore dell'ex premier israeliano Ariel Sharon, il nemico implacabile del leader palestinese. «Se qualcuno lo ha avvelenato - aggiunge - era certo uno dei suoi collaboratori». E' forte perciò l'attesa per la conferenza stampa che stamani terrà alla Muqata di Ramallah, un ex capo dell'intelligence, Tawfiq Tirawi, responsabile della commissione che, almeno sulla carta, ha seguito l'accertamento medico e chimico delle cause della morte di Arafat.

Non tanto per conoscere i particolari del rapporto preparato dagli specialisti svizzeri già largamente anticipato dalla tv qatariota al Jazeera, quanto per sapere quali passi l'Anp e l'Olp intendono fare. La popolazione palestinese e la base di Fatah, il partito guidato per decenni da Arafat e, dal 2004 in poi, da Abu Mazen, fanno una sola richiesta: una inchiesta internazionale per individuare e punire il mandante e l'esecutore dell'avvelenamento mortale. Una richiesta legittima.

Per l'assassinio dell'ex premier libanese Rafiq Hariri (febbraio 2005) infatti è stata avviata un'indagine internazionale che fa capo al "Tribunale speciale per il Libano". A maggior ragione dopo la conferenza stampa tenuta ieri dagli esperti esperti svizzeri che tra frasi prudenti e una linea esageratamente cauta, hanno comunque confermato che l'avvelenamento resta la causa quasi certa della morte di Arafat. «I palestinesi attendono di vedere in azione i loro leader, vogliono vederli impegnati a portare avanti una causa di giustizia e verità in nome di un uomo che è stato un simbolo per una intera nazione», spiegava ieri sera il politologo Hani al Masri.

Abu Mazen è perciò chiamato a prendere posizione sul caso-Arafat. Da Gaza il movimento islamico Hamas lo incalza sollecitando l'interruzione immediata dei negoziati con Israele dopo la pubblicazione del rapporto sull'avvelenamento di Arafat. Il presidente dell'Anp però ha le mani legate. Riprendendo lo scorso luglio le trattative, si è impegnato per almeno nove mesi a non fare ricorso ad alcuna corte internazionale per denunciare Israele. Qualcuno sussurra che a gettare un salvagente ad Abu Mazen a questo punto potrebbero essere i risultati degli esami, simili a quelle fatti dagli svizzeri, che hanno effettuato sulla salma di Arafat due team di esperti francesi e russi. Dovessero fornire esiti molto diversi la vicenda rientrerebbe nel limbo in cui è rimasta per nove anni.

Non si arrenderà in ogni caso Suha Tawil, la controversa vedova di Arafat. Pochi giorni prima della morte del marito, denunciò quelli che a suo dire intendevano «metterlo nella tomba prima del tempo», in riferimento a non meglio precisati alti dirigenti dell'Anp. Parole che fecero infuriare quella che poi sarebbe diventata la nuova leadership palestinese. Descritta dai suoi detrattori come superficiale e avida, accusata di aver preteso un generoso vitalizio dall'Olp, Suha Tawill comunque ha avuto il merito di aver chiesto sempre e gran voce in tutti questi anni che si facesse piena luce sulla morte del leader palestinese. Altri hanno scelto il silenzio.Nena News 



Fonte:


martedì 5 novembre 2013

MUORE DETENUTO PALESTINESE, ANP ACCUSA ISRAELE

Il ministro palestinese Qarake: il prigioniero non e' stato curato in tempo e con terapie adeguate nel carcere di Meggiddo.

martedì 5 novembre 2013 10:54


della redazione

 
Gerusalemme, 5 novembre 2013, Nena News - L'Anp di Abu Mazen lancia oggi pesanti accuse a Israele in seguito al decesso, avvenuto la scorsa notte, di un detenuto palestinese, Hassan Turabi, 22 anni. Il giovane soffriva di leucemia ed era stato rilasciato solo pochi giorni fa di fronte alla gravita' delle sue condizioni.

Turabi, originario di un villaggio vicino Nablus, era stato arrestato all'inizio dell'anno e il ministro palestinese per i prigionieri Issa Qarake ha accusato le autorita' del carcere israeliano di Meggiddo di non aver predisposto in tempo cure adeguate per il detenuto e di essere percio' responsabili della sua morte.

"Aveva cominciato a star male subito dopo il suo arresto ma gli israeliani non lo hanno mai curato fino a quando, lo scorso marzo, ha avuto un collasso", ha spiegato Qarake.

Il ministro ha notato che con la morte di Turabi salgono a cinque i prigionieri politici palestinesi morti in detenzione o liberati solo negli ultimi giorni di vita: Zuheir Libbada, Ashraf Abu Tharee, Arafat Jaradat, Maysara Abu Hamdiyya e Hasan Turabi. Nena News 




Fino:

sabato 2 novembre 2013

2 novembre 1917 - 2 novembre 2010: Balfour a Gaza + link di un articolo di Cecilia Dalla Negra sulla Dichiarazione Balfour

Dal blog http://guerrillaradio.iobloggo.com/ di Vittorio Arrigoni:


11/11/2010

Il mio pezzo di ieri per Infopal.it:


Il 2 novembre del 1917 sir Arthur James Balfour con la sua dichiarazione di adesione al progetto sionista di occupazione e colonizzazione della Palestina, dava il via ad un secolo di pulizia etnica dei palestinesi.
the balfour declaration
Per commemorare questo infausto giorno, che a distanza di 93 anni continua a ripercuotersi in epidemia di distruzione, di privazione di diritti e terra, di incarcerazione di esistenze e intere città,per ribellarci all’idea di come un potenza occupante abbia potuto avallare una catastrofe tale,muniti solo delle nostre bandiere e di un megafono martedì scorso siamo andati con alcuni volontari di Beit Hanoun a manifestare dinnanzi ai cecchini di Erez:




Così Saber al-Zanin, coordinatore dei volontari di Local Initiative:
Siamo qui oggi dinnanzi al confine Nord della Striscia di Gaza a protestare contro la creazione della “buffer zone”, tramite la quale Israele ci ha sottratto di fatto il 35 % delle terre coltivabili. Oggi è il 2 novembre 2010, nello stesso giorno 93 anni fa il governo britannico dette via libero al progetto sionista per la creazione di uno stato ebraico in Palestina. Qui nella terra dei nostri nonni, la terra degli ulivi, è passato di generazione in generazione il messaggio di respingere con tutte le nostre forze la promessa fatta dal Regno Unito ai sionisti,  tramite quella disgustosa dichiarazione di da Arthur Balfour. Dopo 93 anni la nostra generazione sta ancora aspettando che giustizia sia fatta e che i diritti sottratti ai nostri nonni ci siano restituiti. A dispetto di tutti i paesi che cospirano con Israele contro di noi, che ne sono complici,  la nostra resistenza è ancora attiva e i nostri diritti radicati su quella terra che ci è stata rubata. Ringraziamo tutti coloro, dal di fuori dalla Palestina ci sostengono, la solidarietà internazionale che in questi mesi si è dimostrata attiva con i convogli, le flotte di navi e qualsiasi dimostrazione in nostro favore in Europa e negli Stati Uniti. Apprezziamo e siamo fieri dei cittadini inglesi che solidarizzano con la nostra causa ma vogliamo ricordare loro che il loro governo, passato e presente, e’ una delle principali cause della nostra miseria. Quindi prima di arrivare a Gaza invitiamo gli attivisti inglesi  a ribellarsi al loro governo ancora oggi complice dei sionisti d’Israele”.
Un messaggio, quello di Saber, colto in pieno da Adie Mormech , compagno di Manchester dell’International Solidarity Movement. Adie ritiene che la gente del suo Paese ha il dovere di riparare ai torti del coinvolgimento britannico alla pulizia etnica della Palestina:
"Il ruolo del governo britannico come sostenitore d’Israele e’ molto simile a come la Gran Bretagna ha contribuito al sistema dell'apartheid in Sud Africa. Fortunatamente molti cittadini britannici si sono mobilitati contro il regime dell'apartheid, appoggiando il boicottaggio al governo razzista sudafricano fino alla sua estinzione. Oggi in Gran Bretagna e in tutto il mondo il movimento di boicottaggio, disinvestimento e di sanzioni verso Israele cresce progressivamente mentre la comunità internazionale continua a permettere a Israele  di mantenere Gaza sottoposta ad una sorta di assedio medievale, la Cisgiordania e Gerusalemme occupate e i palestinesi sotto persistente regime di e discriminazione e pulizia etnica. Come è avvenuto per il Sud Africa, sta alle persone di coscienza in tutto il mondo unirsi al movimento fino a quando Israele non rispetterà il diritto internazionale e permettera’ ai palestinesi gli stessi diritti umani di qualsiasi altro popolo".
Allontanandoci da Erez abbiamo sentito poco distante da noi i rumori sordi di spari provenienti dalle torrette di sorveglianza al confine: alla fine della giornata si conteranno 2 civili gambizzati dai cecchini israeliani.
Il giorno dopo, una sottaciuta nuova dichiarazione di Balfour veniva firmata, questa volta non dai britannici  bensi’ da Obama, col sangue palestinese.
Una nave da guerra statunitense al largo del mediterraneo lanciava un missile teleguidato verso il centro di Gaza city e uccideva il miliziano Muhamad Jamal Nimnim, di 27 anni.
Il primo assassinio “mirato” targato USA nella Striscia di Gaza. 
Restiamo Umani,
Vittorio Arrigoni da Gaza city 

Fonte:

venerdì 1 novembre 2013

Portogallo, in migliaia oggi davanti al Parlamento per protestare contro i tagli

01/11/2013 16:03    Autore: fabrizio salvatori 
 
Migliaia di portoghesi hanno manifestato oggi davanti al parlamento per protestare contro i severi tagli alla spesa pubblica previsti nel bilancio 2014, che il parlamento si appresta a votare in prima lettura. "Governo fuori legge", "il bilancio e' un furto" e "Basta la troika" si poteva leggere sui cartelli dei dimostranti che avevano come obiettivo la coalizione di centro destra al potere e la troika Ue-Bce-Fmi.
"Per il governo e' arrivata l'ora di andarsene" scandivano i manifestanti che hanno risposto all'appello della Cgtp, principale confederazione sindacale portoghese, vicina al partito comunista.
La bozza di bilancio, la cui versione finale sara' votata il 26 novembre, prevede risparmi ed entrate supplementari pari a 3,9 miliardi di euro, equivalenti al 2,3% del pil. Secondo il governo, la legge di bilancio permettera' al Paese di concludere nel giugno 2014, come previsto, il programma di rigore e riforme negoziate con l'Unione europea e il Fondo monetario internazionale nel magio 2011, in cambio di un prestito di 78 miliardi di euro.
La Corte europea dei diritti umani proprio ieri ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato da due impiegati pubblici portoghesi che nel 2012 si erano visti ridurre, rispettivamente di 172 e 227 euro le due mensilita'. La decisione del governo portoghese di tagliare la tredicesima e quattordicesima mensilita' della pensione degli impiegati pubblici per un periodo di tre anni, per far fronte alla crisi economica, non ha leso i loro diritti, ha detto la Corte di Strasburgo sottolineando che la riduzione della pensione "e' stata una restrizione proporzionata sul diritto di proprieta' dei ricorrenti”. “Visti gli eccezionali problemi finanziari che il Portogallo doveva affrontare in quel momento e la natura temporanea del taglio delle pensioni – ha formulato la corte - il governo portoghese ha ben bilanciato gli interessi generali e quelli relativi alla protezione dei diritti dei singoli". La Corte ha ricordato inoltre che l'articolo primo del protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che sancisce il diritto alla proprieta', "permette agli Stati membri di ridurre l'ammontare delle pensioni quando questo e' nell'interesse pubblico e fin tanto che lo Stato bilancia correttamente i vari diritti in gioco".


Fonte:

ISRAELE UCCIDE QUATTRO PALESTINESI A GAZA

Feriti anche 5 soldati israeliani mentre cercavano di far saltare un tunnel. Raid aereo contro un'altra galleria. A Gaza si ferma la centrale elettrica.

venerdì 1 novembre 2013 09:19

 
AGGIORNAMENTO ORE 15.30

I Comitati di Resistenza Popolare e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) affermano di aver colpito il territorio israeliano con razzi e colpi di mortaio, in risposta all'uccisione la scorsa notte di quattro palestinesi. Il portavoce militare israeliano non conferma.

-------------------------------------------------------------------------------- della redazione
Roma, 1 novembre 2013, Nena News - È di almeno quattro palestinesi morti e cinque militari israeliani feriti il bilancio di una notte di scontri al confine tra la Striscia di Gaza e Israele.

Secondo la ricostruzione fatta dall'agenzia francese Afp, un'esplosione ha ferito i militari israeliani mentre si apprestavano a far saltare una parte di un tunnel a est di Khan Younis costruito da combattenti di Hamas e scoperto nei giorni scorsi.

L'Esercito israeliano, sempre secondo questa ricostruzione, aveva attraversato il confine con diversi carri armati per un'operazione di distruzione del tunnel, lungo circa tre chilometri, che dal villaggio di Abbasan al-Saghira, vicino Khan Younis, arriva a circa tre chilometri dal kibbutz Ein Hashlosha, nel Negev occidentale.

Negli scontri a fuoco che sono esplosi poco dopo le truppe israeliane hanno ucciso quattro uomini delle brigate "Ezzedin al Qassam", il braccio armato di Hamas.

Sarebbe stata impiegata anche l'aviazione nell'area del campo profughi di Khan Younis e voci non confermate hanno riferito che pure le navi israeliane al largo della Striscia avrebbero colpito la costa di Gaza.

L'area degli scontri è la stessa in cui lo scorso 13 ottobre sarebbe stata scoperta una fitta rete di tunnel e quello che i soldati stavano per distruggere sarebbe dovuto servire, secondo la versione israeliana, per condurre "attacchi terroristici e rapimenti".

Ad aggravare la situazione c'e' anche lo stop della principale centrale elettrica di Gaza che stamani ha esaurito le scorte di combustibile. L'erogazione della corrente elettrica nelle abitazioni sara' ulteriormente ridotta: dalle otte ore quotidiane si scendera' a quattro. Gaza riceve da Israele e dall'Egitto una quantita' di corrente elettrica insufficiente a sopperire le necessita' minime del milione e 700 mila palestinesi che vi abita e ha bisogno dell'elettricita' prodotta dalla sua centrale. Nena News




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