Un vignettista palestinese viene arrestato senza ragioni
apparenti: tra accuse sconosciute e divieto di assisterlo per i suoi
avvocati, per lui si profila lo stesso destino dei tanti prigionieri
detenuti nelle carceri israeliane. Questa volta, in solidarietà, si
mobilitano le ‘matite’ che hanno disegnato le rivoluzioni arabe.
di Maria Letizia Perugini
Mohammad Saba'aneh ha 32 anni. È un vignettista palestinese, disegna per il giornale al-Hayat al-Jadida e lavora per il dipartimento di relazioni pubbliche dell’Università Araba Americana (AAU) di Jenin.
Il 16 febbraio scorso stava tornando nel suo paese dopo
quattro giorni passati ad Amman per conto dell’AAU. Il suo viaggio,
però, è finito al check
point del ponte di Allenby dove, fermato dalle autorità israeliane, è
stato arrestato e trasferito al centro di detenzione di Jalameh
(prigione di Kishon, a nord di Tel Aviv).
Da qui inizia il suo calvario.
Dopo l’arresto l’interrogatorio, senza che nessuna accusa fosse stata
formalizzata nei suoi confronti. Negato anche l’incontro con gli
avvocati.
Nei giorni seguenti le notizie che arrivano sono poche e frammentarie, perchè dal 16 febbraio nessuno ha potuto incontrarlo.
Mohammad sarabbe comparso davanti a una Corte già due volte. Il 20
febbraio il suo fermo è stato prolungato di 9 giorni e il 28 febbraio è
stato confermato: dovrà restare in carcere per ulteriori indagini.
Gli ultimi aggiornamenti arrivano dal Committee to Protect Journalists
(CPJ), ma non danno molta speranza né forniscono notizie più chiare:
gli avvocati di Mohammad hanno fatto appello contro il prolungamento
della detenzione e chiedono ancora di poter incontrare il proprio
assistito, che intanto sarebbe stato trasferito nel carcere di
Ashkelon.
Le ragioni dell’arresto restano oscure. Ad avere infastidito le autorità israeliane, probabilmente, le sue vignette.
Profetica quella che ha scelto di intitolare 'Sognando la libertà',
tra le ultime realizzate, in cui è rappresentato un ragazzo che -
dietro le sbarre di una prigione e con una palla al piede - proietta
l’ombra di una colomba con le ali spiegate intrecciando le mani verso un
cono di luce.
Le autorità, per il momento, hanno giustificato l’arresto con la
necessità di condurre indagini su presunti servizi forniti da Mohammad a
“organizzazioni ostili”. Ma non esistono accuse formali.
Un copione che si ripete. Una nuova detenzione
amministrativa, un’altra persona finita in carcere senza accuse e senza
speranza di tornare presto in libertà.
Perché quando si viene arrestati dalle autorità israeliane, il più
delle volte, non è dato sapere il motivo: ‘ragioni di sicurezza’
impongono generalmente la segretezza sui capi d’accusa.
È così che i più elementari diritti umani vengono calpestati: è successo anche ad Arafat Jaradat,
arrestato per aver preso parte ad alcune manifestazioni e sottoposto ad
interrogatorio da parte dei servizi segreti per una settimana nel
carcere di Megiddo.
Solo che lui, in prigione, ha trovato la morte.
Sopraggiunta proprio nelle stesse ore in cui Mohammad vedeva la sua
pena prolungata, in un intreccio che rende i destini dei due giovani
terribilmente simili.
All’indomani del decesso di Arafat, per ragioni ancora da chiarire,
la famiglia di Mohammad ha riversato tutta la sua angoscia in un
comunicato rivolto alla comunità internazionale, per chiedere di non
essere lasciata sola davanti al muro di gomma delle autorità
israeliane.
Chiede pressioni internazionali, perché solo così può sperare
di rivedere Mohammad vivo e in tempi ragionevoli. Solo in questo modo,
forse, sarà possibile evitare l’ennesima vittima di una pratica – quella
della ‘detenzione amministrativa’ - che da Israele non accenna ad
essere abbandonata.
Intanto, mentre si consumava il destino di Mohammad, i prigionieri
palestinesi iniziavano un nuovo sciopero della fame per denunciare la
morte di Jaradat: perché non passasse inosservata, e la loro condizione
di condannati senza accusa a una pena indefinita non venisse ignorata.
Lo scorso anno le proteste contro il regime di detenzione
amministrativa erano state imponenti, e lo sciopero della fame avviato
da alcuni prigionieri politici palestinesi aveva finito per coinvolgere
oltre 2000 detenuti.
Allora la mobilitazione aveva portato ad un accordo, secondo il quale Israele avrebbe accettato di non rinnovare gli ordini di arresto preventivo a meno che l’intelligence non avesse presentato nuove prove significative. Queste promesse, però, sono rimaste lettera morta.
Le detenzioni amministrative sono state riconfermate e continuano ad essere emesse.
Così come sono ancora in corso gli scioperi della fame: pochi giorni fa Human Rights Watch riportava le tragiche condizioni in cui versano Samer Issawi e Ayman Sharawna, in carcere dall’inizio del 2012 e ormai a rischio di sopravvivenza.
Le basi (il)legali della detenzione amministrativa
Il regime di detenzione amministrativa è un retaggio del mandato
britannico, le cui basi giuridiche oggi sono rintracciabili in tre
porzioni della legislazione israeliana, applicabili nelle diverse zone
dei Territori occupati.
Per quanto riguarda la Striscia di Gaza viene applicato un
provvedimento che riguarda l’arresto dei “combattenti illegittimi”,
secondo il quale sono considerati tali tutti coloro “che hanno preso
parte ad attività ostili contro lo Stato di Israele”.
La legge è in vigore dal 2005, data del ritiro degli insediamenti
israeliani da Gaza, per colmare il ‘vuoto’ creato dal decadimento della
legislazione militare valida fino a quel momento.
Per quanto riguarda il territorio israeliano viene invece applicata
la “normativa di emergenza” del 1979, e in particolare il capitolo
relativo agli arresti, da applicarsi solo quando viene dichiarato lo
“stato di emergenza”. Che, però, in Israele è in vigore sin dalla sua
fondazione.
Ad oggi, la maggior parte delle detenzioni amministrative
avviene in Cisgiordania, con l’applicazione degli articoli 284-294
dell’Ordine militare n.1651 riguardante le disposizioni di sicurezza,
parte della legislazione militare a cui sono sottoposti i Territori
occupati.
Lo schema di tutti questi provvedimenti è simile: gli arresti possono
essere effettuati a discrezione delle autorità se ritengono che
sussistano “imperativi motivi di sicurezza”. Tutta la procedura è
fondata su “ragionevoli basi” valutate di volta in volta dal comando
militare, ma tra le condizioni per l’arresto non si parla mai della
necessità di produrre “prove”.
Anzi, la sezione dell’ordine che le prende in esame
sottolinea solo che il giudice può decidere di derogare al sistema che
ne prevede la presentazione se ritiene che questo possa giovare al
procedimento.
A sua discrezione anche la decisione, laddove presenti, di renderle
note all’imputato o ai suoi legali. L’appello riguardo le decisioni del
giudice, inoltre, deve essere presentato davanti a una Corte militare.
La detenzione amministrativa, sulla carta, non potrebbe eccedere i 6
mesi di durata. Ma non esistono limiti reali al rinnovo di questo
periodo, che può essere esteso in modo indefinito. Una pratica che viola
la legislazione internazionale, sia in termini di diritti umani che
umanitari, e da più parti denunciata.
Perché se a livello internazionale ne è prevista l’esistenza,
si tratta comunque di una ‘misura eccezionale’ che dovrebbe essere
applicata seguendo canoni di legalità molto stringenti. E non è questo il caso di Israele.
Secondo l’analisi dell’organizzazione israeliana B’Tselem,
infatti, l’uso che ne viene fatto è estremamente estensivo: una
routine, insomma, capace di produrre centinaia di casi ogni anno.
Dovrebbe inoltre trattarsi di una pratica sussidiaria, da utilizzare
in ultima istanza, e non un’alternativa più veloce e ‘pratica’ al
processo penale, soprattutto nei casi in cui le prove a carico
dell’imputato siano poche o inesistenti. La loro assenza, riscontrata
nella maggioranza dei casi, implica l’impossibilità per i detenuti di
difendersi: non essendoci accuse pubbliche non è possibile costruire una
difesa efficace.
È infine la vaghezza della formula utilizzata di “attentato alla
sicurezza della nazione” a rendere estremamente ampio il campo della sua
applicazione: le manifestazioni settimanali nonviolente che si svolgono
in tutti i Territori il venerdì, ad esempio, vengono fatte rientrare in
questa fattispecie di reato.
La mobilitazione per Mohammad Saba'aneh: matite all’attacco
Le proteste e gli appelli che da mesi le associazioni internazionali
per i diritti umani stanno portando avanti contro la detenzione
amministrativa sono rimasti inascoltati. Ma ad ogni nuovo arresto la
mobilitazione serra le fila.
In queste settimane, a muoversi è la comunità dei fumettisti arabi.
I primi a dare notizia dell’arresto di Saba'aneh sono stati i vignettisti del blog Cartoonmovement
con il quale Mohammad collabora, che stanno seguendo l’evolvere della
situazione, pubblicando quotidianamente vignette che denunciano la
vicenda.
Ma anche a livello internazionale l’appoggio arriva da più parti.
Da qualche giorno si è mobilitato il collettivo di disegnatori tunisini Yakayaka, che sta postando disegni dedicati alla storia di Mohammad, e che ha aderito alla campagna
del Consiglio internazionale per i Diritti umani, che invita a inviare
un appello direttamente alle autorità israeliane e ai responsabili delle
Nazioni Unite per i diritti dell’uomo affinché prendano immediati
provvedimenti per la liberazione del giovane.
E poi ci sono le ong che si occupano di libertà di stampa: Reporters Sans Frontières
e il CPJ stanno seguendo la vicenda fin dall’inizio, perchè il ruolo
dei fumettisti come attori dell’informazione si è imposto con decisione
nel corso di questi mesi.
La potenza delle immagini che realizzano e la loro ironia
dissacratoria hanno raccontato e informato sui mesi caldi delle rivolte
arabe.
Ed è probabilmente la forza di queste denunce ad aver portato Mohammad in carcere.
(Tutte le vignette pubblicate sono di Mohammad Saba'aneh.
Si ringrazia il collettivo Cartoonmovement per averle messe a
disposizione di Osservatorio Iraq).
4 marzo 2013
Fonte:
http://www.osservatorioiraq.it/palestina-la-matita-%E2%80%98pericolosa%E2%80%99-di-mohammad-sabaaneh