Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


domenica 30 dicembre 2012

IKEA COMPLICE DELL'APARTHEID DI ISRAELE CONTRO I PALESTINESI

Dopo i lavoratori di Piacenza si apre un nuovo fronte per l'Ikea: i palestinesi e le organizzazioni impegnate nella costruzione della solidarietà con questo popolo accusano l'azienda di essere complice dell'apartheid israeliana.


Non è un bel periodo per l'immagine internazionale dell'IKEA. Dapprima si sono messi quei cocciuti lavoratori addetti alla movimentazione delle merci presso il deposito di Piacenza. Rivendicavano il rispetto del CCNL, dei diritti basilari dei lavoratori, come quello all'organizzazione sindacale e alla distribuzione equa dei carichi di lavoro e ancor oggi, a due mesi dall'inizio delle proteste e nel bel mezzo delle festività natalizie, non hanno smesso di lottare (qui una raccolta di materiali per essere aggiornati sulla vicenda).
Come se non bastasse si sono aggiunti in tanti alle proteste, organizzando presidi e volantinaggi dinanzi a tanti IKEA store in tutt'Italia e costringendo l'azienda a bloccare i commenti sui social network per alcuni utenti e a chiudere una pagina internet; in entrambi i casi perché migliaia di persone solidali con la lotta dei lavoratori di Piacenza avevano riempito quegli spazi virtuali con commenti tutt'altro che lusinghieri per il colosso del mobile. Un duro colpo per il profilo di un'impresa che si ammanta di un'immagine pubblica sempre corredata di termini come 'democrazia', 'diritti', 'sviluppo', 'progresso', 'rispetto per le persone e l'ambiente'.
Al peggio non c'è mai fine, direbbe qualcuno. E, infatti, il mese di dicembre vede aprirsi un altro fronte per l'IKEA. Dopo i lavoratori di Piacenza, arrivano addirittura i palestinesi e le organizzazioni impegnate nella costruzione della solidarietà con questo popolo: accusano l'azienda di essere complice dell'apartheid israeliana.
Il 3 dicembre Adri Nieuwhof, attivista per i diritti umani e collaboratrice di 'The Electronic Intifada' chiede a Iyad Misk, un palestinese che vive in Cisgiordania e che parla ebraico, di contattare la filiale israeliana dell'IKEA per chiedere informazioni in merito ad una consegna a Beit Sahour, villaggio palestinese nei pressi di Betlemme. La società di spedizioni che lavora per l'IKEA, la Moviley Dror, sostiene che una tale consegna non sia possibile, perché entrare nell'area amministrata dall'Autorità Palestinese è pericoloso. Al massimo la consegna può essere effettuata ad un checkpoint vicino Betlemme. Beit Sahour è nell'Area C che, secondo gli accordi di Oslo, è quella sotto totale controllo militare israeliano, così come il 60% della Cisgiordania.
Adri però non si ferma qui. Chiede ad un'organizzazione israeliana, 'Who Profits' (un progetto di ricerca messo in piedi dalla Coalizione delle Donne per la Pace, con sede a Tel Aviv), di effettuare la stessa operazione tentata da Misk: contattare l'IKEA per avere informazioni sulle possibilità di consegna. Ma stavolta la merce non dovrebbe giungere in un villaggio palestinese, bensì in una colonia israeliana, Beitar Ilit che, come Beit Sahour, si trova nell'Area C. Per giungere bisogna attraversare diversi check point. Anche in questo caso la chiamata è trasferita alla Moviley Dror, la società addetta alla consegna. Solo che stavolta la risposta è diversa: è possibile far recapitare merci IKEA in una colonia israeliana.
L'IKEA attraversa quindi i check point per consegnare i propri prodotti ai coloni israeliani (è bene sottolineare che le colonie in Cisgiordania sono considerate illegali in base al diritto internazionale), ma non per arrivare in un villaggio palestinese (ancora legali, fino a prova contraria).
Jeff Handmaker, insegnante di diritto, diritti umani e sviluppo presso l'International Institute of Social Studies of Erasmus University, a Rotterdam (Olanda), ha sostenuto che “la nuova informazione che è emersa conferma che IKEA e la società che ha l'appalto per le spedizioni sono complici delle violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani supportando in maniera attiva le politiche di trasferimento di israeliani verso le colonie illegali e rinforzando la chiusura delle aree palestinesi”, aggiungendo poi che “IKEA è complice dell'apartheid di Israele mettendo in atto una discriminazione palese a favore dei coloni ebrei della Cisgiordania ed ignorando l'oppressione cui è soggetta la maggioranza della popolazione palestinese che è impossibilitata a recarsi addirittura presso uno store IKEA, lasciando loro aperta solo la porta della consegna di prodotti.”
Il colosso non ha tardato troppo a rispondere. Con una lettera del 10 dicembre (e che riproduciamo integralmente di seguito, nella sua versione originale, in inglese) ha cercato di spiegare le proprie ragioni, sostenendo che “dal 2010 la compagnia di trasporto locale che coopera con IKEA Israele è stata in grado di consegnare i prodotti IKEA presso le abitazioni delle persone che vivono nelle aree controllate dall'Autorità Palestinese. Se si sono verificati episodi in cui il servizio di consegna non ha funzionato a dovere è un fatto increscioso e qualcosa su cui indagheremo.”
Jeff Handmaker, sollecitato da Adri Nieuwhof, ha commentato questa risposta. Il 20 dicembre ha scritto testualmente che IKEA “prende in considerazione solo metà del problema, cioè il loro trattamento differente dei coloni che vivono negli insediamenti illegali e dei palestinesi che vivono sotto occupazione.
Ma anche questa parte non è convincente. Anche se la filiale IKEA dovesse risolvere la questione della consegna ai palestinesi, molti di loro non sarebbero comunque in grado di visitare i loro negozi, a causa dei controlli israeliani dei movimenti verso e da i territori occupai. Quindi sono esclusi in ogni caso.
Ma IKEA Systems B.V. non risponde al problema principale, vale a dire l'aperta complicità della loro filiale con una grave violazione dei diritti umani, che si concretizza nel supporto all'impresa coloniale.
Fino a quano la filiale IKEA non si rifiuterà di vendere […] ai coloni che vivono nei territori occupati palestinesi, IKEA Systems B.V. sarà ancora complice delle violazioni del diritto internazionale.
Si annunciano quindi tempi duri per l'IKEA, con le pressioni in tutto il globo che aumentano e con la possibilità sempre più concreta che riescano ad incidere sulla capacità dell'azienda di macinare profitti.
Per saperne di più: Electronic Intifada 1, 2
 


Tratto da

DA RADIO BLACKOUT: UNA CORRISPONDENZA DA GAZA OGGI E... QUATTRO ANNI FA

Da http://radioblackout.org:



dicembre 30, 2012 in Hot News, L'informazione di Blackout

 
Una delegazione di 100 attivisti internazionali (missione denominata Benvenuti in Palestina 4) si trova da due giorni nella Striscia di Gaza per incontrare associazioni ed esponenti della società civile, in particolare della sinistra palestinese.


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Ai nostri microfoni uno dei 10 attivisti italiani, Germano Monti del Forum Palestina, in diretta descrive le attività della sinistra palestinese a Gaza, il rapporto di confronto-scontro con Hamas, e la situazione della Striscia dopo l’operazione Colonna di Fumo che a novembre ha mietuto quasi 200 vittime, con un embargo che per quanto allentato è tutt’altro che finito e condiziona fortemente la vita dei pescatori, degli agricoltori e di tutta la popolazione.
I compagni dovrebbero rientrare in Egitto il 1 gennaio e di qui in Europa.

Ascolta/scarica l’audio:



Il 30 dicembre di quattro anni fa, nei primi giorni del massacro di Piombo Fuso, una corrispondenza di Vittorio Arrigoni per Radio Onda d’Urto:


venerdì 28 dicembre 2012

Qatar. Carcere a vita per al-Ajami, il poeta delle rivolte arabe

"La rivolta è iniziata con il sangue del popolo, ribelle, e ha dipinto la liberazione sui volti di ogni essere vivo", mentre "i governi arabi, e chi li guida, sono tutti, ugualmente, ladri". Ecco la traduzione del testo del 'poeta della rivoluzione'. 


di Anna Toro

Condannato all’ergastolo per “aver insultato il regime, offeso l'emiro al-Thani, e attaccato la Costituzione”, al-Ajami è l'autore della poesia Tunisian Jasmine, che qui potete leggere nella sua traduzione integrale.
Oggi, attivisti e intellettuali si mobilitano per salvarlo.
La sentenza, per il poeta qatariota Muhammad Ibn al-Dheeb al-Ajami, è arrivata a fine novembre, dopo un processo a porte chiuse rinviato per ben 5 volte.
Per mesi il poeta è stato sottoposto a un regime di isolamento assoluto, senza nessun contatto con famigliari e amici.
Visto che anche tutte le udienze si sono svolte in segreto, la causa ufficiale dell'arresto, avvenuto il 16 novembre di un anno fa, è ancora poco chiara.

In una copia della sentenza che Amnesty International è riuscita a procurarsi, non si fa infatti alcuna menzione dell'accusa, ma secondo gli attivisti per i diritti umani il tutto risalirebbe alla poesia, “Tunisian Jasmine”, scritta dal al-Ajami a sostegno delle rivolte arabe del 2011.

Ecco la traduzione della poesia:*
Oh signor primo ministro, oh Mohammad al-Ghannoushi
se guardiamo al tuo potere, esso non deriva dalla Costituzione.
Non piangiamo Ben Ali, nè piangiamo la sua epoca, che rappresenta solo un piccolo punto nella linea della storia.
La dittatura è un sistema repressivo e tirannico la Tunisia ha annunciato la sua rivolta popolare.
Se critichiamo, critichiamo solo ciò che è meschino e infimo
se cantiamo lodi, lo facciamo in prima persona.
La rivolta è iniziata con il sangue del popolo, ribelle, e ha dipinto la liberazione sui volti di ogni essere vivo.
Sappiamo che faranno ciò che vogliono e sappiamo che tutte le vittorie portano con sé eventi tragici,
ma povero quel paese che fa dell'ignoranza il suo governante e crede nella forza delle forze americane
e povero quel paese che affama il suo popolo mentre il governo gioisce dei successi economici e povero quel paese i cui cittadini si addormentano con la cittadinanza e si svegliano senza e povero quel sistema che eredita repressione.
Fino a quando sarete schiavi di tanto egoismo?
Quando il popolo prenderà coscienza del suo vero valore?
Quel valore che gli viene nascosto e che presto dimentica?
Perché i governi non scelgono mai il modo per porre fine al sistema del potere tirannico che sa della sua malattia e insieme avvelena il suo popolo che sa che domani sulla sua sedia si siederà il suo successore
Non tiene in conto che la patria porta il nome suo, e della sua famiglia, quella stessa patria che conserva la sua gloria nelle glorie del popolo, quel popolo che risponde con una voce sola ad un solo destino: siamo tutti tunisini davanti all'oppressore!
I governi arabi, e chi li guida, tutti, ugualmente, ladri.
Quella domanda che toglie il sonno a chi se la pone, non troverà risposta in chi incarna l'ufficiale.
Se possiamo importare ogni cosa dall'Occidente, perchè non importiamo anche i diritti e la libertà?


“Un potente appello perché si metta fine a delle condizioni intollerabili, una richiesta che negli ultimi due anni è stata espressa da milioni di persone in tutto il Nord Africa e il mondo arabo”, scrivono gli autori della petizione che chiede la liberazione del poeta, già firmata da numerosi intellettuali e artisti di tutto il mondo.
Amnesty International non ha mancato di denunciare le irregolarità durante il processo: come il fatto che gli osservatori, ma spesso perfino il suo avvocato, non siano stati autorizzati a entrare nella sala di udienza, e che al-Ajami era assente alla pronuncia del verdetto.
Per l'organizzazione per i diritti umani, la condanna all’ergastolo nei confronti del poeta qatariota “è manifestamente una violazione scandalosa della libertà di espressione”.
“E' deplorevole – continua il direttore per il Medio Oriente e Nord Africa, Phillip Luther – che il Qatar, che ama dipingersi agli occhi di tutto il mondo come un Paese promotore della libertà di espressione, vada avanti in ciò che appare come un flagrante abuso di questo diritto”.
Intanto l'avvocato del poeta, Nagib al-Naimi, ha già annunciato il ricorso in appello.

*traduzione dall'arabo a cura di Marta Ghezzi

Sotto, il video della poesia recitata in arabo.


28 dicembre 2012






Fonte:

Fratelli Cervi


Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia, tutti Medaglia d'Argento al Valor Militare alla memoria.
I fratelli Cervi (il maggiore aveva 42 anni, il più giovane 22) e il patriota Quarto Camurri, con loro ristretto prima nel carcere dei Servi e poi in quello di San Tomaso, avrebbero forse potuto salvarsi. Dopo la cattura i Cervi (il padre Alcide, già in età avanzata, dopo la sparatoria e la resa, decisa per non coinvolgere le donne e i bambini, era stato separato dai figli) erano stati a lungo interrogati e seviziati, ma i fascisti non ne avevano cavato nulla. Ad un certo punto - si racconta - giunsero a dirgli: "Volete il perdono? Mettetevi nella Guardia Repubblicana". Risposero: "Crederemmo di sporcarci". Nemmeno i quattro dei Cervi che erano ammogliati ed avevano figli, compreso Gelindo che ne aveva un altro in arrivo, cedettero alle lusinghe. Allora li presero e li portarono tutti al poligono di tiro.

Non si sa quanto abbia pesato, nella decisione di non cedere, l'influenza che Aldo, il più "politicizzato" dei Cervi, esercitava da anni sui fratelli e sui contadini della zona, ai quali aveva insegnato nuovi sistemi d'irrigazione. Aldo - scrisse Piero Calamandrei - non perdeva occasione per educare se stesso e gli altri. "Quando dopo molti anni di accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté permettersi il lusso di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio: e sulla strada che porta a Campegine i vicini lo videro tornare trionfante, al volante della macchina nuova, sulla quale aveva issato, come una bandiera internazionale, un gran mappamondo". Oggi la loro casa di Campegine è stata trasformata in un museo.

 

28.12.1908: l’alba tragica di Reggio e Messina

28 dic 2012

Di


“Stamane alle ore 05.21 negli strumenti dell’osservatorio è incominciata un’impressionante, straordinaria registrazione: le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri, misurando oltre 40 cm. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave”.
Iniziava così l’annotazione dell’osservatorio Ximeniano di Firenze la notte del 28.12.1908, alba tragica di Reggio Calabria e Messina.
Un terremoto disastroso del settimo grado Mercalli. Solo 37 intensi secondi di morte, seguiti da uno tsunami  di gigantesche dimensioni  che inghiottì case, vie, macchine.
Reggio, contava nel 1908 45.000 abitanti; ne perirono 15.000, un terzo della città. Messina, in pari data ne contava 140.000; ne perirono 80.000, cifra spaventosa.
Queste due città erano già sopravvissute ad una tragedia simile, quando un precedente sisma del 1783 le aveva rase al suolo provocando vittime e danni incalcolabili.
Reggio Calabria  e Messina, Calabria e Sicilia, terre entrambe scrigno della Magna Grecia. Dalle culle di antiche civiltà alle leggende di  Scilla e Cariddi, al procrastinare di sviluppi letterari nel panorama nazionale come il Verismo, il cui padre siculo, Verga, individuò nel calabro Corrado Alvaro, il suo  erede  naturale. Reggio e Messina significa anche le uniche città al mondo di due regioni diverse che si osservano 24 ore su 24, così come significa il fenomeno scientifico che si realizza solo in riva allo Stretto: il fenomeno “della Fata Morgana” (aspetti di vita quotidiana che si sviluppano in una delle due città, riflesse sulla riva dell’altra sponda per via di un gradiente termico e condotto atmosferico).
Due sponde divise dalla natura in epoca quaternaria, quando il disgelo successivo all’era glaciale frantumò l’Eurasia (difatti la radice greca di Ρήγιoν è in latino Rhegion, antico nome di Reggio, ossia luogo di divisione, di frattura)  e da un antico antagonismo calcistico successivamente,  ma unite da una conurbazione giornaliera fatta di scambi umani, culturali, gioie e dolori. Quella notte del Dicembre del 1908, in soli tre km di distanza si confondevano le urla di dolore e di disperazione di chi aveva perso tutto, due città, due macerie.
Nell’antica Zancle (Messina), si rase al suolo il Teatro ‘Marittimo’, il Palazzo Municipale, il monumento di S. Gregorio, il Duomo. La chiesa dei Catalani rimase miracolosamente intatta ed alla data odierna è visibilmente collocata in un livello più basso rispetto alla nuova conformazione urbanistica della città costruita nel post-terremoto (il turista se ne avvede a vista d’occhio).
A Reggio lo tsunami inghiottì il lungomare facendone un immenso detrito, l’onda d’urto abbatté la costruzione bizantina della Cattolica dei Greci, le fontane monumentali, il palazzo barocco di Genoese-Zerbi, soppiantando opere d’arte varie, di estrazione greco-normanna, sparse in cenacoli culturali.
In entrambe le città i feriti furono divisi in ospedali, caserma, luoghi di improvvisata dimora, mentre i soccorsi sopraggiungevano prevalentemente dal mare. Queste unità marine erano costituite da navi della marina militare italiana, navi inglesi, spagnole, tedesche, greche, francesi a cui le due città ancora oggi dedicano vie ed impianti sanitari, segno di una riconoscenza eterna (l’Ospedale Piemonte di Messina riporta il nome di un imbarcazione sabauda che portò aiuti dai piemontesi mentre la via Curzon in Calabria ricorda il politico britannico che si prodigò per i territori colpiti dal disastro ambientale).
Le due città, denominate ‘gemelle’, hanno avuto la forza di rialzarsi, costruire dalle macerie il loro destino, rimodellare con la propria dignità il futuro di generazioni protese a fare crescere le due realtà. Ad oggi entrambe, seppur moderne ed europee nello stile, conservano ben poco di quello che fu l’alba tragica del Dicembre 1908, se non nelle foto d’epoca ed in qualche rudere fatto rimanere volutamente intatto nel tempo, risparmiato dal progresso a futura memoria.
Dal punto di vista scientifico, gli studiosi hanno da sempre stabilito che lo Stretto di Messina sarà sempre una zona sismica, per  via di una faglia sotterranea costituita da fratture della crosta terrestre, che dallo Stretto conduce addirittura alla placca americana che si interseca alla Transverse Range, un segmento tellurico geologico che conduce altresì allo strato tettonico panafricano. Non è un bell’auspicio se consideriamo che il risveglio del vulcano Marsili, vulcano sottomarino altro 3000 metri a circa 150 km da Calabria e Sicilia, potrebbe provocare tragedie umane di portate incommensurabili.
Un’altra curiosità scientifica stabilisce che il dna dell’abitante dello Stretto è stato, nel corso dei secoli, modificato dal ‘Radon’, che inciderebbe in forma naturale la sua circolazione all’interno dell’organismo degli abitanti dei territori interessati, aumentando la globularità in vista dei terremoti. Un concetto scientifico che richiama la definizione di sismogeneticità, accertato nei territori americani ‘solcati’ dalla faglia di S. Andrea.
Ma la storia del terremoto del 1908 sullo Stretto non è solo una storia fatta di cumuli di dolore e macerie accatastate dalla natura, è una storia di passione e sollevazione dai ruderi di una civiltà sepolta.
Lo scrivente ha più volte interrotto la stesura di questo articolo, per personale coinvolgimento emotivo,  al pensiero che la generazione del 1908 è stata la generazione di mio nonno, reggino, sopravvissuto,  il cui pacchetto genetico si è ricondotto in quello di mio figlio, nato in terra di Trinacria.
E’ la storia di una generazione che, crescendo all’alba di un nuovo millennio che iniziava tragicamente,  in due sponde opposte percepiva di condividere i medesimi principi morali ispiratori ed i medesimi fondamenti ultimi umani: il senso della ripartenza, della ricostruzione dell’esistenza mattone su mattone.
E’ storia che diventa poetica immortale quando, qualche anno dopo il disastro, nel 1914, Giovanni Pascoli, scendendo in riva alle coste reggine, rimaneva visibilmente scosso davanti a quella porzione di terra abitata dai figli dei padri greci, in cui l’umiltà del dolore silenzioso della ricostruzione si mescolava con la storia decapitata. Pascoli, partoriva un’ode di intima e profonda commozione che recitava: “Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte.  Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.” . Da qualche anno sul lungomare di Reggio Calabria è presente una stele in marmo riportante tale poetica, come forma di ringraziamento del popolo reggino a Pascoli, testamento morale di quanto drammaticamente avvenuto nel 1908.
Ma se a Reggio è lo spiritualismo poetico a consegnare la storia alle gioventù future, a Messina è lo spiritualismo mistico a fornire emozioni trascendentali e storie immortali. Chiunque giunge nella città siciliana scorge inevitabilmente al porto la statua di una Madonna gigantesca, con una scritta dall’idioma latino e di inequivocabile interpretazione: “Vos et ipsam civitatem benedicimus”.
E’ la Madonna del mare, comunemente conosciuta dai messinesi  come la Madonna della Lettera, perché emissaria di un’epistola sacra perché scritta di pugno dal Sommo Padre, un invito del Creatore a non cadere nelle tenebre dell’angoscia.
Un messaggio che certifica, dunque, la benedizione di Dio al popolo messinese, una rassicurazione solida di protezione dogmatica ad un popolo che nel 1908 fu colpito dal demone della disperazione in pieno sonno.
Da una parte all’altra dello Stretto, poesia e fede si fondono nel destino e nel cammino di questi due popoli, penetrando violentemente nell’ossatura degli uomini, incidendo nella cartilagine della loro anima.
Quella del terremoto del 1908, è storia umana di popoli che diventa antropologia che si tramuta, per proprietà transitiva, in filosofia esistenzialista sul condotto delle novelle veriste dell’uomo, sul ‘ciclo dei vinti’, dove la provvidenza si pone in rapporto conflittuale fra l’uomo e la natura in una strutturazione filologica.
La provvidenza diviene dunque assetto centrale, concettualizzazione verghiana della vita che si discosta da quella manzoniana, che la pone come soccorso teosofico alle esigenze umane.


Fonte:


http://www.caffenews.it/mezzogiorno-sud/44283/28-12-1908-lalba-tragica-di-reggio-e-messina/

Gaza, 28 dicembre 2008

28/12/2008

Di Vittorio Arrigoni

Il mio articolo su Il Manifesto di oggi:

 

Il mio appartamento di Gaza dà sul mare, una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale, spesso affranto da tanta miseria a cui è costretta una vita sotto l’assedio.
Prima di stamane. Quando dalla mia finestra si è affacciato l’inferno.
Ci siamo svegliati sotto le bombe stamane a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia.
E amici miei, ci sono rimasti sotto.
Siamo a 210 morti accertati finora, ma il bilancio è destinato drammaticamente a crescere. Una strage senza precedenti. Hanno spianato il porto, dinnanzi a casa mia, e raso al suolo le centrali di polizia.
Mi riferiscono che i media occidentali hanno digerito e ripetono a memoria i comunicati diramati dai militari israeliani secondo i quali gli attacchi avrebbero colpito chirurgicamente solo le basi terroristiche di Hamas.
In realtà visitando l’ospedale di Al Shifa, il principale della città, abbiamo visto nel caos d’inferno di corpi stesi sul cortile, alcuni in attesa di cure, la maggior parte di degna sepoltura, decine di civili.
Avete presente Gaza?
Ogni casa è arroccata sull’altra, ogni edificio è posato sull’altro, Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che compi una strage di civili. Ne sei coscente, e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali.
Bombardando la centrale di polizia di Al Abbas, nel centro,
è rimasta seriamente coinvolta nelle esplosioni la scuola elementare lì a fianco.
Era la fine delle lezioni, i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue.
Bombardando la scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel mercato lì vicino, il mercato centrale di Gaza. Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l’asfalto. Una Guernica trasfigurata nella realtà.
Ho visto molti cadaveri in divisa nei vari ospedali che ho visitato, molti di quei ragazzi li conoscevo. Li salutavo tutti i giorni quando li incontravo sulla strada recandomi al porto, o la sera camminando verso i caffè del centro.
Diversi li conoscevo per nome. Un nome, una storia, una famiglia mutilata.
La maggior parte erano giovani, sui diciotto vent’anni, per lo più non politicamente schierati nè con Fatah nè con Hamas, ma che semplicemente si erano arruolati nella polizia, finita l’università, per aver assicurato un posto di lavoro in una Gaza che, sotto il criminale assedio israeliano, vede più del 60% della popolazione disoccupata.
Mi disinteresso della propaganda, lascio parlare i miei occhi, le mie orecchie tese dallo stridulo delle sirene e dai boati del tritolo.
Non ho visto terroristi fra le vittime di quest’oggi, ma solo civili, e poliziotti.
Esattamente come i nostri poliziotti di quartiere, i poliziotti palestinesi massacrati dai bombardamenti israeliani se ne stavano tutti i giorni dell’anno a presidiare la stessa piazza, lo stesso incrocio, la stessa strada.
Solo ieri notte li prendevo in giro per come erano imbacuccati per ripararsi dal freddo, dinnanzi a casa mia.
Vorrei che almeno la verità donasse giustizia a queste morti.
Non hanno mai sparato un colpo verso Israele, nè mai lo avrebbero fatto, non è nella loro mansione. Si occupavano di dirigere il traffico, e della sicurezza interna,  tanto più che al porto siamo ben distanti dai confini israeliani.
Ho una videocamera con me, ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman,
non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime.
Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io.
All’ospedale AL Shifa con gli altri internazionali dell’ISM ci siamo recati a donare il sangue. E lì abbiamo ricevuto la telefonata: Sara, una nostra cara amica è rimasta uccisa da un frammento di esplosivo mentre si trovava vicino alla sua abitazione nel campo profughi di Jabalia. Una persona dolce, un’anima solare, era uscita per comprare il pane per la sua famiglia. Lascia 13 figli.
Poco fa invece mi ha chiamato da Cipro Tofiq.
Tofiq è uno dei fortunati studenti palestinesi che grazie alle nostre barche del Free Gaza Movement è riuscito a lasciare l’immensa prigionia di Gaza e ricominciare altrove una vita nuova. Mi ha chiesto se ero andato a trovare suo zio e se l’avevo salutato da parte sua, come gli avevo promesso.Titubante mi sono scusato perchè non avevo ancora trovato il tempo.
Troppo tardi, è rimasto sotto le macerie del porto insieme a tanti altri.
Da Israele giunge la terribile minaccia che questo è solo il primo giorno di una campagna di bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane.
Faranno il deserto,
e lo chiameranno pace.
Il silenzio del “mondo civile” è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte.

Vik in Gaza



Fonte:

http://vittorioarrigoni.wordpress.com/piombo-fuso/guernica-gazawi/

giovedì 27 dicembre 2012

Licodia Eubea, una piazza per Stefania Noce

Fiaccolata nel paese della ragazza uccisa un anno fa dal suo ex fidanzato, insieme al nonno. Iniziative anche a Catania, dove le verrà intitolata un'aula universitaria 


Stefania Noce 
Stefania Noce
 
CATANIA - Da oggi in poi, sarà «Piazza Stefania Noce»: Licodia Eubea vuole ricordare così il triste destino della ragazza uccisa un anno fa dal suo ex fidanzato, e diventata simbolo della lotta contro il femminicidio anche per il suo attivismo da femminista. Oggi, ad un anno esatto da quella tragedia, il suo paese le rende un omaggio ufficiale: nel pomeriggio una fiaccolata e poi l'intitolazione della piazza.
I MOMENTI DELLA CERIMONIA - La cerimonia si chiama «Stefania vive con noi»: alle 18 il corteo parte proprio da via Cairoli, dove vennero uccisi la ragazza e suo nonno Paolo Miano. Poi arriva in Municipio, dove il sindaco Giovanni Verga legge la convenzione nazionale contro la violenza maschile sulle donne «No More» e infine termina davanti alla Badia, nel cuore del centro storico. La nuova piazza non porta solo il nome di Stefania, ma è un esempio tangibile di attivismo e associazionismo: è stata realizzata, infatti, grazie a sponsor privati ed ai ragazzi dell'associazione Sen, dedicata proprio alla giovane.
NON SOLO LICODIA EUBEA - Anche Catania vuole ricordare il coraggio e la determinazione della ragazza: in piazza Università il comitato Senonoraquando di Catania ha promosso una performance artistica (guarda il video). Le organizzatrici dicono che si tratta di «un'azione partecipativa, una frase ripetuta come un mantra accompagnerà semplici movimenti ripetitivi. Come donne, come femministe, come cittadine vogliamo creare un momento di grande mobilitazione civile anche a Catania per scardinare il silenzio che circonda ogni omicidio. Grazie alla collaborazione e all'inventiva dell'associazione Adif, vogliamo scuotere la città. Facciamo appello alla società civile, ai singoli e alle associazioni affinché il 27 dicembre diventi per la nostre città un vero momento di denuncia e di commemorazione delle vittime di Femminicidio». Catania aspetta anche l'intitolazione ufficiale di un'aula universitaria nella facoltà di Lettere: è stata richiesta a gran voce da molti studenti, dal Movimento Studentesco e dagli stessi genitori.

 

QUATTRO ANNI FA PIOMBO FUSO, ARRIVA A GAZA "BENVENUTI I N PALESTINA"

In questo giorno quattro anni fa i cacciabombardieri israeliani si alzarono in volo e colpirono a varie ondate la Striscia di Gaza. Oltre 200 morti in un solo giorno.


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giovedì 27 dicembre 2012 10:11


Gaza, 27 dicembre 2012, Nena News - Nel quarto anniversario dell'inizio dell'offensiva israeliana «Piombo Fuso» (che durò dal 27 dicembre 2008 fino al 21 gennaio 2009), una delegazione della Freedom Flotilla Italia è arrivata al Cairo da dove raggiungerà, forse già oggi Gaza, nell'ambito della quarta missione internazionale «Benvenuti in Palestina», che comprende anche rappresentanze di molti paesi, tra queste delegazioni francesi, belghe, irlandesi, statunitensi ed una rappresentanza egiziana.

L'obiettivo è quello di testimoniare la solidarietà degli italiani alla popolazione di Gaza.

La delegazione - che include anche l'italiano di origine ebraica Marco Ramazzotti Stocken, già a bordo dell'imbarcazione a vela «Estelle» fermata lo scorso ottobre dalla Marina militare israeliana mentre navigava verso Gaza - ha in programma incontri all'ospedale «Al Awda» di Jabalia e con varie strutture che fanno capo all'ong progressista «Union of Work Health Committees» (che opera sia a Gaza che in Cisgiordania sui terreni dell'intervento sanitario, sociale e culturale), con il «Palestinian Center for Human Rights», con l'associazione «Ghassan Kanafani» e con le associazioni dei pescatori e dei contadini, oltre che con esponenti della sinistra politica palestinese.

Il rientro al Cairo è previsto il 2 gennaio. Nena News
 
Fonte:

mercoledì 26 dicembre 2012

26 dicembre 2004: la tragedia dello tsunami

Onda di tsunami Onda di tsunami

Roma, 26-12-2012

Esattamente otto anni fa, il 26 dicembre 2004, si verificò uno dei più catastrofici disastri naturali dell'epoca moderna: un violento terremoto seguito da uno tsunami al largo dell'Oceano indiano. Indonesia, Sri Lanka, India, Thailandia, Maldive, finiscono travolti da una gigantesca onda. Le coste di tutto il sud est asiatico vengono sommerse. Interi villagi spazzati via: alla fine il bilancio sarà tragico: 230mila morti.
L'evento inizia alle ore 00:58:53  del 26 dicembre 2004 quando un violentissimo terremoto - con una magnitudo momento di 9,3 colpisce l'Oceano Indiano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra (Indonesia).
Tale terremoto è risultato il terzo più violento degli ultimi quarant'anni, cioè dal sisma che colpì Valdivia in Cile il 22 maggio del 1960, e quello colpi l'Alaska nel 1964. Centinaia di migliaia le vittime, sia direttamente sia attraverso il conseguente maremoto manifestatosi attraverso una serie di onde anomale alte fino a quindici metri che hanno colpito sotto forma di giganteschi tsunami vaste zone costiere dell'area asiatica tra i quindici minuti e le dieci ore successive al sisma.
Gli tsunami hanno colpito e devastato parti delle regioni costiere dell'Indonesia, dello Sri Lanka, dell'India, della Thailandia, della Birmania, del Bangladesh, delle Maldive giungendo a colpire le coste della Somalia e del Kenya (ad oltre 4.500 km dall'epicentro del sisma).


Fonte:

http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=173061

lunedì 24 dicembre 2012

Sardegna. Natale in miniera

Scritto da DirittiDistorti   
Lunedì 24 Dicembre 2012 11:44 






La resistenza dei lavoratori sardi del Sulcis per difendere il posto di lavoro e quindi la possibilità di un futuro, questa volta si sposta nel buio della miniera della galleria Villamarina di Monteponi.

Non è più l’Asinara, l’isola dei cassintegrati, ma lo spazio stretto e buio dove un gruppo di lavoratori della Rockwool hanno scelto di passare il loro Natale di protesta.

Sono lì dal 12 novembre per chiedere che la Regione dia risposte e occupazione: chiedono il rispetto dell'accordo siglato un anno fa, l'inquadramento nell'organismo Carbosulcis, a tempo indeterminato, e non quanto proposto venerdì scorso dalla Giunta, con la stabilizzazione a tempi determinato nell'Ati-Infras che si occuperà delle bonifiche nelle aree minerarie dismesse.
Si chiedono certezze e non continui rinvii, come quelli che hanno accompagnato la vicenda della Eurallumina, arrivata al quarto anno di fermata produttiva.
Per far capire meglio le loro intenzioni i lavoratori si sono murati nella miniera abbandonata.

Al di là del muro i lavoratori non sono soli, un gruppo di ragazzi che si sono definiti “Figli della crisi” hanno allestito una tenda davanti al palazzo del Consiglio regionale.
Sono studenti, giovani del Sulcis, figli, nipoti, parenti di chi in questi anni ha cercato di salvare il posto di lavoro con manifestazioni di piazza, occupazioni, lunghe trasferte per protestare davanti ai palazzi romani.
"Sarà un Natale diverso all'insegna della protesta", spiegano i Figli della crisi che rivendicano "il diritto a essere riconosciuti come parte sociale, a essere informati e interpellati riguardo alle politiche che sono portate avanti in un periodo così difficile per le nostre famiglie".
I giovani rivendicano anche "il diritto all'istruzione e al lavoro e a poter vivere nella propria terra senza dover andare via alla ricerca di una fortuna che sembra solo un'illusione".

Sotto una tenda bianca, illuminata come una capanna natalizia, i ragazzi si alterneranno in presidio fino al 2 gennaio.
Una capanna per un presepe diverso, vivente, laico, o sacro se sacro è il lavoro.

A.V.

domenica 23 dicembre 2012

LA STRAGE DEL RAPIDO 904


Domenica 23 Dicembre 2012 07:21
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Il 23 Dicembre 1984 viene ricordato per la "Strage del rapido 904", anche detta "Strage di Natale".
Il rapido 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano, quel giorno era pieno di viaggiatori, dal momento che era il periodo pre-natalizio.
Il treno non giunse mai a destinazione: nella galleria di S. Benedetto Val di Sambro venne colpito da un attentato dinamitardo.
Verso le 19 di sera ci fu una violentissima esplosione. L'ordigno, collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella, era stato posto su una griglia portabagagli, pressapoco al centro del convoglio. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata.
Al contrario del caso dell'Italicus, però, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, in modo da massimizzare l'effetto della detonazione.
L'esplosione causò 15 morti e 267 feriti. I soccorsi però arrivarono con difficoltà, dato che l'esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata. Inoltre il fumo bloccava l'accesso dall'ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi. Ci volle più di un'ora e mezza perchè i primi aiuti riuscissero a raggiungere il luogo dell'esplosione. Nel conto finale delle vittime, i morti furono 17.
Tutto fu predisposto per provocare il maggior numero possibile di vittime: l’occasione del Natale, la potenza dell’esplosivo, il “timer” regolato per fare esplodere la bomba sotto la galleria in coincidenza del transito, sul binario opposto, di un altro convoglio.
Dal momento che l'esplosione avvenne pressapoco nei pressi del punto in cui dieci anni prima era avvenuta la strage dell'Italicus e che fu utilizzato lo stesso esplosivo usato per l'agguato di via Amelio, l'attentato fu immediatamente ricondotto alla Mafia e Riina fu indicato come mandante della strage. L'obiettivo, secondo il Pm che si occupò inizialmente dell'indagine, era quello di distogliere l'attenzione di polizia e magistratura dalla mafia e rilanciare il terrorismo come unico reale nemico contro cui lo Stato doveva combattere.
Fin dall'inizio però emersero altre responsabilità: dall'ambiente dell'estrema destra ai servizi segreti. Un deputato missino fu condannato per aver consegnato l'esplosivo nelle mani di Misso, boss camorrista e neofascista del rione Sanità. La stessa commissione parlamentare ha segnalato la "distrazione" di Sismi e Sisde nel segnalare attività di tipo terroristico. Secondo l'associazione dei familiari delle vittime, i mafiosi non sono i soli responsabili dell'attentato e la commissione parlamentare "[...] ha evidenziato la possibilità e l’attualità della reiterazione di atti criminali alla scopo di turbare e condizionare lo svolgimento della vita democratica del Paese, mettendo in luce come nel caso dei più recenti attentati del 1993, vi sia stata un’opera sistematica di disinformazione della “falange armata” che si è avvalsa di un supporto informativo e logistico non disponibile sul semplice mercato criminale".


Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3574-23-dicembre-1984-la-strage-del-rapido-904

Chico Mendez

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Sabato 22 Dicembre 2012 18:18 


 Il 22 dicembre 1988 Chico Mendes viene ucciso davanti alla porta di casa dai fazendeiros Alves da Silva, proprietari del seringal Cachoeira.
Chico Mendes era un estrattore di caucciù fin dalla nascita. Viveva nello stato dell'Acre in Brasile.

Il 10 marzo 1976 i lavoratori brasiliani, guidati da Chico Mendes, misero in atto la prima empate, l'occupazione delle terre per impedire il disboscamento delle foreste ad opera dei grandi latifondisti.

Negli anni successivi questa pratica si intensifica semre di più, i lavoratori dele foreste si riuniscono in assemblee popolari per decidere come combattere le speculazioni dei grandi proprietari. I seringueiros (raccoglitori di gomma) iniziarono ad organizzarsi per salvare ettari di foresta, dichiarati reservas extrativas, dove potessero continuare a raccogliere e lavorare il lattice di gomma e raccogliere frutti e fibre vegetali.  Tra il 1976 e il 1977 le empates si intensificano sempre di più. I lavoratori vengono colpiti da una dura repressione: centinaia di seringueiros sono incarcerati, decine uccisi dalle guardie dei latifondisti.
Chico Mendes partecipò alla fondazione del Sindacato dei lavoratori Rurali di Brasileia e Xapuri. Cercava di unire la difesa della foresta con la rivendicazione di una riforma agraria.

Uno degli ultimi empates organizzati da Chico Mendes riguardava il seringal Equador, la cui proprietà era rivendicata dal fazendeiro Darli Alves, allo scopo di destinare l'area a pascolo dopo averla disboscata. L' uccisione del leader sindacale era da tempo pianificata ai livelli alti dell'União Democrática Ruralista con coperture politiche e istituzionali. L'azione dei seringueiros infatti non era più un fatto isolato e doveva assolutamente essere fermata.

Chico Mendes sapeva di essere stato condannato a morte dai latifondisti. In uno dei suoi ultimi discorsi aveva detto: "Non voglio fio­ri sulla mia tomba, perché so che andrebbero a strapparli alla foresta. Voglio solo che la mia morte serva per mettere fine all'impunità dei jagunços, che possono contare sulla protezione della polizia federale dell'Acre e che, dal 1975 in avanti, hanno già ammazzato nella zona rurale più di cinquanta persone come me, leader seringueiros impegnati a salvare la foresta amazzonica e dimostrare che il progresso senza distruzione è possibile. "

Solo la grande indignazione sollevatasi a livello nazionale e internazionale fece sì che Darli Alves, il mandante dell'omicidio, e il figlio Darci, l'esecutore, fossero arrestati e l'omicidio non rimanesse senza colpevoli come era sempre accaduto in passato. I due fratelli vennero condannati a 19 anni di reclusione ma 4 anni dopo, con la complicità della polizia, riuscirono a scappare. Darli Alves non era l'unico mandante dell'assassinio. Dietro ai due latifondisti c'erano fazendeiros dell'UDR molto più potenti come Joao Branco e Adalberto Aragao, ex sindaco di Rio Branco.