Sabato 19 Gennaio 2013 07:43
Torino, 19 Gennaio 1979: nel carcere “Le
Nuove” di Via Borsellino la quotidianità della vita penitenziaria
viene sconvolta da una rivolta di detenuti destinata a protrarsi per
diversi mesi sotto la guida dei CDL (Comitati Di Lotta), costituitisi
pochi giorni dopo grazie all’iniziativa di alcuni compagni e compagne
del carcere.
Ciò che i detenuti in rivolta chiedevano a gran voce erano migliori condizioni di vita all’interno del complesso penitenziario.
Da un comunicato diffuso dal CDL nei giorni immediatamente successivi al 19 si apprende infatti dell’invivibilità della maggior parte degli spazi (molti dei quali dichiarati fuori norma) e degli abusi a cui i detenuti erano sottoposti non appena alzavano la testa contro i soprusi quotidiani.
“..la convivenza diventa praticamente inumana sotto tutti gli aspetti, partendo da quelli igienici, tenendo conto della mancanza di mezzi per mantenere la pulizia [...]; le docce sono 3 di cui una funzionante e costrette purtroppo a restare sporche, l’acqua diventa quasi immediatamente fredda, quindi siamo impossibilitati a lavarci, incrementando così la percentuale di malattie già esistenti, senza nessuna assistenza medica per il menefreghismo delle guardie e brigadieri, marescialli che all’insistere delle richieste ripiegano con metodi di rappresaglia [...]. Noi siamo sprovveduti per combattere questi abusi, soprattutto perché si incorre in duri provvedimenti disciplinari. Davanti a queste azioni molti proletari desistono dall’agire materialmente, ma sono disposti ad ascoltare e condividere questa causa anche socialmente”.
Le rivendicazioni dei detenuti, in realtà, erano sorte già da diverso tempo ma la risposta da parte del Direttore del carcere, preoccupato unicamente di mantenere il quotidiano sistema di violenze con cui il centro veniva mandato avanti, erano state vane promesse destinate a rimanere sulla carta e a non avere mai una reale applicazione.
A tutto ciò va aggiunto il silenzio degli organi di stampa e delle istituzioni esterne al carcere, nonostante i detenuti più attivi si premurassero continuamente di far arrivare le proprie rivendicazioni oltre le spesse mura carcerarie e di portare all’attenzione pubblica una questione che non poteva più essere ignorata.
Solo a partire dalla fine di Gennaio, quando l’eco delle rivolte all’interno delle Nuove si era spinta troppo lontano per continuare a tenere la faccenda sotto silenzio, alcuni giornali, in primo luogo La Stampa, cominciarono a dedicare spazio alla questione; almeno inizialmente, però, gli articoli si limitavano ad una poco veritiera cronaca delle proteste, che venivano vendute dai giornali come pacifiche e destinate a concludersi di lì a poco grazie ad una presunta disponibilità al dialogo da parte della direzione del centro penitenziario.
La rivolta, in realtà, si protrasse fino ad Aprile, adottando metodi di lotta di volta in volta diversi: ritardare collettivamente il rientro in cella, rifiutarsi di presentarsi ai processi, scioperi della fame, diversi giorni di sosta sul tetto del carcere fino a vere e proprie devastazioni di alcune zone delle Nuove.
Di fronte all’intensificarsi della protesta anche le misure repressive da parte dei vertici del centro di detenzione si inasprirono: oltre ad autorizzare violenze sempre più vergognose (che spesso assumevano le forme di vere e proprie torture, come la permanenza sul famigerato letto di contenzione, dove i detenuti venivano tenuti legati fino a che tutto il corpo diventava una piaga), vennero disposti numerosi trasferimenti di detenuti in altri poli carcerari, nel tentativo di fiaccare il crescente rafforzamento del CDL tenendo separati i suoi componenti.
La protesta aveva però assunto dimensioni difficilmente contenibili, anche in virtù della costante comunicazione e collaborazione (per quanto vietate) tra il CDL della sezione maschile e quello della sezione femminile.
Col passare del tempo e con il costituirsi di una coscienza politica da parte di molti carcerati che dapprima avevano solo tiepidamente appoggiato la rivolta, anche le rivendicazioni seppero andare oltre le iniziali richieste di ambienti, cibo e assistenza sanitaria migliori e la consapevolezza di non poter slegare la propria battaglia dalle parole d’ordine che provenivano da situazioni sociali esterne al carcere (lotte di fabbrica e di quartiere) si fece strada fra i detenuti; in un comunicato del CDL femminile di Febbraio si legge infatti:
“E’ emersa la necessità di una ricomposizione politica nel Comitato e la riaffermazione della capacità di direzione politica del Comitato nella crescita dei livelli di contropotere proletario all’interno del carcere. Il Comitato quale sintesi delle tensioni esistenti nella sezione ha aperto un ciclo di lotta che a partire dai bisogni immediati delle proletarie prigioniere portasse alla crescita del livello di contropotere interno e di una maggior unità fra tutte le proletarie prigioniere, e che vedesse l’impiego di lotte quanto più disarticolanti”.
Ciò che i detenuti in rivolta chiedevano a gran voce erano migliori condizioni di vita all’interno del complesso penitenziario.
Da un comunicato diffuso dal CDL nei giorni immediatamente successivi al 19 si apprende infatti dell’invivibilità della maggior parte degli spazi (molti dei quali dichiarati fuori norma) e degli abusi a cui i detenuti erano sottoposti non appena alzavano la testa contro i soprusi quotidiani.
“..la convivenza diventa praticamente inumana sotto tutti gli aspetti, partendo da quelli igienici, tenendo conto della mancanza di mezzi per mantenere la pulizia [...]; le docce sono 3 di cui una funzionante e costrette purtroppo a restare sporche, l’acqua diventa quasi immediatamente fredda, quindi siamo impossibilitati a lavarci, incrementando così la percentuale di malattie già esistenti, senza nessuna assistenza medica per il menefreghismo delle guardie e brigadieri, marescialli che all’insistere delle richieste ripiegano con metodi di rappresaglia [...]. Noi siamo sprovveduti per combattere questi abusi, soprattutto perché si incorre in duri provvedimenti disciplinari. Davanti a queste azioni molti proletari desistono dall’agire materialmente, ma sono disposti ad ascoltare e condividere questa causa anche socialmente”.
Le rivendicazioni dei detenuti, in realtà, erano sorte già da diverso tempo ma la risposta da parte del Direttore del carcere, preoccupato unicamente di mantenere il quotidiano sistema di violenze con cui il centro veniva mandato avanti, erano state vane promesse destinate a rimanere sulla carta e a non avere mai una reale applicazione.
A tutto ciò va aggiunto il silenzio degli organi di stampa e delle istituzioni esterne al carcere, nonostante i detenuti più attivi si premurassero continuamente di far arrivare le proprie rivendicazioni oltre le spesse mura carcerarie e di portare all’attenzione pubblica una questione che non poteva più essere ignorata.
Solo a partire dalla fine di Gennaio, quando l’eco delle rivolte all’interno delle Nuove si era spinta troppo lontano per continuare a tenere la faccenda sotto silenzio, alcuni giornali, in primo luogo La Stampa, cominciarono a dedicare spazio alla questione; almeno inizialmente, però, gli articoli si limitavano ad una poco veritiera cronaca delle proteste, che venivano vendute dai giornali come pacifiche e destinate a concludersi di lì a poco grazie ad una presunta disponibilità al dialogo da parte della direzione del centro penitenziario.
La rivolta, in realtà, si protrasse fino ad Aprile, adottando metodi di lotta di volta in volta diversi: ritardare collettivamente il rientro in cella, rifiutarsi di presentarsi ai processi, scioperi della fame, diversi giorni di sosta sul tetto del carcere fino a vere e proprie devastazioni di alcune zone delle Nuove.
Di fronte all’intensificarsi della protesta anche le misure repressive da parte dei vertici del centro di detenzione si inasprirono: oltre ad autorizzare violenze sempre più vergognose (che spesso assumevano le forme di vere e proprie torture, come la permanenza sul famigerato letto di contenzione, dove i detenuti venivano tenuti legati fino a che tutto il corpo diventava una piaga), vennero disposti numerosi trasferimenti di detenuti in altri poli carcerari, nel tentativo di fiaccare il crescente rafforzamento del CDL tenendo separati i suoi componenti.
La protesta aveva però assunto dimensioni difficilmente contenibili, anche in virtù della costante comunicazione e collaborazione (per quanto vietate) tra il CDL della sezione maschile e quello della sezione femminile.
Col passare del tempo e con il costituirsi di una coscienza politica da parte di molti carcerati che dapprima avevano solo tiepidamente appoggiato la rivolta, anche le rivendicazioni seppero andare oltre le iniziali richieste di ambienti, cibo e assistenza sanitaria migliori e la consapevolezza di non poter slegare la propria battaglia dalle parole d’ordine che provenivano da situazioni sociali esterne al carcere (lotte di fabbrica e di quartiere) si fece strada fra i detenuti; in un comunicato del CDL femminile di Febbraio si legge infatti:
“E’ emersa la necessità di una ricomposizione politica nel Comitato e la riaffermazione della capacità di direzione politica del Comitato nella crescita dei livelli di contropotere proletario all’interno del carcere. Il Comitato quale sintesi delle tensioni esistenti nella sezione ha aperto un ciclo di lotta che a partire dai bisogni immediati delle proletarie prigioniere portasse alla crescita del livello di contropotere interno e di una maggior unità fra tutte le proletarie prigioniere, e che vedesse l’impiego di lotte quanto più disarticolanti”.
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