Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


mercoledì 16 gennaio 2013

Un lager chiamato Cie

cie 

gennaio 16, 2013 in Hot News, L'informazione di Blackout
 

Dopo un’altra notte di rivolta al Cie di Torino sedata a colpi di lacrimogeni, martedì mattina la polizia sveglia i prigionieri per una perquisizione area per area alla ricerca di oggetti di ferro. Diversi reclusi vengono spostati da un’area all’altra, e qualcuno viene anche picchiato brutalmente.

Sulle rivolte degli ultimi giorni e le inaccettabili condizioni dei migranti all’interno del Cie, abbiamo intervistato Stefania  patrocinatrice legale che si occupa di immigrazione per lo sportello CUB di Torino, ieri in visita dentro il Cie di Torino per un colloquio con un migrante recluso.

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BAB AL-SHAMS, SECONDA VIOLENTA EVACUAZIONE

Ieri 100 attivisti palestinesi sono tornati nel villaggio in area E1. Raid di polizia ed esercito: decine i feriti, tutti arrestati. Ma in Israele l'imbarazzo è palpabile.

mercoledì 16 gennaio 2013 11:38


 
dalla redazione Betlemme, 16 gennaio 2013, Nena News - Seconda evacuazione forzata per gli attivisti palestinesi del villaggio di Bab al-Shams. Che però non si arrendono e continuano a lottare per difendere l'esistenza del nuovo villaggio palestinese sorto in piena area E1. Ieri le forze militari israeliane, oltre 200 tra soldati e poliziotti di frontiera, hanno attaccato con granate stordenti e gas lacrimogeni i circa cento palestinesi tornati nella collina vicino a At-Tur, dalla quale erano stati espulsi sabato notte.

Nella mattina di ieri, fingendosi diretti ad un matrimonio, il gruppo di attivisti ha raggiunto la collina dove venerdì mattina erano state montate 23 tende, il villaggio di Bab al-Shams. Immediata la reazione israeliana che ha di nuovo utilizzato la violenza per disperdere il gruppo: molti i feriti, picchiati da soldati e poliziotti, dieci ricoverati in ospedale e tutti arrestati. Dopo qualche ora dall'inizio dell'azione, l'esercito ha fermato tutti i presenti, li ha costretti a salire su degli autobus e li ha rilasciati poco dopo al checkpoint di Hizma, tra Gerusalemme e Ramallah.

Duro l'attacco israeliano: tra i feriti alcuni giornalisti e cameraman, mentre la polizia bloccava per ore l'arrivo delle ambulanze.
"Il nostro piano è tornare di nuovo - ha detto Lina Tamimi, una delle attiviste presenti intervistata da Al-Akhbar - Non diremo quando perché altrimenti gli israeliani arriveranno e ci arresteranno, ma continueremo a provare. Non ci fermeranno mai".

L'imbarazzo in casa israeliana è palpabile: sabato è stato lo stesso premier Netanyahu a ordinare l'evacuazione di Bab al-Shams, nonostante una decisione della Corte Suprema che vietava lo sgombero per i successivi sei giorni. Un imbarazzo dovuto alla visibilità e la notorietà che in poche ore il villaggio ha saputo conquistare a livello mondiale: l'area E1 rientra nel progetto di espansione coloniale israeliana, un corridoio sensibile perché se chiuso impedirebbe il collegamento tra Nord e Sud della Cisgiordania, e quindi cancellerebbe dalle mappe la continuità territoriale di un eventuale Stato di Palestina. Nena News



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Jan Palach

JAN PALACH
16 gennaio 1969
di Matteo Liberti
 
Il 16 gennaio del 1969, nel centro di Praga, precisamente in piazza San Venceslao, un ragazzo si cosparse di benzina e si diede fuoco.
Si trattava di Jan Palach, uno studente di filosofia che divenne, quel giorno, uno dei simboli più efficaci della rivolta praghese freddamente soffocata dai carri armati dell'Unione Sovietica.
 
Erano giornate di febbrile contestazione, con il paese ormai prossimo all’inizio del sesto mese di occupazione sovietica della Cecoslovacchia (21 agosto 1968). L’invasione, volta a frenare le tendenze democratiche del presidente del partito nazionale Alexander Dubcek ed il suo socialismo dal volto umano, venne dai russi spacciata come aiuto fraterno.

Le forze del Patto di Varsavia accorse in aiuto contavano su circa 600.000 uomini (l'unico paese che non inviò uomini fu la Romania).

Di fronte alla progressiva occupazione, il numero degli esuli cecoslovacchi iniziò a crescere velocemente, e con gli esuli cresceva anche la rassegnazione di fronte al gesto di forza e di prepotenza dell’ URSS.
In tutto il paese le molte proteste erano finite soffocate nella violenza e molti morirono negli scontri con le truppe. Il 17 aprile, tre mesi dopo il rogo, Dubcek verrà allontanato completamente dalla sua carica e sostituito dal più malleabile Husak.
 
Il gesto di Jan Palach era indirizzato esattamente contro questa situazione ormai divenuta stagnante.
Non fu neppure una sbagliata rinuncia a quel dono di Dio che è la vita, ebbe a dire il Vaticano.
 
Jan Palach portava con se una lettera, che non volle bruciasse con lui.
Venne letta subito dopo la sua morte.
 
"Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana.

Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zprav (giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà".
 
Firmato: la torcia numero uno.
 
Altri s'immolarono come lui, almeno sette in Cecoslovacchia, ma, colpa anche della censura, le notizie che si ebbero furono assai scarse. Si sa però che... Jan Palach aveva compiuto parte dei suoi studi universitari direttamente in Unione Sovietica e probabile argomento della sua tesi di laurea sarebbe stato Karl Marx e la terza internazionale.
Il gruppo politico cui apparteneva, seppur clandestino, non era affatto un gruppo anticomunista. Il suo intento non era il ritiro delle truppe, piuttosto la fine immediata della censura sulla stampa...
 
La sua tomba divenne presto una meta di manifestazioni silenziose contro gli abusi del regime comunista. Preoccupate per questi ripetuti episodi, le autorità decisero così, nel 1973, di traslare i resti di Palach a Vsetaty, a pochi chilometri dal suo luogo di nascita.
 
Dal mese di ottobre del 1990 le sue ceneri si trovano nel cimitero di Olsany, a Praga.


Riferimenti bibliografici:

Giancarlo Giordano, Storia della politica internazionale, 1870-1992, Franco angeli, 1994
Storia universale dei popoli e delle civiltà, l'età contemporanea, UTET
www.cronologia.it/storia/a1969g.htm
  



Fonte:

Gaza, 16 gennaio 2009

16/01/2009

Di Vittorio Arrigoni

 Il mio articolo per Il Manifesto di oggi:



Dante non avrebbe saputo immaginare gironi così infernali come le corsie dei dannati negli ospedali di Jabalia. La legge del contrappasso qui è applicata al rovescio. Tanto più innocente è la vittima tanto meno viene risparmiata dal martirio delle bombe. Al Kamal Odwan, all’Al Auda, le piastrelle in ceramica dei pronto soccorso sono sempre belle lustre, gli inservienti hanno sempre un gran da fare a ripulirle dal sangue che gronda dall’incessante via vai di barelle cariche di corpi massacrati. Iyad Mutawwaq stava camminando per strada quando una bomba ha aperto uno squarcio in un edificio poco distante. Insieme ad altri passanti si era precipitato per prestare i soccorsi, mentre un secondo ordigno colpiva il palazzo, uccidendo un padre di 9 figli, due fratelli, e un altro passante che al pari di Iyad era corso sul posto per aiutare i feriti. La solita storia ripetuta, dieci, cento volte. La tecnica preferita di ogni terrorismo ricalcata alla perfezione dall’armata israeliana Tsahal. Si lancia un bomba, si attendo i soccorsi, si ribombardano feriti e soccorsi. Per Iyad queste sono bombe americane ma portano l’autografo anche di Mubarack, il dittatore egiziano che qui a Gaza fa concorrenza ad Olmert in capacità di catalizzare livore.
Dietro il letto di Iyad, un anziano con le braccia ingessate sta disteso con gli occhi fissi al soffitto, non proferisce più parola, mi dicono abbia perso tutto, famiglia e casa. Fissa le crepe di un intonaco che cade a pezzi come per cercare una risposta alla disfatta della sua esistenza.
Khaled ha lavorato 25 anni in Israele, prima dell’ultima intifada. Come gratifica Tel Aviv non gli ha concesso una pensione, ma una serie di missili aria-terra sulla sua abitazione; presenta ferite su tutto il corpo da schegge di esplosivo. Gli chiedo dove andrà a vivere una volta dimesso dall’ospedale. Mi risponde dove sta ora la sua famiglia: per strada. Come la sua, numerose famiglie non sanno più dove rifugiarsi. I più fortunati hanno trovato ospitalità da parenti e conoscenti, come abbiamo verificato, ma si può definire vita lo stipare un centinaio di persone in due appartamenti di 3 stanze ciascuno?
Due bombe sull’abitazione di Ahmed Jaber hanno messo in fuga la sua famiglia, ma troppo tardi. Una terza esplosione ha sepolto sotto le macerie 7 suoi familiari, e anche due bambini di 8 e 9 anni suoi vicini di casa. Dice “ci hanno fatto fare un salto all’indietro nel 1948. Questo è il supplizio per il nostro attaccamento alla patria. Possono staccarmi le braccia e la gambe dal tronco, ma non mi lasceranno mai abbandonare la mia terra”.
Un dottore mi prende in disparte e mi confida che la figlia di 7 anni di Ahmed è arrivata in pezzi, stava contenuta in una minuscola scatola di cartone. Non hanno avuto il coraggio di riferirglielo per non deteriorare le sue già precarie condizioni di salute. In serata anche a Iyad hanno portato via il telefono per non fargli pervenire cattive notizie. Un tank ha centrato la casa della sorella, decapitandola.
Alla fine la nostra imbarcazione del Free Gaza Movement non è giunta al porto di Gaza. A 100 miglia dalla meta designata, in acque internazionali, sono stati intercettati da 4 navi da guerra israeliane, disposte a far fuoco e ammazzare il nostro carico di dottori, infermieri e attivisti per i diritti umani. Nessuno deve osare ostacolare la mattanza di civili che continua ininterrottamente da 3 settimane. A est di Jabilia, dinnanzi al confine, testimoni oculari parlano di decine di corpi in putrefazione per le strade, le loro carni putrescenti sono divorate dai cani. Ci sono anche centinaia di persone impossibilitate a muoversi, diverse ferite; le ambulanze non possono sopraggiungere nell’aera perchè ovunque ci sono cecchini che sparano.
I palestinesi sono esausti di schiattare nell’indifferenza generale, e diversi accusano anche Croce Rossa Internazionale e Onu di non fare abbastanza. Di non ottemperare in pieno al loro dovere, di non rischiare la loro vita per salvarne centinaia di altre. Andremo noi dell’ ISM, a piedi, con delle barelle, laddove l’umanità ha oltrepassato i suoi confini e si è eclissata. I soloni coi culi di pietra poggiati nei salotti buoni della politica discettano di strategie belliche e di guerra contro hamas, mentre qua ci stanno letteralmente massacrando. Bombardano gli ospedali, e c’è chi ancora si pronuncia sul diritto di Israele all’autodifesa. In qualsiasi Stato che si definisce minimante civile, l’autodifesa è proporzionale all’offesa. In questi 20 giorni abbiamo contato 1.075 vittime palestinesi, l’85% civili, più di 5.000 feriti, dei quali più della metà sono minori di 18 anni. 303 i bambini orrendamente trucidati. Fortunatamente solo 4 vittime civili israeliane. Come a dire che per Israele il giusto bagno di sangue per vendicare ognuno dei suoi civili ammazzati, è quello di sterminarne almeno 250 della parte avversa. Ditemi voi se questa sproporzione fra difesa e offesa non vi riporta agli eccidi compiuti come rappresaglia nelle pagine più nere della storia moderna europea.
Ma veniamo al punto, si tratta di legittima difesa? Ai Marco Travaglio, ai Piero Ostellino, ai Pierluigi Battista e agli Angelo Panebianco, che insistono con la loro solfa imputando ad Hamas la responsabilità di questo genocidio in quanto trasgressore della tregua fra Israele e Palestina, vorrei ricordare la posizione delle Nazioni Unite. Il professor Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha espresso idee chiare in proposito: Israele ha di fatto rotto la tregua in novembre sterminando bellamente 17 palestinesi. Nel mese di novembre si erano registrate zero vittime israeliane, zero vittime come in ottobre, come nel mese precedente e quello precedente ancora. Lo ha ricordato recentemente anche il premio Nobel, ed ex presidente USA, Jimmy Carter.
Dispiace, che giornalisti come Travaglio, su cui riponevamo la nostra stima perchè estremo baluardo di una informazione libera e quanto più possibile veritiera, si siano infiltati l’elmetto dell’IDF e intrattengano le masse dinnanzi al tubo catodico dilettandosi nello sport più di moda da queste parti, il tiro a segno sugli infanti. Batto i tasti in un ufficio dell’agenzia di stampa Ramattan, attorno i reporters palestinesi vestono giubbotti antiproiettili ed elmetti. Non tornano nè stanno per recarsi dinnanzi ai carri armati, siedono semplicemente davanti ai loro computer. Due piani più sopra gli uffici della Reuters sono stati appena colpiti da un razzo, due feriti gravi. Quasi tutti i piani dello stabile sono vuoti al momento, sono rimasti i giornalisti più eroici, questo inferno in qualche modo deve continuare a essere raccontato. Poco prima l’esercito israeliano aveva rassicurato la Reuters di non evacuare, di restare negli uffici perchè sicuri. Stamane è stato bombardato e distrutto anche l’edificio delle Nazioni Unite, stabile messo in piedi anche coi soldi del governo italiano. Berlusconi, esisti? Diversi i morti e i feriti.
John Ging, capo dell’UNRWA, agenzia dell’ONu per i profughi palestinesi, testimone oculare, parla chiaramente di bombe al fosforo bianco. Nel quartiere Tal el Hawa di Gaza city, un’ala dell’ospedale Al Quds è in fiamme, imprigionata dentro, insieme ad una quarantina fra medici e infermieri e un centinaio di pazienti, anche Leila, nostra compagna dell’ISM. Ci ha raccontato per telefono le loro ultime drammatiche ore. Un carro armato è dinnanzi all’ospedale e cecchini sono ovunque, sparano a qualsiasi cosa si muova. Tutt’attorno la distruzione. Nella notte hanno visto dalle loro finestre un edificio colpito dalle bombe incendiarsi, e udito le urla di terrore di intere famiglie, di bimbi, implorare aiuto. Non hanno potuto muoversi e impotenti, hanno osservato quei corpi arsi dal fuoco riversarsi in strada e ridursi in cenere. L’inferno si è rivoltato e al suo centro, nel cuore pulsante di Gaza, ci siamo noi, i dannati di un odio inumano. 

Restiamo umani 

Vik



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