16/01/2009
Di Vittorio Arrigoni
Il mio articolo per Il Manifesto di oggi:
Dante
non avrebbe saputo immaginare gironi così infernali come le corsie dei
dannati negli ospedali di Jabalia. La legge del contrappasso qui
è applicata al rovescio. Tanto più innocente è la vittima tanto meno
viene risparmiata dal martirio delle bombe. Al Kamal Odwan, all’Al Auda,
le piastrelle in ceramica dei pronto soccorso sono sempre belle lustre,
gli inservienti hanno sempre un gran da fare a ripulirle dal sangue che
gronda dall’incessante via vai di barelle cariche di corpi massacrati.
Iyad Mutawwaq stava camminando per strada quando una bomba ha aperto uno
squarcio in un edificio poco distante. Insieme ad altri passanti
si era precipitato per prestare i soccorsi, mentre un
secondo ordigno colpiva il palazzo, uccidendo un padre di 9 figli, due
fratelli, e un altro passante che al pari di Iyad era corso sul posto
per aiutare i feriti. La solita storia ripetuta, dieci, cento volte. La
tecnica preferita di ogni terrorismo ricalcata alla
perfezione dall’armata israeliana Tsahal. Si lancia un bomba, si attendo
i soccorsi, si ribombardano feriti e soccorsi. Per Iyad queste sono
bombe americane ma portano l’autografo anche di Mubarack, il dittatore
egiziano che qui a Gaza fa concorrenza ad Olmert in capacità di
catalizzare livore.
Dietro
il letto di Iyad, un anziano con le braccia ingessate sta disteso con
gli occhi fissi al soffitto, non proferisce più parola, mi dicono abbia
perso tutto, famiglia e casa. Fissa le crepe di un intonaco che cade a
pezzi come per cercare una risposta alla disfatta della sua esistenza.
Khaled
ha lavorato 25 anni in Israele, prima dell’ultima intifada.
Come gratifica Tel Aviv non gli ha concesso una pensione, ma una serie
di missili aria-terra sulla sua abitazione; presenta ferite su tutto il
corpo da schegge di esplosivo. Gli chiedo dove andrà a vivere una volta
dimesso dall’ospedale. Mi risponde dove sta ora la sua famiglia: per
strada. Come la sua, numerose famiglie non sanno più dove rifugiarsi. I
più fortunati hanno trovato ospitalità da parenti e conoscenti, come
abbiamo verificato, ma si può definire vita lo stipare un centinaio di
persone in due appartamenti di 3 stanze ciascuno?
Due
bombe sull’abitazione di Ahmed Jaber hanno messo in fuga la sua
famiglia, ma troppo tardi. Una terza esplosione ha sepolto sotto le
macerie 7 suoi familiari, e anche due bambini di 8 e 9 anni suoi vicini
di casa. Dice “ci hanno fatto fare un salto all’indietro nel 1948.
Questo è il supplizio per il nostro attaccamento alla patria. Possono
staccarmi le braccia e la gambe dal tronco, ma non mi lasceranno mai
abbandonare la mia terra”.
Un
dottore mi prende in disparte e mi confida che la figlia di 7 anni di
Ahmed è arrivata in pezzi, stava contenuta in una minuscola scatola di
cartone. Non hanno avuto il coraggio di riferirglielo per non
deteriorare le sue già precarie condizioni di salute. In serata anche a
Iyad hanno portato via il telefono per non fargli pervenire cattive
notizie. Un tank ha centrato la casa della sorella, decapitandola.
Alla
fine la nostra imbarcazione del Free Gaza Movement non è giunta al
porto di Gaza. A 100 miglia dalla meta designata, in acque
internazionali, sono stati intercettati da 4 navi da guerra israeliane,
disposte a far fuoco e ammazzare il nostro carico di dottori, infermieri
e attivisti per i diritti umani. Nessuno deve osare ostacolare la
mattanza di civili che continua ininterrottamente da 3 settimane. A est
di Jabilia, dinnanzi al confine, testimoni oculari parlano di decine di
corpi in putrefazione per le strade, le loro carni putrescenti sono
divorate dai cani. Ci sono anche centinaia di persone impossibilitate a
muoversi, diverse ferite; le ambulanze non possono sopraggiungere
nell’aera perchè ovunque ci sono cecchini che sparano.
I
palestinesi sono esausti di schiattare nell’indifferenza generale, e
diversi accusano anche Croce Rossa Internazionale e Onu di non fare
abbastanza. Di non ottemperare in pieno al loro dovere, di non rischiare
la loro vita per salvarne centinaia di altre. Andremo noi dell’ ISM, a
piedi, con delle barelle, laddove l’umanità ha oltrepassato i suoi
confini e si è eclissata. I soloni coi culi di pietra poggiati nei
salotti buoni della politica discettano di strategie belliche e di
guerra contro hamas, mentre qua ci stanno letteralmente massacrando.
Bombardano gli ospedali, e c’è chi ancora si pronuncia sul diritto di
Israele all’autodifesa. In qualsiasi Stato che si definisce minimante
civile, l’autodifesa è proporzionale all’offesa. In questi 20 giorni
abbiamo contato 1.075 vittime palestinesi, l’85% civili, più di 5.000
feriti, dei quali più della metà sono minori di 18 anni. 303 i bambini
orrendamente trucidati. Fortunatamente solo 4 vittime civili israeliane.
Come a dire che per Israele il giusto bagno di
sangue per vendicare ognuno dei suoi civili ammazzati, è quello di
sterminarne almeno 250 della parte avversa. Ditemi voi se questa
sproporzione fra difesa e offesa non vi riporta agli eccidi compiuti
come rappresaglia nelle pagine più nere della storia moderna europea.
Ma veniamo
al punto, si tratta di legittima difesa? Ai Marco Travaglio, ai Piero
Ostellino, ai Pierluigi Battista e agli Angelo Panebianco, che insistono
con la loro solfa imputando ad Hamas la responsabilità di questo
genocidio in quanto trasgressore della tregua fra Israele e Palestina,
vorrei ricordare la posizione delle Nazioni Unite. Il professor Richard
Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha
espresso idee chiare in proposito: Israele ha di fatto rotto la tregua
in novembre sterminando bellamente 17 palestinesi. Nel mese di novembre
si erano registrate zero vittime israeliane, zero vittime come in
ottobre, come nel mese precedente e quello precedente ancora. Lo ha
ricordato recentemente anche il premio Nobel, ed ex presidente USA,
Jimmy Carter.
Dispiace,
che giornalisti come Travaglio, su cui riponevamo la nostra stima
perchè estremo baluardo di una informazione libera e quanto più
possibile veritiera, si siano infiltati l’elmetto dell’IDF e
intrattengano le masse dinnanzi al tubo catodico dilettandosi nello
sport più di moda da queste parti, il tiro a segno sugli infanti. Batto i
tasti in un ufficio dell’agenzia di stampa Ramattan, attorno
i reporters palestinesi vestono giubbotti antiproiettili ed elmetti. Non
tornano nè stanno per recarsi dinnanzi ai carri armati, siedono
semplicemente davanti ai loro computer. Due piani più sopra gli uffici
della Reuters sono stati appena colpiti da un razzo, due feriti gravi.
Quasi tutti i piani dello stabile sono vuoti al momento, sono rimasti i
giornalisti più eroici, questo inferno in qualche modo deve continuare a
essere raccontato. Poco prima l’esercito israeliano aveva rassicurato
la Reuters di non evacuare, di restare negli uffici perchè sicuri.
Stamane è stato bombardato e distrutto anche l’edificio delle Nazioni
Unite, stabile messo in piedi anche coi soldi del governo italiano.
Berlusconi, esisti? Diversi i morti e i feriti.
John
Ging, capo dell’UNRWA, agenzia dell’ONu per i profughi palestinesi,
testimone oculare, parla chiaramente di bombe al fosforo bianco. Nel
quartiere Tal el Hawa di Gaza city, un’ala dell’ospedale Al Quds è in
fiamme, imprigionata dentro, insieme ad una quarantina fra medici e
infermieri e un centinaio di pazienti, anche Leila, nostra compagna
dell’ISM. Ci ha raccontato per telefono le loro ultime drammatiche ore.
Un carro armato è dinnanzi all’ospedale e cecchini sono ovunque, sparano
a qualsiasi cosa si muova. Tutt’attorno la distruzione. Nella notte
hanno visto dalle loro finestre un edificio colpito dalle bombe
incendiarsi, e udito le urla di terrore di intere famiglie, di bimbi,
implorare aiuto. Non hanno potuto muoversi e impotenti, hanno osservato
quei corpi arsi dal fuoco riversarsi in strada e ridursi in cenere.
L’inferno si è rivoltato e al suo centro, nel cuore pulsante di Gaza, ci
siamo noi, i dannati di un odio inumano.
Restiamo umani
Vik
Fonte: