13 dicembre 2011
I buchi nella
ricostruzione sulla fine del 36enne, “morto nel sonno” a Viterbo. Cosa è
accaduto dopo la stesura del verbale? Perché quel “giro” di ospedali? I
vestiti restituiti in parte alla famiglia: mancano quelli a contatto con
le ferite.
La sciarpa
della Roma stretta al collo, sopra le ecchimosi e i lividi che scendono
dalla nuca alle spalle, gli occhi chiusi per sempre, quello sinistro
piuttosto gonfio e tumefatto, come un pò tutta quella parte del viso che
è violacea. Altre ecchimosi sul fianco sinistro e vasti ematomi sulle
mani, letteralmente devastate. Almeno quattro ferite di forma circolare e
di una certa profondità nella parte frontale del cranio, una lesione su
quella parietale sinistra e un’altra più profonda dietro, sulla nuca,
da cui deve essere uscito molto sangue, visto che sul giubbino - lavato o
comunque smacchiato da qualcuno - restano degli aloni rossi. L’ultima
immagine di Cristian De Cupis, un destino nel cognome, assomiglia un pò
ai suoi ultimi tre giorni, sghemba, poco nitida, violenta. Ma è proprio
quell’alone opaco che rende così dura la fine piuttosto strana di un
uomo che pure era abituato a remare controcorrente e senza paracadute.
Ha perso la
madre che era ancora un bambino, non ha mai avuto un vero padre, e
all’età in cui si prende la patente si era già infilato sulla sua
cattiva strada, già molto scivolosa. Dentro e fuori da caserme, celle e
comunità: detenuto a Regina Coeli, Rebibbia, poi Terni, Viterbo,
Velletri, Secondigliano, alternando periodi di cura ad Amelia da Pierino
Gelmini, a Bologna, Ravenna, Milano, ma anche a San Patrignano,
l’ultima volta, nel luglio scorso, due mesi e poi fuori, perché Cristian
non ce la faceva più a passare da una prigione a un centro di recupero.
Denunce,
verbali, carabinieri, polizia. Piccoli furti per racimolare qualche
soldo per la dose, e dopo la dose daccapo coi furti, e via così per
settimane, mesi, anni. Non ne faranno un santino, ma certo non meritava
di diventare un fascicolo per omicidio colposo sul tavolo di un
magistrato. Tocca a Stefano D’Arma, pm di Viterbo, e forse tra poco a un
suo collega di Roma dove potrebbe essere trasferita l’inchiesta,
cercare di capire come e perché è morto Cristian De Cupis.
A cominciare da
quella mattina di un mese fa, il 9 novembre, all’incontro tra Cristian e
gli agenti della Polfer al binario 10. Sono le 7.45, Termini brulica di
pendolari e studenti. “Esco per lasciare un po’ di curriculum”, aveva
detto uscendo di casa alla Garbatella, dove viveva da sempre con la zia e
la nonna. Sperava in un lavoro nuovo e in una vita nuova, dopo aver
pagato l’ultimo conto con la legge. Quello che è successo da lì in poi,
però, al momento è tutto scritto in un verbale della Polfer.
E in quelle
poche pagine, più dubbi che certezze. I tre poliziotti che lo hanno
arrestato raccontano che stavano assistendo una persona colta da malore,
quando De Cupis ha preso ad apostrofare uno di loro, minacciando lui e i
suoi colleghi. Lo avrebbe colpito con un pugno e poi strattonato per il
cinturone, prima di essere immobilizzato e caricato di peso sul veicolo
elettrico. La scena non dura molto, dieci minuti o poco più, e passa
inosservata, tra la gente che arriva, tolto l’avvocato che è l’unico
testimone oculare. Fatto sta che alle otto Cristian è già negli uffici
della Polfer.
Ci rimarrà sei
ore, fino alle 14: un tempo notevole, anche per un arresto a seguito di
“resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato”.
Soprattutto, un tempo vuoto, perché nessuno sa cosa sia successo là
dentro e perché Cristian ci sia rimasto ben oltre la stesura del
verbale, fatta alle 11. Su quei fogli, gli agenti annotano anche atti di
autolesionismo da parte di De Cupis che tra l’altro, scrivono,
“danneggia le manette sbattendole al muro”.
Verso le 14 lo
portano via con l’ambulanza, equipaggio 803, una volante al seguito, con
direzione policlinico Umberto I. Dove, però, non lo prendono,
nonostante passi oltre un’ora prima che entri al Santo Spirito: perché
non resta al Policlinico? E che fa prima di essere condotto altrove?
Forse c’entra la sua sieropositività? Gli ospedali che hanno reparti per
infettivi, a Roma, sono appunto l’Umberto I, il Gemelli, lo
Spallanzani, poi come carceri c’è Rebibbia, che ha un reparto ad hoc, e
Regina Coeli, attrezzata alla meglio.
Cristian aveva
fatto un check-up due giorni prima allo Spallanzani, dove era sotto
controllo medico, ed era tutto a posto. Pesava 86 chili e voleva
mettersi a dieta: più che florido, per uno con quei problemi. Inoltre,
per la legge 135/90, “l’accertata infezione da Hiv non può costituire
motivo di discriminazione”. Significa che De Cupis, per le sue
condizioni cliniche, aveva diritto ad essere accolto e ricoverato
ovunque, a Roma: invece è finito addirittura a Viterbo. Fatto sta che
entra al pronto soccorso del Santo Spirito alle 15.15 (ed esce alle
18.52), con lesioni alla spalla e all’emitorace sinistro, oltre che al
bacino e al cuoio capelluto.
Racconta di
essere stato percosso e i medici descrivono almeno tre episodi di
“amnesia post traumatica” connessi a perdita di memoria. Gli fanno Tac,
ecografia e raggi X, ma è tutto negativo: certo, per un codice verde è
un bel po’ di roba, un trattamento di lusso vien quasi da dire.
Negative anche
le risposte a cocaina, cannabis e anfetamine. Cristian è positivo alle
benzodiazemine e gli viene prescritto il Rivotril in gocce. Sul referto
viene scritto che è in trattamento con metadone, ma la famiglia
smentisce e nemmeno al Sert, a quanto pare, risulta. Lo ricoverano in
medicina generale, dove rimarrà per un giorno, prima di essere
trasferito al Belcolle, nella struttura di medicina protetta.
Chi ha deciso
quel trasloco e perché? E che succede a Cristian in quelle 24 ore? Il
suo avvocato di fiducia, Davide Verri, viene avvisato alle 17, ossia 9
ore dopo il fermo sul binario: non è stata certo una comunicazione
tempestiva. L’udienza di convalida viene fatta venerdì 11, ma quando il
giudice entra in aula Cristian non c’è. Da Viterbo dicono che “non è
trasportabile”, eppure la sera prima lo avevano portato via dal Santo
Spirito. Chi ha disposto quel trasferimento?
E perché?
Eppure, perfino per i medici del Belcolle è tutto ok, anche se poi fanno
una parziale retromarcia: De Cupis era inquieto e nervoso, altro che
uno che fischietta sotto alla doccia prima di mettersi a letto, contento
per la prospettiva dei domiciliari. E ai familiari, i medici avrebbero
confermato che le percosse ci sono state, e che verosimilmente sono
state il motivo del ricovero. Cristian - dicono - muore alle 5 e mezza di
sabato 12 novembre, “morto nel sonno” dicono, ma quando la zia Maria e
il fratello Claudio vedono il cadavere, cominciano ad avere qualche
dubbio. I tempi dilatati diventano frenetici. Già il lunedì, pur con un
fascicolo aperto in Procura, si fa l’esame autoptico. Ci sono i
familiari ma non c’è il loro consulente: un’assenza che potrebbe avere
un peso.
Secondo le
prime conclusioni dell’autopsia eseguita da Maria Rosa Aromatario,
medico della Sapienza, sul cadavere non c’erano lesioni di organi
interni. Però non c’è neppure il motivo per cui Cristian è steso su quel
tavolo della morgue, perché “l’arresto cardiaco” è - diciamo -
l’effetto meccanico, e non la causa, di ogni decesso. Di certo, le foto
scattate con un telefonino non depongono a favore di una morte
improvvisa e naturale. E di certo non vengono restituiti la gran parte
degli indumenti che Cristian indossava: non c’è traccia della maglietta,
della felpa, degli slip e dei calzini. Tornano alla famiglia solo il
giubbino, i pantaloni e le scarpe, ossia gli abiti non a contatto con le
parti interessate dalle ferite. E restano le domande, molte. La più
grande di tutte: cosa è successo a Cristian, 36 anni, tre giorni dopo
essere uscito di casa per cercare lavoro?