Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


giovedì 30 maggio 2013

E' morta Franca Rame

Mercoledì 29 Maggio 2013 11:11 





Le agenzie stanno battendo la notizia della morte di Franca Rame, artista, donna e attivista con maggiore coerenza del marito. Una coerenza che le venne fatta pagare duramente negli anni Settanta.

Al momento circola solo una laconica notizia: è morta Franca Rame. Per noi c'è molto di più. C'è una donna e una attivista politica che ha portato ed usato il teatro come un'arma di denuncia e di formazione culturale per migliaia di persone. Franca ha pagato di persona un prezzo pesantissimo per il suo impegno sui prigionieri politici e contro le carceri speciali. Da molti punti di vista è sempre stata più determinata e più indipendente dell'illustre consorte.
Franca Rame sarebbe morta a causa di una crisi respiratoria ma era malata da tempo. Il 19 aprile 2012 viene colpita da un ictus e ricoverata d'urgenza al policlinico di Milano.  Nel 1954 si era sposata con Dario Fo e insieme hanno dato vita ad una carriera straordinaria a metà tra il teatro (un gran bel teatro) e l'impegno politico.  Nel marzo 1973, tornando da una visita ad alcuni detenuti politici in un carcere speciale, venne rapita a Genova da un commando di fascisti (e non solo) subendo uno stupro e violenze che ebbe la determinazione e il coraggio di portare in teatro con un'apposito spettacolo.

Guarda il video del monologo di Franca Rame "Lo stupro":
https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=zzh7FmmNDAM

Su questa barbara vicenda è bene ricordare alcune informazioni:

"Furono alcuni ufficiali dei carabinieri a ordinare lo stupro di Franca Rame. L' aveva detto dieci anni fa l' ex neofascista Angelo Izzo, l' ha confermato al giudice istruttore Guido Salvini un esponente di spicco della destra milanese, Biagio Pitarresi. Il suo racconto occupa due delle 450 pagine della sentenza di rinvio a giudizio sull' eversione nera degli Anni 70. La sentenza è stata depositata pochi giorni fa, il 3 di questo mese. Lo stupro avvenne il 9 marzo del 1973, venticinque anni orsono. Un tempo che fa scattare la prescrizione e che garantisce l' impunità alle persone chiamate in causa. Pitarresi ha fatto il nome dei camerati stupratori: Angelo Angeli e, con lui, "un certo Muller" e "un certo Patrizio". Neofascisti coinvolti in traffici d' armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s' incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ha detto Pitarresi: "L' azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell' Arma".

Da archivio La Repubblica, 10 febbraio 1998


Le dimissioni da senatrice
Infine un altro documento che ci conferma la coerenza di Franca Rame. Nel 2006 venne eletta come senatrice nelle file dell'Italia dei Valori. Nel gennaio del 2008 si dimise per protesta contro un governo Prodi che aveva disatteso le aspettative del popolo progressista che lo aveva eletto.
Nel link qui di seguito la lettera di dimissioni di Franca Rame da senatrice:
http://www.francarame.it/files/manchette_dimissioniFR.pdf

Ultima modifica Mercoledì 29 Maggio 2013 12:47 



Fonte:

giovedì 23 maggio 2013

È morto Don Gallo, il prete degli ultimi

È morto nella sua Comunità San Benedetto del Porto don Andrea Gallo. Il prete di strada, amico e vicino agli umili, aveva 85 anni.


redazione
mercoledì 22 maggio 2013 19:04
 

Genova è in lutto per la scomparsa di Don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al porto, "prete di strada" da sempre al fianco dei più deboli, degli emarginati, degli ultimi. È morto nella sua comunità. Ieri si erano aggravate le condizioni del sacerdote genovese, che si è spento, circondato dall'affetto dei suoi più stretti collaboratori, all'età di 84 anni.

La notizia della morte dell'anziano sacerdote, che avrebbe compiuto 85 anni il 18 luglio, è stata pubblicata sul suo profilo twitter. "Alle ore 17.45 il cuore di Don Andrea Gallo - si legge - ha cessato di battere, la comunità S.Benedetto e idealmente voi tutti siamo stretti intorno a lui".

Nato a Genova il 18 luglio del 1928, il giovane Andrea inizia il noviziato nel 1948 con i salesiani, a Varazze, proseguendo poi a Roma il liceo e gli studi filosofici. Nel 1953 chiede di partire per le missioni e viene mandato in Brasile, ma la dittatura lo costringe a tornare in Italia l'anno successivo. Prosegue gli studi ad Ivrea e viene ordinato sacerdote il 1 luglio 1959. Nominato cappellano alla nave scuola della Garaventa, riformatorio per minori, cerca di introdurre un metodo educativo basato sulla fiducia e sulla libertà, lontano dalla repressione fino ad allora persequita.

Tre anni dopo i superiori salesiani lo rimuovono dall'incarico, senza fornirgli spiegazioni. Nel 1964 Don Andrea lascia la congregazione, chiedendo di entrare nella diocesi genovese. Viene nominato vice parroco alla chiesa del Carmine, nel centro storico di Genova, dove rimane fino al 1970, anno in cui viene trasferito per ordine del Cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo della città.

Per Don Gallo non si tratta di un semplice avvicendamento tra parroci: la sua predicazione irrita una parte di fedeli e preoccupa i teologi della Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale perche', si dice, i suoi contenuti "non sono religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti".

Don Gallo obbedisce ma l'allontanamento materialmente dalla parrocchia non significa per lui abbandonare quell'impegno che aveva provocato l'atteggiamento repressivo nei suoi confronti: i suoi ultimi incontri con la popolazione, scesa in piazza per esprimergli solidarietà, sono una decisa riaffermazione di fedeltà ai suoi ideali ed alla sua battaglia per dare voce ai più poveri e agli emarginati.

Qualche tempo dopo viene accolto dal parroco di S. Benedetto, Don Federico Rebora, e insieme ad un piccolo gruppo, nel 1975 avvia l'attività della Comunità di S. Benedetto al Porto. L'associazione Comunità San Benedetto al Porto verrà costituita con atto notarile il 2 marzo del 1983.


Fonte:

Parole di Hebe de Bonafini, madre di Plaza de Mayo, sulla morte di Videla

Immagine in linea 6 


il manifesto 2013.05.22

È morto Videla. La notizia mi ha paralizzata. Ho pensato subito ai miei figli. Come facevo a pensare ad altro? La testa mi girava, volevo pensare a qualcosa ma niente. Pensavo a loro e alle torture che hanno subito. Vedevo i loro visi che gridavano, mentre mi chiedevano e chiamavano tutti, come hanno fatto tutti nei momenti terribili, quando erano soli, nei momenti di peggior tortura.
I media hanno iniziato a chiamarmi ma non avevo niente da dire. Ho sentito un'angoscia grande, un profondo dolore che mi prendeva tutto il corpo. Non potevo pensare ad altro. Non ero contenta che fosse morto. Non potevo esserne contenta se pensavo a tutto quello che ci aveva fatto. Ho pensato a tutte le «Madres», a tutto il dolore, a tutte le famiglie distrutte. Mi è crollato il mondo e ogni volta che qualcuno chiamava sentivo sempre più l'angoscia perché la maggior parte di quelli che hanno appoggiato la dittatura, i giornali, soprattutto il «Clarín», adesso lo chiamano dittatore, lo denominano genocida, che vergogna! Ma io pensavo ancora a loro, ai nostri figli. Hanno tanto amato questo paese, hanno dato tanto per esso, ed io dovevo ascoltare questi che hanno appoggiato la dittatura, che oggi parlano di genocida? Quanta ipocrisia! Il nostro popolo deve capire che tutta quella ipocrisia ha fatto sì che i nostri figli fossero segnalati come terroristi quando tutti questi, che oggi si levano gli abiti sporchi di dosso, hanno guardato da un'altra parte. Alcuni si sono arricchiti e altri si sono riempiti di obbrobri. Volevo parlare ma non riuscivo. Oggi ho deciso di scrivere qualcosa affinché tutti quelli che erano in attesa della mia voce potessero sapere quello che penso. Sono stata soffocata dal dolore, dall'angoscia, dalla rabbia e dalla tristezza ma di colpo mi è scoppiato il cuore e ho detto: che fortuna aver avuto figli così valorosi! Questa è l'unica felicità che ho provato alla fine: il coraggio dei nostri figli nel dare le loro vite per far vivere altri.

Hebe de Bonafini presidenta Asociación Madres de Plaza de Mayo


Fonte:


lunedì 20 maggio 2013

ROMA, MARTEDÌ 21 MAGGIO, ORE 11.30 SIT-IN ALLA SEDE NAZIONALE DELLA FEDERCALCIO (VIA GREGORIO ALLEGRI 14)


Dal 22 al 24 maggio, si riunisce il calcio europeo a Londra per il comitato esecutivo e il congresso annuale della Uefa. In vista alla partecipazione della Federcalcio alle riunioni di Londra, la campagna Cartellino rosso all’Apartheid israeliana organizza un sit-in di protesta martedì 21 maggio alle ore 11.30 contro la decisione della UEFA di concedere l’onore di ospitare il campionato Under 21 ad Israele, paese che si fa beffa del diritto internazionale, occupando militarmente la Palestina e imponendo un sistema di apartheid sul popolo palestinese. I manifestanti denunciano anche la mancata presa di posizione da parte della Federcalcio, pur dichiarando un impegno per il calcio palestinese.
Mentre gli azzurrini si preparano ai giochi in Israele, ai giovani palestinesi sono negati i diritti fondamentali di studiare, muoversi, partecipare allo sport, e di vivere. Le brutali politiche di Israele non risparmiano nessun aspetto della vita dei palestinesi. Lo sport palestinese è stato più volte oggetto diretto di attacchi militari israeliani. Nei bombardamenti israeliani su Gaza del novembre 2012, infrastrutture sportive e del calcio, tra cui la sede del Comitato Nazionale Paralimpico e lo stadio di calcio di Gaza, sono state distrutte, mente colpi di artiglieria su campi sportivi hanno ucciso ragazzi palestinesi a Gaza mentre giocavano a pallone.
Queste azioni criminali hanno portato 50 calciatori europei ad affermare: “Il fatto che Israele ospiti il campionato europeo UEFA Under 21, in queste circostanze, verrà visto come un premio per azioni che sono contrarie ai valori dello sport.” In una lettera a Platini, anche l’ex ministro francese dello sport ha chiesto alla Uefa di spostare la coppa Under 21.
Il 24 maggio a Londra, attivisti della campagna Cartellino rosso provenienti da diversi paesi europei, l’Italia inclusa, manifesteranno davanti al congresso annuale della UEFA. Si è anche fatta formale richiesta perché Mahmoud Sarsak, giocatore palestinese detenuto dalle autorità israeliane per tre anni senza capo d’accusa né processo e rilasciato solo dopo tre mesi di sciopero della fame ed una protesta internazionale, possa intervenire al Congresso.
Se l’UEFA dovesse scegliere ignorare i tanti appelli per spostare il campionato, dando così ad Israele l’opportunità di presentare come paese normale e democratico, Cartellino Rosso all’Apartheid israeliana farà appello perché si svolgano proteste in tutta l’Italia l’8 giugno, giorno della partita Italia – Israele, auspicando l’apertura di un dibattito pubblico sul tema e una diffusa mobilitazione della società civile.
La campagna Cartellino Rosso fa parte del movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) lanciato dalla società civile palestinese nel 2005, che trae ispirazione dal movimento anti-apartheid in Sud Africa, nel quale il boicottaggio sportivo ha svolto un ruolo importante.
Finché Israele non rispetta la legalità internazionale e i diritti umani, e continua a operare contro i valori dello sport, non merita di essere premiato con eventi sportivi internazionali e non ha nessun diritto di rimanere nella UEFA.

CARTELLINO ROSSO ALL’APARTHEID ISRAELIANA

Prime adesioni: Rete Romana di Solidarietà con il Popolo palestinese; Gruppo BDS Roma; Per non dimenticare Gaza; Un ponte per…; Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese; Freedom Flotilla Italia; Partito dei Comunisti italiani.



Fonte:
 

Italeñas e INSIEME PER LO IUS SOLI

INSIEME PER LO IUS SOLI (hashtag #proiussoli)


comunicato stampa 


Italeñas

David Chierchini, Matteo Keffer, Davide Morandini
Italy, 2013 6'
Sinossi Italeñas unisce le storie di Melina e Domenica. Melina è una ragazza diciannovenne nata in Italia cui è stata rifiutata la cittadinanza perché è stata in Ecuador (il paese di origine dei suoi genitori) per meno di un anno quando ne aveva quattro. Melina e suo padre Omero hanno contattato Domenica, una giornalista peruviana che vive in Italia da 22 anni e si occupa di tematiche legate all'immigrazione. In una trasmissione radiofonica Domenica racconta la storia di Melina e parla dell'iniquità della legge italiana sulla cittadinanza. Un’ingiustizia parallela a quella che anche Domenica subisce, giornalista in Italia da anni, non può diventare direttrice di una testata perchè cittadina straniera.
è possibile sostenere l'iniziativa "Insieme per lo Ius Soli" diffondendo il video di Italeñas su blog e social network
Scheda Tecnica Fotografia: Matteo Keffer
Montaggio: Guido M. Coscino
Musiche: Gianmarco De Candia
prodotto con il sostegno di Open Society Foundations
con il patrocinio di Comitato Italiano per Unicef

chiediamo a tutti di aderire all’iniziativa, diffondendo il video di Italeñas su siti, blog, facebook e twitter, e utilizzando il semplice claim comune INSIEME PER LO IUS SOLI (hashtag #proiussoli) ed il logo dell'iniziativa.


Fonte:

venerdì 17 maggio 2013

Iniziative a Roma per la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia

Iniziative per la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia
16/May/2013

La giornata contro l’omofobia e la transfobia rimane nel nostro paese di scottante attualità perché le persone lesbiche, gay, bisessuali e trans sono ancora prive di diritti e di tutele e subiscono quotidianamente discriminazioni, violenze, aggressioni, bullismo e mobbing.
Una condizione aggravata dalla incapacità delle isituzioni di offrire risposte adeguate e politiche coerenti di lotta a ogni tipo di discriminazione.
Per questo motivo il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli coglie questa occasione per ricordare le tante vittime di omofobia e transfobia e per sensibilizzare al problema, con una particolare attenzione al mondo della scuola e della formazione e un occhio a quelle realtà, come quella di tanti Paesi africani, dove le persone omosessuali e trans subiscono ancor più forti persecuzioni sociali e legali.
Di seguito le iniziative che organizziamo o alle quali  prendiamo parte:- in occasione del 17 maggio il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli lancia un video di contrasto a omofobia e transfobia e in ricordo di tutte le vittime.
Il video sarà lanciato in giornata e presentato durante la serata di Muccassassina.
- alle ore 10 presso la Biblioteca del Senato la Ministra per le Pari Opportunità, Josefa Idem, incontra le associazioni lgbtq;
- dalle ore 11.00 alle ore 13.00 Amnesty International e il Circolo Mario Mieli si confronteranno sul tema del bullismo omotransfobico con gli studenti del Liceo Orazio. Durante l’evento saranno presentati lavori degli studenti e la ricerca sul bullismo nelle scuole condotta dal Circolo
- alle ore 14.30 saremo al sit in di protesta contro omofobia e transfobia , convocato da varie Associazioni lgbtq, davanti all’Ambasciata d’Uganda,  in Viale Giulio Cesare, 71
- alle ore 16:30 saremo ospiti dell’ISSR Istituto Statale per Sordi di Roma in occasione dell’evento “Segni di Cinema” – Via Nomentana 54/56  – ingresso libero www.issr.it
-  alle ore 16.30 incontro/confronto sul tema degli Stermini Dimenticati, promosso dall’Opera Nomadi – Via Aldo Manunzio 91 (zona Testaccio);
- in serata Muccassassina ospita Amnesty International per lanciare assieme un’azione di denuncia sulla gravità di omofobia e tranfobia nei paesi africani.
- sabato 18 maggio alle ore 18, presso il circolo ANPI Roma “Ragazze della Resistenza”, “La Mia Resistenza”, incontro con Andrea Maccarrone, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli.
Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli

Andrea MaccarronePresidente 3297488791
Uffico Stampa 3487708437


Fonte:

mercoledì 15 maggio 2013

"C'ERA UNA VOLTA LA PALESTINA": ANCHE IN ITALIA SI CELEBRA LA NAKBA

 


 

Il 15 maggio di ogni anno il popolo palestinese della diaspora commemora la 'catastrofe' del 1948: le violenze, le distruzioni e l’espulsione forzata di oltre 800 mila persone dalla propria terra, in seguito alla proclamazione dello Stato di Israele. Anche a Roma un’iniziativa per non dimenticare. 




di Cecilia Dalla Negra 

Al-Nakbah in arabo, significa "catastrofe", e si potrebbe utilizzare per descrivere le calamità naturali. Come i terremoti o gli uragani, che arrivano all’improvviso, spazzando via tutto quanto è caro e conosciuto. Fenomeni inaspettati, capaci di distruggere una casa, sradicare un albero, spazzare via un intero villaggio.
In Palestina, Al-Nakbah è una giornata, e insieme un ricordo lungo 65 anni. 
Sul calendario la data è quella del 15 maggio 1948, il giorno seguente alla proclamazione dello Stato di Israele: quando ebbe inizio quello che da più parti viene erroneamente definito "l’esodo" della popolazione palestinese, ma che fu in realtà un’espulsione forzata, scandita al ritmo di massacri, abitazioni date alle fiamme, villaggi rasi al suolo e oggi scomparsi dalle carte geografiche di chi, con la forza, si impadronì di una terra che non era "senza un popolo". 
C’era una volta la Palestina, abitata da 1 milione e 400 mila persone distribuite in 1300 fra piccole città e villaggi rurali.
E c’erano le milizie sioniste, che dai primi insediamenti coloniali costruiti già nel corso del lungo mandato Britannico, si mossero per espellere quante più persone era possibile, in vista della spartizione territoriale che di lì a poco sarebbe avvenuta.
Quella che avrebbe dovuto vedere la nascita di due Stati, uno dei quali ancora oggi attende di essere riconosciuto dalla comunità internazionale. 
A partire dal 15 maggio del ‘48 oltre 800 mila palestinesi furono cacciati dalle proprie terre: 9 le città completamente cancellate, oltre 500 i villaggi distrutti.
Gli episodi di violenza si moltiplicarono rapidamente: dal massacro di Deir Yassin contare il numero delle vittime non è stato più possibile. Si stima che possano essere state circa 15mila, cui vanno ad aggiungersi le migliaia di profughi costretti a cercare rifugio nei vicini paesi arabi, in cui sono sorti campi di fortuna divenuti negli anni la loro casa. 
A distanza di 65 anni da quel giorno i rifugiati palestinesi vivono ancora in quei campi, mentre Israele si è impadronito del 78% del territorio della Palestina storica, a discapito di quel 55% che le Nazioni Unite gli avevano assegnato.
Nel restante 22%, nel quale sarebbe dovuto sorgere lo Stato palestinese, è ancora oggi in vigore un assedio (sulla Striscia di Gaza) e un regime di occupazione militare, che ha assunto il controllo di gran parte della Cisgiordania, attraverso un sistema di apartheid articolato in insediamenti coloniali, strade riservate ai soli cittadini ebrei, e un Muro che ha annesso ulteriore territorio. 
Sui terreni espropriati ai palestinesi attraverso ordini militari sono stati costruiti in questi anni 140 insediamenti - illegali secondo il diritto internazionale - nei quali vivono e lavorano 650 mila coloni.
Il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, sancito dalla risoluzione Onu 194, non è mai stato rispettato. 
Anche per questo la Palestina e la sua 'catastrofe' restano un ricordo vivo nel cuore di chi oggi vive in diaspora, che commemorerà la giornata del 15 maggio come ogni anno.
Tanti gli eventi previsti nelle città italiane: il principale a Roma, organizzato dalla Comunità Palestinese locale (e promosso da Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese, Rete italiana ISM, Assopace Italia e Ingegneria senza Frontiere).
Una serata che si svolgerà nel quartiere di san Lorenzo, nella quale si alterneranno musiche, letture e spettacoli teatrali, oltre agli interventi degli attivisti e dei giovani palestinesi del Children and Youth Center del campo profughi di Shatila (Beirut), in questi giorni a Roma per un progetto di scambio culturale organizzato dall’Associazione per la Pace.
Testimonianze, danze tradizionali e cibo palestinese, per commemorare insieme la Nakba e ricordare una Palestina che c’era, e c’è ancora. 

(In foto/ La locandina dell’evento romano, realizzata da Ilaria Vescovo che ringraziamo per la gentile concessione) 

14 maggio 2013 


Fonte:

http://www.osservatorioiraq.it/cera-una-volta-la-palestina-anche-in-italia-si-celebra-la-nakba



domenica 5 maggio 2013

Bobby Sands: una storia di disciplina, dignità ed unità


Scritto da 

 "Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato." da Il diario di Bobby Sands
“Discipline, dignity and unity”. Disciplina, dignità ed unità. Così titolava il numero di An Phoblacht (mensile pubblicato dal partito Sinn Féin in Irlanda ed il cui titolo significa “La Repubblica”) di domenica 3 maggio 1981. La disciplina, la dignità e l'unità a cui ci si riferiva erano quelle dei militanti dell'IRA rinchiusi da anni nel carcere di alta sicurezza di Long Kesh, vicino a Belfast, dove a lungo sono stati vittime di violenze ed atroci torture. Il gruppo di detenuti nel marzo dello stesso anno aveva preso la decisione, guidati da Bobby Sands, di iniziare uno sciopero della fame che li avrebbe condotti alla morte nel caso il Primo Ministro della Gran Bretagna, una Margaret Thatcher eletta da poco al suo primo mandato, non avesse riconosciuto loro lo status di prigionieri politici.
Bobby Sands, Ufficiale Comandante dei prigionieri dell'IRA detenuti a Long Kesh, ed i suoi compagni dal momento in cui furono rinchiusi nel blocco H (riservato ai militanti dell'IRA) avevano richiesto di essere riconosciuti come prigionieri politici: la lotta che stavano combattendo, assieme ad altri migliaia e migliaia di persone, era una lotta di liberazione e di riscatto dai soprusi che la popolazione irlandese era costretta a subire da parte degli unionisti fedeli alla Corona di Sua Maestà nell'Ulster. Ad una netta disuguaglianza sociale ed economica che divideva cattolici da protestanti, si aggiunsero discriminazioni civili (ad esempio sul diritto di voto) e violenze. Il tutto, ricordiamocelo, con ancora aperta la ferita della separazione dell'Ulster dal resto dell'Irlanda.
La loro richiesta, quindi, era semplicemente quella di veder riconosciuta la propria incarcerazione come fatto politico e non come semplice punizione. Questo status che venne fortemente negato dal Governo britannico: avrebbe significato dare legittimità alla battaglia dell'IRA e riconoscere l'esistenza di disuguaglianze e discriminazioni. I prigionieri si organizzarono quindi portando avanti una serie di proteste: si rifiutarono inizialmente di indossare le divise del carcere non essendo, appunto, carcerati come gli altri, ed in seguito di lavarsi. Queste forme di protesta non riuscirono a smuovere minimamente la posizione di Margaret Thatcher. I prigionieri decisero quindi di passare allo sciopero della fame. Dobbiamo precisare, per comprendere a pieno la loro lotta, che lo sciopero della fame è considerato da coloro che si battono per un'Irlanda unita e repubblicana un gesto pieno di significato: rimanda alla Great Famine, durata dal 1845 al 1852 circa e durante la quale migliaia e migliaia di irlandesi morirono di stenti ed emigrarono. Non fu una carestia vera e propria: un fungo particolare distrusse quasi totalmente le piantagioni di patate, alimento principale per la popolazione povera (in quasi totalità cattolica), mentre navi mercantili britanniche continuavano a depredare l'isola per i portare avanti i proprio affari.
La scelta di lasciarsi morire dignitosamente di stenti presa dal gruppo di detenuti si ricollegava quindi alla storia dell'indipendenza irlandese e serviva a ribadire il motivo per il quale si trovavano incarcerati.
Così, il primo giorno di marzo del 1981 iniziò la staffetta: il primo ad iniziare lo sciopero fu proprio Bobby Sands e alla sua morte seguirono gli altri, con disciplina, dignità ed unità.
La lotta dei prigionieri del Blocco H ricevette attenzione non solo dagli abitanti di Irlanda e Regno Unito ma da tutto il mondo. Bobby Sands fu addirittura eletto deputato nel Parlamento nella circoscrizione di Fermanagh – South Tyrone, senza riuscire ovviamente a prendere il proprio posto.

Bobby Sands morì il 5 maggio del 1981, dopo sessantasei giorni senza cibo. La sua condotta fu di esempio e diede la forza a tutti e nove i prigionieri che intrapresero lo sciopero dopo di lui.
La sua è una storia di una coerenza e di un coraggio che lasciano senza parole. L'amore per il proprio Paese, per la propria storia e per la propria libertà, mai conosciuta veramente, che animavano Bobby e gli altri ragazzi sono gli stessi che oggi spingono i prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane ad intraprendere la stessa forma di protesta. Dopo gli altri prigionieri che avevano cominciato a rifiutare il cibo lo scorso inverno, l'ultimo è stato Samer al Issawi, che ha interrotto il suo sciopero, avendo raggiunto, un accordo col governo, lo scorso 23 aprile.
Se è vero che quello di indipendenza irlandese è un movimento molto peculiare, per i successi ottenuti dalle sue organizzazioni (IRA e Sinn Féin), per la sua matrice apertamente socialista e per il livello di radicamento che ha sempre avuto, da una parte è facile tracciare una linea rossa che unisce i guerriglieri dell'IRA ai militanti indipendentisti palestinesi a quelli del PKK curdo. E questo significa che qualcosa da imparare da Bobby Sands e gli altri che lo hanno preceduto ce lo abbiamo anche noi: disciplina, dignità ed unità.


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