Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


martedì 20 dicembre 2011

INFO DA NENA NEWS

LACRIMOGENI ISRAELIANI, ARMA LETALE

I candelotti di gas lacrimogeno sono diventati strumento di morte dei soldati israeliani contro i manifestanti alle proteste pacifiche in Cisgiordania. Rilasciano sostanze letali e vengono utilizzati come veri e propri proiettili.

Fonte:

http://nena-news.globalist.it/?p=15450


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SIRIA ALLE URNE MENTRE NEL PAESE SI COMBATTE

Le opposizioni chiedono il boicottaggio del voto per il rinnovo dei consigli municipali e insistono con la campagna di disobbidienza civile. Continuano i combattimenti tra esercito e disertori. Decine di morti, tra soldati e civili, negli ultimi tre giorni

Fonte:

http://nena-news.globalist.it/?p=15417

Giuseppe Uva

http://baruda.files.wordpress.com/2010/03/beppo-uva.jpg 


Giuseppe Uva: la violenza è a sfondo sessuale

di Valentina Perniciaro

22 marzo 2010

Emergono nuove circostanze che gettano una luce ancora più inquietante sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo di 43 anni morto il 14 giugno del 2008 nell’ospedale di Varese dopo un pestaggio subito nella caserma dei carabinieri.
Sembra che tra lui e uno dei militi che lo avevano fermato la notte precedente ci fossero degli screzi personali legati a una donna. Alberto Biggiogero condotto in caserma insieme ad Uva, e che racconta di aver sentito le grida atroci dell’amico provenire dalla stanza dove era stato rinchiuso tanto da chiamare il centralino del 118 per chiedere un intervento (circostanza che ha trovato piena conferma dalla registrazione della telefonata e dai successivi contatti del 118 con la caserma), ha sostenuto in un’intervista che Uva «aveva avuto una relazione con la moglie di un carabiniere e questo, in seguito, aveva promesso di fargliela pagare». Biggiogero non sa chi fosse questa donna, ma la sera del fermo per schiamazzi notturni accadde qualcosa di molto simile a quanto paventato dall’amico. Nella dettagliata denuncia presentata alla procura di Varese, Biggiogero descrive la scena: «Un carabiniere si avvicina a noi con uno sguardo stravolto urlando “Uva, cercavo proprio te, questa notte te la faccio pagare!”», quindi avrebbe cominciato a spintonarlo e picchiarlo per poi spingerlo insieme con altri colleghi in una delle volanti accorse. Insomma, stando alle parole del testimone, il movente del brutale pestaggio continuato in caserma e finito in tragedia avrebbe potuto essere quello del forte risentimento personale nutrito da un esponente dell’Arma che avrebbe coinvolto altri suoi colleghi.
La presenza in passato di uno screzio con i carabinieri, sempre per questioni di donne (Uva era incensurato), viene confermato anche dalla sorella dell’uomo, Lucia. D’altronde la descrizione del corpo martoriato di Uva, in particolare le tracce di sangue sul retro dei pantaloni, la scomparsa degli slip, il sangue attorno ai testicoli e alla zona anale, lasciano supporre il ricorso a sevizie di natura sessuale compatibili col movente indicato. L’avvocato Anselmo, legale della famiglia, è più prudente e preferisce procedere con metodo: «Basterebbe poter consultare il traffico delle chiamate in uscita e in entrata sull’utenza del cellulare di Uva per accertare la verità». Per questo nei prossimi giorni depositerà una memoria avanzando diverse richieste per la riapertura delle indagini, tra cui la riesumazione della salma affinché venga realizzata una nuova autopsia finalizzata a nuovi accertamenti medico-legali sulla natura delle ecchimosi e dei lividi raffigurati nelle foto e la presenza di eventuali fratture e altri traumi.
Nel frattempo il procuratore capo di Varese, Maurizio Grigo, ha rivendicato «il corretto operato dei colleghi titolari del procedimento». In un comunicato ha reso noto che «il 30 settembre 2009 la dottoressa Sara Arduini ha aperto un nuovo procedimento proprio per verificare le nuove accuse della famiglia e le dichiarazioni rese da Alberto Biggiogero ed accertare ulteriori ipotesi di determinismo sull’accadimento».

Non vi sarebbero per il momento persone iscritte nel fascicolo degli indagati, ma a detta del procuratore «sono state espletate ulteriori attività istruttorie e altre ne verranno svolte, nel caso con la possibile partecipazione dei difensori». Per quanto riguarda, invece, il procedimento per omicidio colposo nei confronti dei due medici del reparto di psichiatria dell’ospedale di Varese che diedero assistenza a Uva durante il ricovero, il procuratore ha sottolineato che «si è in attesa della fissazione della prima udienza preliminare». A ventuno mesi dalla morte di Giuseppe Uva cominciano a trovare conferma molti elementi che smentiscono la versione ufficiale fornita dalle autorità. Tuttavia numerose domande attendono ancora risposta, tra queste il numero dei militi dell’Arma e degli agenti della polizia di Stato presenti nella caserma la notte tra il 13 e 14 giugno e perché questi non sono mai stati ascoltati.

Fonte:

http://baruda.net/2010/03/22/giuseppe-uva-la-violenza-e-a-sfondo-sessuale/

Stefano Cucchi, le foto shock


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novembre 1, 2009


La denuncia dei familiari del detenuto morto nel centro clinico penitenziario del Pertini:
«Chi ha ridotto così nostro figlio Stefano?»


Checchino Antonini

Liberazione 30 ottobre 2009

«Ciao papà». L’ultimo abbraccio di Stefano suo padre se lo ricorderà per sempre. In tribunale, a piazzale Clodio. Il ragazzo in manette e quattro carabinieri intorno. Impossibile dirsi altro che un ciao. Però Stefano aveva già la faccia gonfia ma ancora si reggeva in piedi. Tanto che quando è stata pronunciata l’ultima parola sulla sua permanenza in carcere ha dato un calcio stizzito alla seggiola. Succedeva due settimane fa, sarebbe morto dopo cinque giorni al repartino del Pertini, il padiglione penitenziario. In galera per una ventina di grammi d’erba. Ma se perfino i carabinieri, la notte prima, avevano rassicurato sua madre che era poca roba e che magari tornava subito per i domiciliari! Anche quella notte camminava sulle sue gambe e il viso era pulito, senza i segni delle botte. Il proibizionismo è il primo ingrediente della pozione mortale che ha ammazzato Stefano Cucchi, magrissimo trentunenne che faceva il geometra nello studio di famiglia, che soffriva d’epilessia e a cui hanno sequestrato, assieme alle sostanze, le pasticche salvavita di Rivotril. Ieri i familiari e l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso del caso Aldrovandi, hanno preso parte a una conferenza stampa, promossa da Luigi Manconi, e affollata di parlamentari e cronisti a Palazzo Madama. Nel dossier consegnato ai giornalisti le foto choc scattate dopo l’autopsia perché alla famiglia è stato negato dal pm di riprendere il corpo durante il primo esame. L’ennesima porta in faccia dopo giorni passati in attesa di un permesso per visitare quel figlio sparito nell’ospedale-bunker. E senza mai poter parlare coi medici. Il direttore sanitario del Pertini trasecola. Spiega che non è mai accaduto che i familiari di un detenuto restassero così tanto tempo senza notizie. «Non c’è bisogno di alcuna autorizzazione». Da mezzogiorno alle 14 i parenti possono parlare con i dottori. A meno che gli agenti di custodia non abbiano fatto muro. I familiari confermano di aver chiesto ripetutamente di parlare con i medici. La polizia penitenziaria si lamenta dell’immagine negativa che gli deriverebbe da questo caso ma non fa nulla per scalfirla. Il dirigente di un sindacato, il sindacato Sappe, si limita a dire che la collega che ebbe a che fare con i Cucchi avrebbe detto loro che il repartino funzionava come un carcere. Ma perché negare un colloquio con i medici? Il dossier è preciso: la domenica, alla richiesta di sapere come stesse Cucchi, il piantone rinvia i genitori al giorno dopo. A mezzogiorno del lunedì stessa scena. Dopo una vana attesa viene negato l’incontro con i medici perché senza permesso del pm. Così pure ventiquattr’ore dopo. Il permesso per la visita a Stefano arriverà solo il mercoledì, sarà valido per il giorno successivo. Ma Stefano muore all’alba. Da parte loro, i sanitari si dicono stupiti dal sopraggiungere della morte ma insistono sull’immagine di un detenuto che rifiutava le cure e che dicono di «non avere avuto modo di vederlo in viso in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia». Perché Stefano era invisibile? L’opacità di certe istituzioni totali è un altro ingrediente del veleno che ha ucciso Stefano. Ma il più potente degli elementi del mix potrebbero essere state le botte, che gli hanno devastato la faccia, fatto uscire un occhio dall’orbita, fratturato una mascella, spezzato la schiena in due punti, ferito le gambe. Aveva sangue nella vescica e in un polmone. I genitori e la sorella Ilaria fanno una catena di telefonate ai parenti: «Non guardate i tg, ci sono le foto di Stefano morto». Anche la sorella Ilaria si rifiuta di prendere il dossier ma crede che quelle immagini servano a contrastare l’invisibilità a cui è stato condannato un ragazzo che pesava 43 chili prima di entrare in una caserma dei carabinieri della periferia est di Roma e 37 quando è morto cinque giorni dopo. «Non è un’inchiesta difficile – spiega Patrizio Gonnella di Antigone – ma la velocità sarà decisiva. Troppe volte le lungaggini hanno bruciato la giustizia. Facciamola subito quest’inchiesta e facciamola trasparente. E le forze dell’ordine non siano ostaggio dello spirito di corpo, per una volta». Da quel quadrante di Roma, intanto, giungono segnalazioni sui metodi “spregiudicati” delle squadre antidroga negli interrogatori e nelle perquisizioni. Si tratta di racconti piuttosto circostanziati che segnalano, in particolare, la pratica sistematica di far firmare verbali aggiustati. Uno stuolo di parlamentari bipartisan fà passerella per annunciare missioni ispettive ma finora non l’ha fatte nessuno. Lucidamente Bonino e Perina dichiarano che è in gioco la credibilità delle istituzioni. Qualcuno tira in ballo il ministro della difesa La Russa. E’ lui che potrebbe riferire sull’operato dei carabinieri, due in divisa e tre in borghese, che arrestarono Stefano e fermarono un suo amico in un parco di Cinecittà. Perché da Regina Coeli sono piuttosto netti: quel ragazzo era già malconcio quando è arrivato e fu spedito immediatamente al pronto soccorso. Ma al Fatebenefratelli, ed è un altro mistero, Stefano firmò verso mezzanotte del venerdì per tornare in cella anziché farsi i 25 giorni di ricovro che gli erano stati prescritti. L’avvocato Anselmo chiede di acquisire al più presto le foto ufficiali dell’autopsia e prevede tempi lunghi per gli esami che dovranno stabilire le cause della morte. Il pm non entra nei particolari ma gli preme far sapere che accertamenti sono scattati fin dal primo momento. E che avrebbe iniziato a indagare sulle modalità del fermo.

Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2009/11/01/stefano-cucchi-le-foto-shock/


Saverio Saltarelli

Scheda a cura di Alfredo Simone


Milano, 12 dicembre 1970. Quel pomeriggio nel centro di Milano erano in programma quattro manifestazioni. La prima, da via Conservatorio a piazza del Duomo, era stata indetta dall'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia) per protestare contro le condanne a morte inflitte ad alcuni militanti baschi dal regime franchista al termine di un processo svoltosi a Burgos in Spagna. La seconda era un presidio antifascista promosso dal Movimento studentesco nella zona circostante all'università Statale di via Festa del Perdono. La terza, un comizio in piazza del Duomo organizzato dai circoli anarchici in occasione del primo anniversario della strage di piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli, ucciso innocente nei locali della questura di Milano. La quarta, un'adunata in piazza San Carlo dei gruppi del neofascismo cittadino legati al Msi.
Di queste quattro iniziative le ultime due erano state vietate dal questore per "motivi d'ordine pubblico.
Al termine del comizio gli anarchici danno vita a un corteo che viene caricato alle spalle dalla polizia agli ordini del vicequestore Vittoria e sospinto verso l’Università Statale presidiata dal Movimento Studentesco. Nel frattempo alcuni squadristi lanciano molotov contro la sede dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi fascisti si muovono verso la Statale. Proseguono le cariche. Gli studenti difendono la loro postazione mentre la polizia cerca di rompere i cordoni di protezione.
Nel corso degli scontri in Via Larga lo studente Saverio Saltarelli, di 23 anni, viene ucciso da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d'uomo; quel giorno infatti, il tiro a segno venne praticato largamente sia dalla PS che dai carabinieri e ciò è testimoniato da numerose persone e da documenti fotografici. Il pubblicista Giuseppe Carpi riporta ferite da armi da fuoco.
Le prime versioni ufficiali sulla morte di Saltarelli parlarono di “malore” e poi di “collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, si ammise che il cuore di Saltarelli fu spaccato da un “artificio lacrimogeno”.
L’inchiesta fu caratterizzata dall’”ostruzionismo continuo e il sottile bizantinismo fondato su manipolazioni procedurali” da parte di organi giudiziari e di polizia – come si legge nell’ordinanza istruttoria – ma grazie all’impegno del movimento, insieme ad avvocati e giornalisti democratici, si chiuse con l’emissione di sei avvisi di reato.
Nel 1976 il capitano di PS Alberto Antonetto, comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la non menzione. Il capitano dei carabinieri Antonio Chirivì (oggi comandante dei Vigili Urbani di Milano) e un sottufficiale furono indiziati di reato per il ferimento del pubblicista.
Poco più di un anno prima, il 27 ottobre 1969, a Pisa in circostanze analoghe aveva trovato la morte lo studente Cesare Pardini. In seguito ad una manifestazione antifascista contro il regime dei colonnelli greci, gruppi sparsi di squadristi aggrediscono a più riprese cittadini antifascisti isolati senza che la polizia intervenga. Quest'ultima si fa viva solo quando la popolazione, sindaco in testa, decide di protestare energicamente. Le forze dell'ordine attaccano un corteo di alcune migliaia di giovani che si dirigono verso il quartiere di S.Martino. Nel corso degli scontri, che durano fino a notte, lo studente universitario Cesare Pardini, di 22 anni, viene ucciso da un candelotto lacrimogeno sparatogli contro dalla polizia.

Fonte:

http://www.reti-invisibili.net/saveriosaltarelli/


La strage di Stato

Nota editoriale

La strage di piazza Fontana ha cambiato la storia d'Italia. Su questo non esiste praticamente difformità di opinione tra nessuno dei principali o secondari soggetti politici, osservatori, politologi, storici attendibili o contafrottole di bassa lega. Le bombe esplose il 12 dicembre inaugurarono la “strategia delle stragi”, prolungatasi fino al 1980 – quella con il bilancio più alto di vittime, il 2 agosto, alla stazione di Bologna. Tutte incontrovertibilmente stragi di Stato, ovvero stragi compiute da uomini facenti parte direttamente degli apparati più “coperti” dello Stato, oppure da fascisti da loro personalmente organizzati, indirizzati, finanziati, protetti – senza alcuna eccezione – fino al momento di andare in tipografia con questa nuova edizione.
Il libro La strage di Stato ha a sua volta cambiato la storia di questo paese. Non la “mentalità della sinistra”, ma proprio la Storia in senso stretto. Ha infatti impedito che la strage di piazza Fontana raggiungesse il suo scopo: far scattare un “riflesso d'ordine” nel paese, chiudere il biennio rosso '68-'69, rinchiudere nuovamente gli studenti nel ghetto delle scuole e gli operai nell'inferno delle fabbriche, senza più resistenze, contestazioni, antagonismo.
Come è potuto riuscire un libretto scritto da 15 anonimi compagni qualsiasi, alcuni dei quali allora praticamente bambini (con il metro attuale), a fare tanto?
Con l'inchiesta, attenta e non indulgente alle facili suggestioni. Una controinchiesta, più precisamente.
Ma andiamo con ordine.
Lo scopo politico della strage di Milano poteva essere realizzato soltanto se tutta l'Italia fosse rimasta convinta che i responsabili fossero alcuni di quegli “estremisti di sinistra” che quotidianamente attraversavano in corteo le strade della penisola. I più deboli tra quegli “estremisti” – sul piano politico, delle alleanze o anche solo nell'immaginario sociale – erano gli anarchici. Loro – fu deciso nelle segrete stanze dei palazzi governativi e di quelli della cospirazione governante – dovevano essere indicati come i responsabili di una mattanza tanto truce quanto ingiustificabile. Non un’azione di guerriglia, per quanto poco comprensibile potesse essere. Una strage casuale, invece, indifferente nella scelta delle vittime. C'è un legame di continuità – ma anche una decisa rottura – con la strage di Portella delle Ginestre, compiuta il primo maggio del '47. Quella infatti aveva preso di mira una manifestazione sindacale, “i comunisti” in festa sotto le bandiere rosse. Troppo facile individuarne i mandanti politici. A Milano nel '69 si prova a rovesciare le parti vittima-carnefice, ma ad esclusivo beneficio dell'immaginario popolare.
Il gioco, si diceva, non riesce grazie alla resistenza del movimento degli studenti, che istintivamente non accetta l’idea stessa che gli anarchici possano essere responsabili di una strage del genere. Ma un ruolo enorme, decisivo, va al movimento operaio, che fin dal primo momento si slega dalla tutela idiota del Pci – altrettanto immediatamente aggregatosi, tramite il proprio quotidiano, l'Unità, al coro dei reazionari che gridavano al “mostro Valpreda”.
Il gruppo di compagni che ha redatto questo libro, giorno dopo giorno, dà corpo alla convinzione di tanti. La strage è di Stato. E lo provano proprio smontando pezzo pezzo l'"inchiesta" poliziesca che per mano del commissario Calabresi, del questore Guida e del capo della squadra politica, Allegra, si erano indirizzate "a colpo sicuro" sugli anarchici.
L'altro elemento che scombina il “piano” di incriminazione di Valpreda e compagni è la morte di Giuseppe Pinelli all'interno dalla questura di Milano. Per giustificare questa morte gli “inquirenti” milanesi fanno ricorso a una massa di “giustificazioni ad hoc” che, nel loro insieme, compongono un quadro senza senso, una massa di contraddizioni che è da sola una ammissione di colpevolezza. Smagliature nella trama della “verità di Stato” che doveva seppellire gli anarchici – e con loro il '68-'69 – sotto l'infamia e la condanna popolare. Dentro queste smagliature gli autori della controinchiesta infilano il robusto cuneo dell'intelligenza politicamente orientata ma niente affatto cieca o preconcetta. Fino a smontare completamente la versione della polizia sia in merito alla strage di piazza Fontana, sia alla morte di Pinelli. I due fatti stanno insieme, indissolubilmente. Se gli anarchici sono innocenti, la polizia è colpevole per la morte di Pinelli. E anche per la strage (sa chi sono i responsabili, o chi l'ha ordinata, ma si muove consapevolmente e volontariamente all'interno dello stesso “disegno criminoso”, indirizzando le indagini nella direzione voluta da chi ha compiuto la strage).
Di qui non si esce. La versione finale della procura di Milano sulla morte di Giuseppe Pinelli (un “malore attivo”; non proprio un suicidio, ma quasi) è un monumento all'impunità dei funzionari dello Stato, all'ipocrisia del potere, alla mai abbastanza riconosciuta dipendenza della magistratura dal potere politico. Il fatto che l'archiviazione delle indagini sulla morte di Pinelli porti la firma di Gerardo D'Ambrosio è la chiusura di un cerchio – logico e politico -, non un “incidente di percorso”. Certo, oltre D’Ambrosio, alcuni altri “santi” dell‘iconografia ufficiale escono male da queste pagine. Lo stesso Calabresi, credibilmente raggiunto da un attentato di sinistra, e Occorsio, ucciso dal neofascista Concutelli, non fanno una gran figura di “democratici”. Ma questo è un problema di chi nel “doppio Stato” crede. Non degli antagonisti.
La controinchiesta non si limita a demolire quella poliziesca. Va un attimo più in là, individuando nei fascisti i possibili “manovali” di una strage decisa “nelle alte sfere”. È straordinario come in questa autentica inchiesta non venga mai smarrito il senso della realtà, della misura, l'attenzione alla verità per come è.
Questo, infatti, non è un libro dietrologico. Non ricostruisce fatti trascegliendo solo gli avvenimenti che possono far comodo alla versione che si intende sostenere. Non chiude gli occhi di fronte alla violenza dicendo – cioè mentendo – che “la violenza è solo fascista”. Sa vedere e distinguere la violenza dei fascisti, quella dello Stato e anche quella del movimento antagonista. Se c'è conflitto – sembra banale dirlo, ma a molti suona oggi quasi come un'eresia – i colpi si prendono, ma si danno anche. Questo libro non ha insomma nulla a che spartire con quella subcultura della “teoria del complotto universale” fiorita negli anni successivi. Gli autori non cadono mai nella trappola della teoria del “doppio Stato”, cara ai dietrologi (pseudo-storici) di ascendenza Pci che si sono, al massimo, limitati a definire le stragi come semplicemente fasciste. Non credono insomma che in Italia sia mai esistito uno “Stato buono” che conviveva conflittualmente con quello “cattivo”. Lo Stato era ed è soltanto uno: l'apparato (i servizi, la polizia, i carabinieri, la magistratura, ecc.) non si muove indipendentemente dal potere politico. Ma lo Stato non è neppure la riproduzione organizzata delle molteplici presenze politiche in parlamento. Esistono anche nell'apparato i “sinceri democratici” o semplicemente i funzionati onesti. Ma la controinchiesta svela senza possibilità di errore come i secondi vengano sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con le finalità dell'azione generale dell'apparato.
Senza teoria del “doppio Stato” non ci può essere dietrologia. La dimostrazione di una simile affermazione sta tutta nel fatto che quasi quattro anni di governo di centrosinistra (la stessa formula in vigore nel '69, ma con in più una fetta consistente dell'ex Pci) e un ministro dell'interno ex "comunista" non hanno fatto uscire dagli archivi una sola notizia in più sulle stragi e i loro autori. Quando i dietrologi sono andati al governo, insomma, la verità sulle stragi è rimasta occultata esattamente come prima. Il che dimostra non solo la loro malafede, ma l'inattendibilità stessa della “teoria”. In questo senso La strage di Stato è un libro sull'irriformabilità democratica dello Stato, quanto meno di questo paese, sul suo consistere reazionario indipendentemente dal succedersi di governi che se ne servono senza mai metterlo in discussione.
Senza illusioni su una sempre invisibile “parte buona dello Stato”, insomma, ci può invece essere la capacità di vedere le cose come stanno. È questa inchiesta che porta per la prima volta alla ribalta della notorietà nomi che diventeranno tristemente famosi nei decenni successivi: Sindona, Marcinkus, Rauti e tanti altri che ricorreranno come una litanìa in tutti gli scandali a sfondo golpistico tra i '70 e gli '80.
Dopo trent'anni le stragi sono ancora e sempre “impunite”. È un'espressione ormai consunta. Perché mai lo Stato dovrebbe punire se stesso per quello che ha fatto? Perché dovrebbe, se i movimenti che lo misero in crisi, e per la cui repressione la strategia delle stragi prese corpo, non sono più sulla scena politica? Perché dovrebbe criticarsi, se i suoi più accesi critici hanno percorso in pochi anni la via del “pentimento” e l'approdo al liberismo più selvaggio, al bellicismo senza remore, alla distruzione sistematica delle residue garanzie della forza lavoro?
Al contrario, quanti si sono opposti allo Stato stragista – qualcuno anche armi alla mano – sono stati tutti e più che duramente “puniti”. E oltre duecento prigionieri politici di sinistra, e altrettanti esuli, a vent’anni dai fatti, stanno ancora lì a dimostrarlo. Come non mettere a confronto la raffica di assoluzioni nei processi per piazza Fontana, Brescia, l'Italicus, la stessa stazione di Bologna, e i ben trentadue ergastoli dati – e scontati – per il sequestro di Aldo Moro? Come non vedere che i Merlino, i Delle Chiaie, i Tilgher sono tuttora personaggi politicamente attivi, protetti, assistiti, senza aver praticamente mai conosciuto la galera? L'evoluzione degli avvenimenti a partire dal '69 non lascia molti dubbi. Al di là delle diverse teorie e progetti politici dei diversi gruppi armati di sinistra negli anni '70, è storicamente certo – evidente, diremmo – che la straordinaria partecipazione quantitativa alle organizzazioni armate di sinistra trova una delle sue più forti ragioni proprio nella reazione allo Stato delle stragi.
Un libro, dunque, non per “ricordare”. Leggere La strage di Stato serve a capire l'oggi, da dove viene questo paese, da quale storia sorge il presente, di quali infamie sia capace il potere pur di conservarsi. Un libro, ma soprattutto un metodo. Che non è l’esercizio della “memoria” – costa moltissimo e dura sempre troppo poco – ma un modo di guardare il presente. Una diffidenza vigile, una convinzione non contingente nelle proprie ragioni, un’interrogarsi costante. Guardare con gli occhi bene aperti, non credere alle favole dei media, imparare a distinguere sempre (tra il compagno ingenuamente estremista e l'agente provocatore infiltrato, per esempio!). Perché l'antagonismo ha bisogno di intelligenza, soprattutto. Di “rabbia” è fin troppo pieno questo schifo di mondo.

Odradek

INFO DA NENA NEWS

CISGIORDANIA, MORTO GIOVANE FERITO A NABI SALEH

Mustafa Tamini e' spirato in ospedale. Era stato ferito ieri alla testa da un candelotto lacrimogeno sparato dai soldati israeliani. Nuovi raid aerei su Gaza, 5 i morti da mercoledi'.

http://nena-news.globalist.it/?p=15405

KAIROS: I CRISTIANI SONO PALESTINESI NON MINORANZA

A due anni dal lancio del documento "Kairos Palestine", firmato dalle chiese palestinesi, il movimento è cresciuto in numero e coscienza politica. Accrescendo gli scambi con il movimento di solidarietà internazionale e in particolare con il Sudafrica.

http://nena-news.globalist.it/?p=15398

GAZA: SALE A TRE BILANCIO MORTI RAID AEREI ISRAELE

La scorsa notte un missile ha ucciso un anziano e ferito sette bambini. Qualche ora prima una «esecuzione mirata» aveva ucciso due palestinesi Sette razzi lanciati da Gaza verso il Neghev. Tensione forte anche a Gerusalemme.

MICHELE GIORGIO

Gaza, 09 dicembre 2011, Nena News – Si aggrava a Gaza il bilancio dell’escalation seguita ad una cosoddetta “esecuzione mirata” di due palestinesi compiuta ieri dall’aviazione israeliana. In uno dei tre nuovi raid aerei lanciati durante la notte, un missile ha colpito la casa di una famiglia palestinese, vicina a un centro di addestramento delle forze di sicurezza di Hamas, uccidendo un anziano e ferendo sette bambini, alcuni dei quali gravemente. L’esercito israeliano ha confermato due degli gli attacchi aerei, spiegando che sono stati effettuati in risposta al lancio da Gaza di sette razzi verso il Neghev, dove sono caduti senza provocare danni o vittime. Ieri pomeriggio Israele aveva colpito, probabilmente con un drone, un’automobile a Gaza city con a bordo due palestinesi, Issam e Subhi al Batsh, zio e nipote, appartenenti alle “Brigate Ayman Joda”, L’esplosione aveva causato anche il ferimento di quattro passanti palestinesi, tra i quali un ragazzo. Israele ha giustificato quell’attacco con «l’urgenza» di annientare una «cellula armata» che pianificava attacchi nel suo territorio. Issam al Batsh, sempre secondo il portavoce militare, in passato aveva organizzato altri attentati.  Ma una escalation ben peggiore è nell’aria. Israele da mesi segnala di essere pronto a lanciare un’operazione militare ad ampio raggio. Tra venti giorni peraltro cade il terzo anniversario dell’inizio dell’offensiva israeliana «Piombo fuso» costata la vita a 1.400 palestinesi di Gaza, tra i quali centinaia di civili.
Da tempo non si registrava in pieno centro a Gaza city un «omicidio mirato», ossia l’esecuzione extragiudiziale di miliziani palestinesi. Un attacco che spesso coinvolge persone innocenti. Le esplosioni certo non fanno differenza tra uomini armati e civili e, specie negli anni passati, quando questo tipo di uccisioni erano frequenti, non pochi passanti palestinesi (tra i quali donne e bambini), sono stati uccisi dai missili sganciati dall’aviazione israeliana contro «obiettivi mirati». Molti altri sono rimasti feriti. Ieri, ad esempio, la deflagrazione ha danneggiato tre autobus dai quali poco prima erano scesi gruppi di studenti. Il governo di Hamas, attraverso il suo portavoce Taher Nunu, ha chiesto l’intervento delle Nazioni Unite e dell’Egitto per «bloccare le aggressioni israeliane». Da parte sua Israele sostiene di aver annientato una «cellula terroristica che pianificava attacchi nel suo territorio». Uno dei due uccisi, Issam Batsh, 45 anni, era accusato dall’esercito israeliano di aver organizzato  l’attentato kamikaze di Eilat nel gennaio del 2007 in cui morirono tre persone. Batch, sempre secondo il portavoce militare, aveva preso parte anche alla pianificazione degli attacchi dello scorso agosto lungo il confine con l’Egitto, nei quali sono rimasti uccisi nove israeliani, alcuni dei quali civili.
L’accaduto potrebbe innescare una escaltion dopo la calma relativa delle ultime settimane, mentre la tensione sale anche a Gerusalemme Est. Il Comune (israeliano) ha annunciato che, nonostante le proteste delle autorità islamiche, farà smantellare la passerella di legno che dall’area del Muro del Pianto porta alla Spianata delle moschee di Al-Aqsa e della Roccia. Esponenti islamici hanno respinto le motivazioni fornite sino ad oggi dalle autorità comunali e denunciato un presunto tentativo di danneggiare l’area delle moschee. I lavori dovrebbero cominciare nel giro di qualche giorno e si temono incidenti in una zona da sempre ad alta tensione, teatro negli anni passati di violenze e spargimenti di sangue. Nel settembre 2000 furono proprio i morti sulla Spianata delle Moschee, dopo una provocatoria «passeggiata» nel sito islamico fatta dall’ex premier israeliano Ariel Sharon, ad innescare la Seconda Intifada palestinese. Incombe peraltro una ulteriore espansione della colonizzazione israeliana a Gerusalemme Est. Sempre il Comune ieri ha dato il via all’espansione della colonia ebraica di Maaleh David, costruita negli anni Novanta nel quartiere palestinese di Ras el-Amud, ai piedi del Monte degli Ulivi, nel cuore della zona araba di Gerusalemme araba occupata da Israele nel 1967. Vi si insedieranno altre 17 famiglie di coloni. Nena News

Fonte:

http://nena-news.globalist.it/?p=15371

GAZA, MISSILE ISRAELIANO CONTRO UN'AUTO: DUE PALESTINESI CARBONIZZATI, ALTRI FERITI

Scritto il 2011-12-08 in News

Gaza - Speciale InfoPal. Un missile è stato sganciato poche ore fa da un aereo da guerra israeliano contro un'automobile nella Strscia di Gaza.
In via 'Omar al-Mukhtar, nel centro cittadino di Gaza City, un'auto palestinese è stata centrata dal missile.
Sono due le vittime palestinesi.
Adham Abu Salmiyah, portavoce dei servizi medici e del soccorso locale, ha informato dell'arrivo all'ospedale ash-Shifa' di due corpi carbonizzati.
Il nostro corrispondente da Gaza riporta che le vittime sono i due fratelli: Subhi 'Ala' e 'Essam al-Batash, residenti nel quartiere at-Tuffah, ad est di Gaza.
Un numero di cittadini ancora da precisare sono rimasti feriti.
L'automobile saltata in aria dal missile lanciato dell'Aviazione israeliana era un modello "Peugeot".
Resta alta l'allerta a Gaza, molti luoghi sono stati evacuati, e si temono altri attacchi aerei da parte israeliana.

Fonte:

http://www.infopal.it/leggi.php?id=20064

SINDACO TEL AVIV: CACCIAMO VIA I MIGRANTI

Sono circa 1200 i migranti africani che arrivano dal Sinai ogni mese. Una presenza sempre meno accettata dalle autorità israeliane, che per arginare l' "invasione" hanno accelerato i lavori di costruzione della barriera lungo il confine con l'Egitto.

GIORGIA GRIFONI

Roma, 7 dicembre 2011, Nena News. Il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, li chiama “infiltrati”. Per il premier Benjamin Netanyahu sono invece “una minaccia per il tessuto economico, sociale e demografico su cui si basa lo stato di Israele”. Il primo cittadino della capitale dichiara allarmato che “stanno cambiando il volto di interi quartieri”, mentre il presidente del Consiglio assicura la determinazione nel “difendere i nostri confini e l’esistenza dei nostri cittadini”. Si punta il dito di nuovo contro gli immigrati, in Israele. Non quelli ebrei che compiono l’aliya per tornare “a casa”, ai quali viene fornito un “Klita” (cestino) contenente tutti i benefici –dal lavoro, alla casa, ai corsi di ebraico- che un ebreo che immigra in Israele si merita. Ma quelli che vengono dall’Africa – principalmente Eritrea, Sudan e Congo- e varcano la frontiera con il Sinai da “rifugiati”. E che presto saranno tenuti fuori dai confini da una recinzione lunga 240 km.
E’ di sabato la lettera che il sindaco di Tel Aviv ha inviato al suo primo ministro, chiedendo un meeting urgente sui migranti stranieri in Israele.  Netanyahu ha risposto repentinamente dedicando la riunione di gabinetto di domenica 4 dicembre alla questione.  “Alcuni giorni fa ho visitato Eilat – ha esordito il premier davanti agli altri ministri- e ho ascoltato il pianto dei residenti per una città inondata dagli infiltrati illegali. Bisogna stare lì ad ascoltare la disperazione delle madri, dei padri, dei titolari di aziende, i cui lavori sono stati portati via e che sentono che stanno perdendo la loro città”. Ha promesso due cose: il completamento della barriera di separazione tra il Sinai egiziano e il deserto del Negev entro un anno, e multe salate per quei datori di lavoro che impiegano manodopera immigrata illegalmente.
Secondo fonti governative, ogni mese in Israele entrerebbero illegalmente circa 1200 migranti. Spesso superstiti dei “campi della morte” del Sinai, vengono condotti in centri di detenzione come la prigione di Saharonim. Le autorità non si preoccupano di verificare lo status del profugo, sia esso richiedente asilo o meno. Il risultato è che, una volta rilasciata, la fiumana di migranti si riversa nelle grandi città israeliane senza diritti né identità. Sostituti – a partire dallo scoppio della seconda Intifada- dei Palestinesi nei lavori agricoli ed edili, i “clandestini” sono stati tollerati dalle autorità fino a quando il loro numero non ha cominciato a minacciare la preponderanza demografica ebraica.
Le stime indicano infatti che, dal 2007 a oggi, il numero degli emigrati israeliani continua a crescere rispetto ai nuovi immigrati ebrei, principalmente provenienti dalle ex-repubbliche sovietiche. Netanyahu ha specificato più volte che vuole “preservare una maggioranza ebraica, tale da assicurare a Israele il suo carattere ebraico”. E il suo ministro degli esteri, il leader del partito ultra-ortodosso Shas Eli Yishai ha più volte tentato di espellere intere famiglie di immigrati africani, non riuscendoci solo per interposizione delle associazioni per i diritti umani. Durante l’era Mubarak, Israele era solito rimandare al mittente molti dei rifugiati, che dall’Egitto venivano rispediti nei loro paesi d’origine. Ma ora che il fidato vicino non c’è più, la situazione si complica. Ed è qui che interviene la barriera di separazione dall’Egitto, che viene costruita al ritmo di 800 metri al giorno.
Secondo il comune di Tel Aviv, sarebbero circa 40mila i lavoratori migranti e 20mila i richiedenti asilo presenti in città. Vivono quasi tutti nel sud di Tel Aviv, tra il quartiere di Neva Sha’anan e il sobborgo di Hatikva. Zone che, secondo Huldai, stanno cambiando aspetto e vanno salvate. “L’anno scorso –spiega Shula Keshet, attivista israeliana residente a Neve Sha’anan- durante le celebrazioni per il centenario della fondazione di Tel Aviv, Huldai è venuto qui ed è rimasto scioccato. Ha detto che questo quartiere necessita di molti fondi. Ci ha dato un milione di shekel, con cui puoi riparare qualche marciapiede, mettere delle panchine e un paio di lampioni. Per i festeggiamenti, invece, ha stanziato 64 milioni. Poi quest’estate, quando ha smantellato tutte le tendopoli delle proteste, ha deciso di lasciare in piedi solo quelle di Hatikva e di Jaffa, perché c’erano dei barboni. Gli ho fatto notare come qui fosse la stessa cosa. Lui ha risposto: tra di voi ci sono anche rifugiati. E non ci sono ebrei”.
Con cadenza annuale gli immigrati vengono utilizzati dalle autorità israeliane come spauracchio quando, spiega Oscar Olivier, attivista congolese immigrato in Israele, “un politico non adempie alle proprie promesse”. Come Huldai -odiato dal movimento di protesta degli “indignados” per le sue controverse politiche urbanistiche- che cerca mobilitare gli israeliani che vivono nei quartieri poveri contro i migranti, attribuendo loro la colpa di un degrado che è dovuto, in realtà, all’indifferenza del Comune. Una municipalità che verrà rinnovata nel 2013, della quale Huldai ha già perso la maggioranza in consiglio comunale e dove rischia di non essere eletto per la quarta volta consecutiva.  Oppure un diversivo, come specifica l’attivista Nadav Franckovich, “perchè si devono coprire un po’ gli occhi all’opinione pubblica sulla legislazione anti-democratica proposta dal Governo. Una legislazione che delegittima le organizzazioni -tra le altre- che aiutano i rifugiati”. Nena News

Fonte:

http://nena-news.globalist.it/?p=15306

CARCERI ISRAELIANE DURE ANCHE PER MINORI PALESTINESI

Ogni anno circa 700 bambini palestinesi vengono arrestati e processati dalle autorità israeliane. Attualmente 164 sono detenuti, 35 di questi hanno meno di 14 anni.


ALTERNATIVE INFORMATION CENTER


Beit Sahour (Cisgiordania), 7 dicembre 2011, Nena News  – A settembre 2009, Israele ha istituito la Corte Minorile Militare. Due anni dopo, Israele ha adempiuto agli obblighi previsti dal diritto internazionale e ha innalzato la maggiore età nelle corti militari da 16 a 18 anni. Il cambiamento non ha portato a miglioramenti nella pratica e gli abusi contro i bambini palestinesi detenuti continuano.
Fin dall’inizio della Seconda Intifada nel settembre 2000, le autorita’ di occupazione hanno iniziato ad utilizzare gli ordini di detenzione amministrativa contro i bambini. Secondo la legge internazionale, questo tipo di fermo è permesso solo su scala molto limitata, specialmente nei confronti di minori. Ogni anno sono circa 700 i bambini dei Territori occupati arrestati dall’esercito israeliano e perseguiti in tribunale.
Al momento, 164 minori palestinesi sono prigionieri in Israele, la maggior parte di loro per aver tirato delle pietre. Sebbene sia proibito dalla legge israeliana detenere qualsiasi essere umano sotto i 14 anni, 35 dei bambini prigionieri hanno tra i 12 e i 13 anni. È allarmante che minori vengano arrestati sia in violazione della legge israeliana che quella internazionale. E quello che è ancora più preoccupante è il modo in cui i bambini vengono trattati durante l’arresto, l’interrogatorio e la detenzione.

Da tempo le Ong che monitorano il trattamento dei minori nelle carceri israeliane pubblicano rapporti sugli abusi mentali e fisici. In molti casi, i ragazzi palestinesi vengono arrestati nelle loro case durante la notte e portati via dai soldati senza poter essere accompagnati dai genitori. Allo stesso modo, gli interrogatori hanno luogo senza la famiglia né l’avvocato. Spesso trascorrono ore e giorni prima che vengano interrogati. Mentre aspettano l’interrogatorio, ai minori spesso sono negati bisogni primari come dormire, mangiare, bere o andare in bagno. Fonti palestinesi e internazionali denunciano che durante tutte le fasi dell’arresto, la violenza è comune: pugni, calci, schiaffi  e tirate di capelli. A ciò si aggiungono, affermano le stesse fonti, anche molestie di carattere sessuali
Un altro serio problema è dato dal fatto che non c’è alternativa alla custodia cautelare fino al termine delle procedure, secondo la legge militare applicata ai minori palestinesi detenuti. Di conseguenza, molti bambini confessano il crimine di cui sono accusati solo per evitare tempi più lunghi di detenzione. Le confessioni, che i minori sono costretti a firmare, sono spesso redatte in ebraico, una lingua che la maggior parte dei palestinesi non sa leggere.
Circa il 93% dei minori coinvolti nel lancio di pietre tra il 2005 e il 2010 è stato condannato alla prigione, elemento che dimostra che difficilmente vengono applicate punizioni alternative al carcere. La durata della detenzione varia, passando da pochi giorni fino ad oltre venti mesi. Una simile esperienza nuoce seriamente alla crescita di questi bambini: una volta rilasciati, la maggioranza degli ex prigionieri soffre di svariati problemi, sociali, finanziari ed emozionali.
Il maltrattamento dei bambini palestinesi nelle corti e nelle prigioni israeliane è costantemente ignorato. Manca anche la mera attenzione alle condizioni dei minori durante la prigionia, anche nell’attualità più ovvia: quando, ad ottobre di quest’anno, Gilad Shalit è stato liberato in cambio di 1.027 prigionieri palestinesi, nessuno ha parlato dei minori detenuti; né le autorità israeliane, né la comunità internazionale, né Hamas. Nena News


http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/11-aic-projects/3305-bambini-palestinesi-incarcerati-violazione-del-diritto-internazionale

Benedetto Petrone

"Fu il nostro battesimo di sangue" - Il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, ha ricordato il giovane militante della federazione giovanile comunista, Benny Petrone, che fu ucciso il 28 novembre 1977

Fonte: La Gazzetta del Mezzogiorno on line del 28 novembre 2006

BARI - «Oggi Bari riconosce un punto aspro della verità di quegli anni Settanta che furono non solo anni di violenza, ma anche di libertà, in cui una generazione si diede uno splendido appuntamento col futuro, coltivò accanitamente le proprie utopie. E le utopie di Benedetto Petrone vivono ancora nei progetti politici della città». Con queste parole il presidente della Regione, Nichi Vendola, ha ricordato nel corso della cerimonia di intitolazione di una via cittadina che si è tenuta oggi in municipio, il giovane militante della federazione giovanile comunista che fu ucciso il 28 novembre 1977 da un militante del Fronte della gioventù poi suicidatosi in carcere nell'84.
Poco prima della cerimonia in municipio, in piazza prefettura era avvenuta la deposizione di tre corone donate da Regione Puglia, Comune di Bari e Rifondazione comunista sotto la lapide che ricorda l'assassinio a opera di una «squadraccia missina».
«Benedetto - ha detto Vendola - è un figlio di questa città ucciso in anni turbolenti, ma anche ucciso dal sentimento di oblio che si è cercato di far prevalere per troppo tempo. La sua utopia - ha aggiunto - era difendere Bari vecchia da operazioni di speculazione urbana, dall'idea che i residenti dovessero essere deportati a ridosso delle nuove zone industriali, perchè il borgo antico potesse diventare una cartolina illustrata e un salotto buono per la Bari bene». «Per me che venivo dalla provincia - ha proseguito Vendola - i compagni di Bari erano un po' dei miti. Ricordo nei cortei Benedetto: si faceva notare subito non perchè fosse claudicante ma perchè aveva una bellezza particolare, ribelle, e una voce molto forte».
«Per la mia generazione - ha detto ancora - l'omicidio di Benedetto Petrone è stata un'immensa tragedia, quello fu il nostro battesimo di sangue. Era uno di noi, uno della nostra età, un compagno che ammiravamo e a cui volevamo bene, che cadeva in quella maniera vigliacca, ucciso con quella dinamica, il giorno dopo che a Bari si era segnalata la presenza di un leader nazionale dell'estrema destra che impunemente girava l'Italia predicando lo scontro fisico».
Vendola ha poi ricostruito l'episodio: «Da una sezione molto accreditata di un partito che sarà importante nella storia di questa città uscì una squadra organizzata che con le proprie catene e le proprie lame cercò di aggredire a freddo un gruppo di compagni e rimase sull'asfalto il corpo di Benedetto. Se chiudo gli occhi - ha aggiunto - mi rivedo in Piazza Prefettura il giorno dopo, vedo la rabbia di quei compagni dell'estrema sinistra che assaltarono la sede della Cisnal, risento nelle orecchie il pianto e le parole al microfono di Franco Giordano, allora segretario provinciale del Pci, che diceva: non fate sciocchezze. Ricordo il lancio di lacrimogeni sulla folla inerme, la fuga, la rabbia e i funerali che furono il rito di un dolore giovanissimo, una pagina che doveva servire a scrivere per noi la trasformazione della rabbia non in violenza cieca ma in impegno politico». In quei casi - ha concluso - «se non governi le emozioni e non le indirizzi su un binario tranquillo possono trasportarti dalla parte sbagliata. La nostra generazione pianse Benedetto ma scelse la strada giusta, quella di coltivare il ricordo, la memoria, e di vivere la politica come una partita della vita contro la morte. Benedetto l'abbiamo perduto, ma cerchiamo di ritrovarlo ogni giorno nelle cose concrete che facciamo».

Fonte:

http://www.reti-invisibili.net/benedettopetrone/

Benedetto Petrone