FABRIZIO PELLI
- Nasce a Reggio Emilia, l’11 luglio 1952
- Lavora come cameriere
- Milita nelle Brigate Rosse
- Viene arrestato a Pavia nel dicembre 1975
- Muore di leucemia nel carcere di San Vittore, Milano, l’8 agosto 1979
Documenti prodotti da organizzazioni armate
- Non ne sono stati prodotti, ma a Fabrizio Pelli vengono intitolate una Brigata e un’organizzazione armata a Salerno
Documenti prodotti da gruppi sociali
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Comitato di lotta del Campo dell’Asinara, “Onore al compagno Fabrizio Pelli” in: Controinformazione 16, Milano 1979
“Per ogni comunista la morte è un evento naturale e Fabrizio Pelli era comunista combattente.
Anche il mare più incurabile per un rivoluzionario è occasione di lotta e
Fabrizio, con il suo comportamento, lo ha dimostrato a tutta la sua
classe e ai suoi nemici, in quest’ultima, solitaria battaglia.
Fabrizio
Pelli _Questa foto aveva le sbarre, quelle che lo hanno tenuto
costretto fino alla sua morte: sono state tolto, almeno così è LIBERO_
Invano i corvi borghesi hanno atteso un suo cenno di debolezza per
piegarlo, per ricondurlo al compromesso dentro l’ordine
dell’oppressione. A nulla è servito tenerlo isolato fino all’ultimo
istante, privato della posta e della vicinanza dei suoi compagni,
negargli – come neppure il fascismo osava fare – di trascorrere le
ultime ore di visita in compagnia dei suoi familiari, a casa sua.
La speranza delle iene è andata delusa di fronte ad un comunista che
aveva maturato a fondo un principio essenziale: uomini che si rifiutano
di interrompere la loro lotta, o vincono o muoiono, invece di perdere o
morire!
Il Tribunale di Milano, così sollecito a concedere la libertà
provvisoria per motivi di salute ai fascisti assassini di proletari come
Braggion, non è che l’ultimo anello di una catena di infamie,
cominciata proprio qui, all’Asinara, dove il medico Silvetti si guardò
bene dal rilevare il reale stato di salute del compagno Fabrizio, quando
nell’estate dello scorso anno cominciò ad accusare i sintomi della
malattia.
I Campi di Trani, Fossombrone e Milano sono altrettanti anelli del suo
progressivo annientamento che medici e direttori hanno perseguito con
lucida e spietata determinazione in occulta armonia con i funzionari del
ministero di Grazia e Giustizia. E non vogliamo dimenticare, in questo
elenco di canaglie ancora viventi, carabinieri e poliziotti che hanno
sottoposto i familiari di Fabrizio alle perquisizioni più vili e che in
ogni modo hanno tramato per interrompere il proseguimento delle cure.
Noi proletari prigionieri del Campo dell’Asinara, che con Fabrizio
abbiamo lottato e che, anche per il suo contributo, abbiamo rafforzato
la nostra identità e la nostra organizzazione, oggi diciamo, senza
alcuna retorica, che i suoi nemici sono anche i nostri, che i suoi
assassini non resteranno impuniti!
Onore al compagno Fabrizio Pelli!
Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”
Testimonianza al Progetto Memoria
- Renato Curcio, Roma 1994
“Ho conosciuto Fabrizio, Bicio per gli amici, nel 1969.
Aveva 17 anni ma, a Reggio Emilia, già da tempo aveva fatto parlare di
sé. “Per un colpo di flobert indirizzato ai glutei di un politico del
partito liberale”, mi dissero, tra l’ammirato e l’ironico i suoi
compagni di allora.
Non aveva ancora 18 anni quando venne a Milano con tutte le sue
curiosità per la metropoli. Ma ciò che veramente lo spingeva, in verità
era una cosa sola: l’impegno militante a fianco di studenti e operai, di
chiunque in qualsiasi modo lottasse, per cambiare le cose.
Si sentiva un po’ anarchico ma il fascino della rivoluzione bolscevica
era su di lui così potente che trascorreva infinite notti a leggere,
oltre ai testi canonici, qualsiasi saggio, opuscolo, libello che in
qualche modo potesse arricchire le sue conoscenze. E se qualcuno per
caso citava un’opera che gli era sfuggita, s’infuriava, non sembrandogli
lì per lì possibile che quell’opera esistesse veramente. Se non era a
volantinare, in qualche manifestazione o a organizzare qualche azione di
lotta potevi star sicure che il suo tempo era speso in letture.
Politiche, s’intende. Una dedizione totale, senza mezze misure. Senza
concedere a se stesso nemmeno gli spazi dell’esplorazione della vita.
Quando entrò nella lotta armata, nel 1971, se non era il più giovane
certo si contendeva il primato. Proprio in relazione alla sua
giovanissima età, con altri due compagni ci chiedemmo se fosse il caso
di accoglierlo nella vita clandestina che, per ovvie ragioni, non è tra
le più permissive. Ma a Bicio il carattere non faceva difetto e non ne
volle sapere di tutti gli argomenti che gli mettevamo davanti per
dissuaderlo.
Era molto orgoglioso e un po’ testardo. Capitava così che non accettasse
di buon grado che altri gli insegnassero qualcosa. Ricordo che una
volta si infuriò con un militante: non ritenendolo adeguatamente colto
in dottrina marxista, gli negava il diritto di insegnarli a guidare
l’automobile. L’altro, naturalmente, lo mollò giù dalla macchina, in
piena campagna, dicendogli “Beh, ora vado a studiare, tu raggiungimi a
piedi!”
Quando, nel 1975, dopo l’evasione da Casale, lo incontrai di nuovo, a
Milano, Fabrizio si era innamorato. Nella sua vita era la prima volta.
E il calore di questa nuova e magnifica esperienza scioglieva
tumultuosamente tutte le sue rigidezze. Della sua proverbiale
rigorosità, in quei giorni non rimase traccia. A metà della riunione più
delicata, lui si alzava e borbottava “Scusate…”, in pieno candore se ne
andava a telefonare. Alla vita clandestina il suo stato di grazia causò
qualche problema, ma alla sua vita personale certo fece un gran bene.
Ho appreso la notizia del suo arresto alla radio, pochi giorni prima di
essere a mia volta arrestato. L’ultimo nostro incontro, dunque, avvenne
in carcere, all’Asinara. Alcune divergenze politiche che poco prima del
suo arresto lo avevano portato a distaccarsi dalle Brigate Rosse non
avevano in alcun modo intaccato il nostro affetto. I giorni trascorsi
nella stessa cella, al bunker dell’isola, furono così pieni di
confidenze sulla nostra vita privata. Giocammo a scacchi –costruiti con
la mollica di pane – ridendocela a più non posso sul nostro incontro
qualche anno prima, con quel gioco. Nel tempo della clandestinità, a
Torino. Sull’onda del duello tra Carpov e Fisher Bicio aveva deciso di
“sapere tutto” sugli scacchi, proprio come qualche anno prima aveva
fatto con la rivoluzione bolscevica. S’era quindi comperato una
scacchiera , tanti libri, riviste e s’era sprofondato nello studio.
Venne finalmente il giorno della prima prova. Si sentiva pronto e col
sorriso diceva: adesso ti faccio vedere… Ci provai col fatidico “scacco
del barbiere”: scacco matto in pochissime mosse. E la sua inesperienza
ebbe la peggio. Come al solito andò su tutte le furie e per un bel po’
di tempo di scacchi preferimmo non parlarne più.
All’Asinara mi disse anche dei malori che poco dopo lo portarono,
rapidamente, alla morte. Ma di cosa effettivamente si trattasse, in quel
carcere senza alcuna servizio medico, non fu possibile stabilirlo. Non
si lamentò mai delle mancate cure: per lui era scontato. E anche questo,
ricordando Bicio, non può essere più dimenticato”.
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