Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


sabato 28 settembre 2013

Pisa: flash mob per la liberazione dei 5 cubani


Sabato, 28 Settembre 2013 13:34

Scritto da  Rete dei Comunisti - Pisa

Pisa: flash mob per la liberazione dei 5 cubani

Farà tappa anche a Pisa la Campagna internazionale per la liberazione dei cinque antiterroristi cubani prigionieri da quindici anni nelle carceri statunitensi. Gerardo Hernandez, Ramon Labanino, René Gonzales, Antonio Guerrero e Fernando Gonzales furono arrestati dall’FBI a Miami nel settembre 1998: indagavano sugli attentati perpetrati contro Cuba da terroristi confessi e ancora a piede libero, come Orlando Bosch e Posada Carriles, operanti a Miami e sul libro paga della Cia.
Nel dicembre 2001 furono condannati a pesantissime pene detentive. Oggi sono ancora in carcere: si tratta di un processo e di condanne di natura esclusivamente politica. I cinque patrioti o eroi, noti in tal modo a Cuba e nel mondo, hanno agito per impedire il terrorismo, e sono in carcere da quindici anni nel Paese che ha dichiarato la guerra al terrorismo. Il premio Nobel per la pace Obama non si è discostato dalla linea dei suoi predecessori, e l’esistenza di Cuba continua ad essere presentata come una minaccia alla “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti.
La Campagna lanciata dal Comitato internazionale per la liberazione dei Cinque, ha visto negli ultimi mesi momenti importantissimi, come i cinque giorni di mobilitazioni a Washington, con la partecipazione di attivisti da tutto il mondo. La Rete dei Comunisti era presente a Washington ed è impegnata nella campagna nel nostro Paese.
Lunedì saremo in Piazza dei Miracoli alle 12.00 per esprimere il nostro sostegno incondizionato a Cuba e alla sua Rivoluzione, per la liberazione immediata dei Cinque antiterroristi, indossando tutti un nastro giallo, il simbolo di speranza scelto per la Campagna.
Invitiamo a partecipare al flash mob tutti gli antimperialisti e le persone solidali con Cuba!

Rete dei Comunisti - Pisa



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NO MUOS: OCCUPATA LA REGIONE SICILIA, OGGI IL CORTEO

Sabato, 28 Settembre 2013 14:20

Scritto da  Redazione Contropiano

No Muos: occupata la Regione Sicilia, oggi il corteo Alla vigilia del corteo di oggi i No Muos hanno occupato ieri la Sala d’Ercole a Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea Regionale della Sicilia. Una ventina di attivisti aderenti al movimento che protesta contro la militarizzazione del territorio di Niscemi e la costruzione di decine di mega antenne dannose per la salute si sono introdotti all’interno della sede istituzionale pagando il regolare biglietto e fingendosi normali turisti diretti alla Sala Palatina. 
Poi però gli attivisti hanno esposto degli striscioni dal balcone che dà su piazza Indipendenza, luogo dove oggi nel tardo pomeriggio si concluderà la manifestazione nazionale indetta dal Movimento No Muos.
Gli attivisti hanno poi trascorso la notte all’interno della Sala d'Ercole, l’aula consiliare, promettendo che non se ne andranno finché il governatore Crocetta non sospenderà i lavori per l’installazione delle antenne statunitensi in contrada Ulmo, nel comune di Niscemi, in provincia di Caltanissetta.




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lunedì 23 settembre 2013

PETIZIONE PER DIRE NO A SODASTREAM NELLE CASE DELL'ACQUA COMUNALI

22 Settembre 2013


Scrivi al comune di Longiano (Forlì-Cesena) perché non installi un erogatore pubblico dell'acqua con componentistica acquistata dalla multinazionale israeliana con sede in una colonia illegale nei Territori palestinesi occupati.
Sodastream è una multinazionale israeliana che trae profitto dall'occupazione, grazie al suo principale stabilimento produttivo costruito nella colonia illegale di Mishor Adumin, in territorio palestinese.
Cosa c'entra con il comune di Longiano? Dal 2011 la multinazionale possiede una filiale in Italia, a Tavullia. Vi produce gasatori per acqua e bevande e alcune componenti che finiscono in diverse case dell'acqua installate dai comuni romagnoli sul proprio territorio.
A Longiano l'amministrazione di centrosinistra, PD e Rifondazione Comunista, ha deciso di installare una casa dell'acqua in una frazione del comune. Le ditte impegnate nel progetto sono Adriatica Acque, il colosso dei servizi Hera SpA, Romagna Acque e Unica Reti. Da una piccola indagine è emerso che parte della componentistica degli erogatori che installano è acquistata da Sodastream Professional, braccio italiano di Sodastream.
La lista civica Aria Fresca, con il sostengo della campagna Stop Sodastream di BDS Italia, ha presentato una mozione per chiedere di fermare il progetto finché non venga garantita una soluzione alternativa che elimini i componenti di Sodastream, o il ricorso ad altri fornitori attivi sul mercato.
A un mese dal protocollo della mozione e dalla lettera che Stop Sodastream ha spedito al comune, nessuna risposta è giunta dal sindaco o dagli assessori.
Apprendiamo invece dalla stampa la loro volontà di proseguire imperterriti. Il sindaco Ermes Battistini definisce "poco importante" l'apporto di Sodastream e si sofferma piuttosto sui benefici che ne trarrà la frazione, trincerandosi dietro l'alibi dell'interesse pubblico e il parere favorevole del consiglio di quartiere.
Crediamo che sia vergognoso, e persino ipocrita per una amministrazione che si richiama a valori pacifisti e organizza iniziative sul tema della pace, ignorare le responsabilità di chi calpesta impunemente i diritti di un popolo.
Il prossimo consiglio comunale è convocato per 27 settembre 2013 e si voterà la mozione che chiede una moratoria sull'installazione.
Scrivi al comune di Longiano, alle ditte coinvolte e ai consiglieri provinciali e regionali per chiedere di tener fuori Sodastream dalle case dell'Acqua comunali.




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domenica 22 settembre 2013

Cinque anarchici uccisi. Le autorità parlano di incidente stradale. Per i loro compagni la verità è però un'altra.

 



 Da Il Manifesto, 9 agosto 2013

di Giuseppe Galzerano

Sono ancora tante le vicende della storia sociale e politica avvolte nel mistero, sulle quali si vorrebbe far calare per sempre l'oblio e il disinteresse. Una di queste viene riportata alla nostra attenzione e memoria dal libro di Nicoletta Orlandi Posti Il sangue politico (Editori Internazionali Riuniti, Roma, 2013, pag. 256, €. 16,90), che indaga sulla morte di cinque anarchici di Reggio Calabria e sulla scomparsa di un dossier con i risultati di una coraggiosa controinchiesta sull'attività dei fascisti in Calabria.
In un incidente stradale, che appare subito strano, la notte del 26 settembre 1970 sull'autostrada del sole, all'altezza di Ferentino, la mini morris gialla partita da Reggio Calabria viene schiacciata da un autotreno partito da Salerno. Tre degli occupanti della macchina, Gianni Aricò e la sua compagna tedesca Annelise Borth, Angelo Casile, Luigi Lo Celso e Franco Scordo, morirono sul colpo e due qualche giorno dopo. Il più «vecchio» ha 26 anni e la Borth sfiora i 18 anni ed è in attesa di un bambino. Aricò ha girato l'Europa in autostop e in Belgio ha realizzato un documentario sugli emigrati calabresi che lavorano nelle miniere. A Reggio hanno fondato il circolo anarchico «La Baracca» e per la loro
attività (volantinaggi, contestazione al film «Berretti verdi», manifestazione al porto per incitare i marinai all'obiezione di coscienza) vengono processati. Difesi gratuitamente dall'avvocato anarchico Placido la Torre di Messina sono assolti e al processo assiste Pietro Valpreda e altri anarchici venuti da Roma e dalla Calabria. In occasione degli attentati del dicembre 1969, Aricò, Borth e Casile vengono arrestati a Roma: interrogati dichiarano la loro totale estraneità e accusano i fascisti. Sua madre parte per Roma e chiede al Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica, di interessarsi del figlio, che sarà scarcerato dopo pochi giorni.
Il 22 luglio 1970 a Gioia Tauro la Freccia del Sud proveniente da Torino deraglia provocando sei morti e numerosi feriti. Gli anarchici reggini accorrono subito a soccorrere i feriti e nei giorni successivi vollero capire cos'era successo. Il questore esclude l'attentato parlando di uno sbullonamento tra due carrozze. In quei giorni Reggio è interessata da una rivolta capeggiata e promossa dai fascisti di Ciccio Franco (che aveva coniato il motto Boia chi molla) e dalla 'ndrangheta per la questione del capoluogo regionale, scelto dai politici a Catanzaro. Gli anarchici denunciano la strumentalizzazione fascista della rivolta e iniziano un lavoro di controinformazione sulla strage ferroviaria. Nei giorni dei «moti di Reggio capoluogo» fotografano i «forestieri» che
girano per la città. Tra loro, affermano, ci sono Junio Valerio Borghese ed altri personaggi della destra. Vengono minacciati con telefonate minatorie, pedinamenti, agguati e con l'assalto e la devastazione della sede.
A «inchiesta» conclusa spediscono il materiale all'anarchico romano Veraldo Rossi tramite il servizio postale, ma non verrà mai consegnato. Ne hanno però conservato copia, nascondendolo nella cuccia del cane. Decidono portare
direttamente alla sede romana del settimanale anarchico Umanità Nova la borsa con i documenti e fissano un appuntamento con l'avvocato Edoardo Di Giovanni, che sta preparando la seconda edizione del libro-denunzia La strage di Stato. Aricò dice alla madre: «Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l'Italia». Al padre di Scordo arriva la sera prima della partenza la telefonata di un amico, che lavora alla questura di Cosenza ed è in contatto con la polizia politica di Roma: «Se ci tiene a suo figlio, non lo faccia partire con gli anarchici. Li fermeremo».
Tra gli anarchici si rafforza la convinzione che sono stati uccisi in una strage camuffata da incidente stradale. Sul luogo dell'incidente non è rinvenuta nessuna borsa, nessuna cartella, nessuna foto, nessuna delle agende, dove gli anarchici hanno annotato nomi, fatti, date, luoghi e numeri di telefono. Sui verbali della Croce Rossa c'è scritto che i soccorsi giungono a mezzanotte. Sembra tutto normale. Invece no. Quella notte scatta il ritorno all'ora solare. Non erano trascorsi 30 minuti, ma un'ora e mezza, un tempo più che sufficiente per sottrarre il dossier e mascherare il pluriomicidio politico.
Per scoprire i lati oscuri di questo incidente - avvenuto proprio di fronte alla villa del comandante della X Mas e combattente della Repubblica di Salò e nello stesso luogo e con un incidente simile anni prima aveva perso la vita la moglie del principe nero - furono in tanti a mobilitarsi. A Salerno l'anarchico Giovanni Marini scopre che l'autista Aniello Alfonso e il proprietario Ruggero Aniello dell'autotreno, oltre che dipendenti di Valerio Borghese, sono iscritti al Msi. Proprio per questo Marini, dopo varie minacce, verrà aggredito dai fascisti di Salerno la sera del 7 luglio 1972: Franco Mastrogiovanni è accoltellato ma Marini, impossessatosi del coltello, uccide Carlo Falvella, per i cui funerali Giorgio Alimirante scende a Salerno.

Una lunga controinchiesta

Anche i fascisti parlano dell'incidente: l'avanguardista Carmine Dominici due anni dopo parla di omicidio e dieci anni dopo tre detenuti, Giuseppe Albanese, Giuseppe Sanzone e Walter Alborghetti, in un memoriale affermano che i 5 anarchici calabresi sono stati uccisi per ordine di Avanguardia Nazionale. Nel 1993 Albanese ribadì al giudice Guido Salvini che erano stati uccisi da una squadra di Valerio Borghese. Tonino Perna, cugino di Aricò, si batte per la riapertura delle indagini e chiede notizie sul dossier. La risposta del ministero dell'interno fu negativa e finora non è venuto fuori neanche un brandello di quei documenti e di quelle foto che avrebbero potuto far tremare l'Italia e per i quali morirono innocenti i cinque anarchici calabresi, ai quali il libro di Nicoletta Orlandi Posti rende omaggio riportando all'attenzione dell'opinione pubblica la vicenda degli anarchici calabresi. «Il loro sangue politico qui affiora di nuovo e continua a testimoniare», scrive Erri De Luca nella prefazione a questo libro, per il quale l'autrice ha esaminato un'immensa mole di carte giudiziarie, di cronache, di atti, di testimonianze sparpagliate e disunite e le ha messe insieme per chiedere verità e giustizia sulla morte degli anarchici calabresi.
                                                                                                          
Pubblicato in http://ilsanguepolitico.blogspot.it/2013/05/il-manifesto-9-agosto.html

 

ANKARA, ATTACCO A EDIFICIO POLIZIA. UN MORTO DOPO L'INSEGUIMENTO

Sabato 21 Settembre 2013 14:37 


altNella serata di ieri è stato attaccato ad Ankara un edificio della polizia turca. Due razzi sono partiti contro un palazzo adibito a sale per riunioni di polizia, causando alcuni danni materiali e nessun ferito. Ci sono volute pochissime ore per permettere alle forze di polizia turca di implementare una militarizzazione dell'area e effettuare una vera e propria caccia all'uomo, mentre si rincorrevano le voci di due persone che sono state viste allontanarsi di corsa nei pressi dell'edificio colpito.
Posti di blocco, unità cinofile e quant'altro, per cercare una vendetta e una punizione esemplare, mentre le varie agenzie di stampa battevano la notizia tirando in causa (ancor prima di conoscere l'identità dei due “sospettati”) un gruppo di sinistra -Dhkp-C – come l'autore dell'attacco. L'inseguimento nelle vie limitrofe da parte della polizia ha provocato la morte di uno dei due e il ferimento dell'altro.
Il pugno duro delle forze dell'ordine ha forse avuto l'effetto cercato ma l'uccisione di una persona sospettata si riconferma la prassi e la regola della gestione di vicende di questo tipo o simili. In un Paese come la Turchia, che sebbene non ci stupisce per la recrudescenza in campo repressivo, morire dopo un inseguimento da parte della polizia sembra non fare scalpore, mentre nelle strade, al di là dell'episodio isolato dell'attacco ai locali della polizia, continua a crescere un dissenso e un malessere sociale nei confronti del governo.



Fonte:

venerdì 20 settembre 2013

Un ex-albadorato: Fyssas era stato puntato

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Atene

Un ex-membro del battaglione d’assalto di Alba Dorata di Nikaia fornisce alcune informazioni sul modus operandi del gruppo. Dichiara che l’assassino di Fyssas, reo confesso, era il vice-comandante del battaglione e che il 34enne era stato puntato per la sua attività antifascista. L’ex membro di Alba Dorata rivela chi fa da guida al gruppo e quale deputato di Alba Dorata viene informato di ogni mossa, affinché dia al capo la “luce verde”.
“G. Patèlis ci diceva che dovevamo avere l’ok di Lagòs e che lui informava il capo. Se il capo dava l’ok, uscivamo in strada. Che si trattasse di fare delle scritte sui muri o di aggredire i pakistani, dovevano prima essere informati Patèlis e Lagòs”, sostiene l’ex membro di Alba Dorata.
Secondo lui, il battaglione d’assalto di Nikaia ha la gerarchia, la struttura e l’organizzazione di un’organizzazione criminale paramilitare. Racconta che la sua sede si trova negli uffici, da dove vengono impartiti gli ordini per gli attacchi contro gli stranieri e per le altre attività. È là che vengono custodite le armi, che vengono fatte sparire ogni volta che c’è un controllo da parte della polizia.
L’ex membro di Alba Dorata sostiene che le perquisizioni della polizia sono “concordate”, visto che un poliziotto della caserma di Nikaia è un albadorato e dà informazioni al nucleo di Alba Dorata, mentre si prende la responsabilità di “ripulire” chi viene colto in flagranza di reato.
Alle domande più specifiche sull’omicidio di Pavlos Fyssas risponde: “so che lo avevano preso di mira perché aveva delle canzoni antifasciste. In certi versi bestemmiava contro gli albadorati”.
Rispetto all’agguato realizzato quella sera dai membri di Alba Dorata e a chi potrebbe essere stato chiamato dalla caffetteria di via P.Tsaldari dice: “Patèlis! Tutti hanno il numero di telefono di Patèlis e chi ha fatto quella telefonata avrà sicuramente chiamato lui o qualcuno che lo avrebbe informato in seguito. Patèlis avrà avvisato Lagòs. E Lagòs poi Michaloliakos. Quando facevo parte del gruppo locale di Nikaia, ci avevano detto che funzionava così”.

Fonte: news.in

Traduzione di Atene Calling



martedì 17 settembre 2013

APPELLO PER LA COSTRUZIONE DI UNA CAMPAGNA NAZIONALE CONTRO LA REPRESSIONE E LA TORTURA DI STATO

 


Il caso Triaca e la continuità della tortura negli apparati repressivi di Stato.
Lo scorso 18 giugno la Corte d’appello di Perugia ha accolto l’istanza di revisione del processo che nel 1978 vide condannato per calunnia Enrico Triaca dopo che questi, arrestato il 17 maggio dello stesso anno nel corso delle indagini sul caso Moro, denunciò di aver subito torture fisiche e psicologiche fin dalle prime ore che seguirono la sua cattura. Il prossimo 15 ottobre, dunque, saranno chiamati a testimoniare personaggi chiave che hanno ricostruito o custodito le confidenze di Nicola Ciocia, alias “Professor De Tormentis” - capo della squadra di aguzzini alle dirette dipendenze del Ministero degli Interni, istituita per estorcere confessioni ai militanti delle Br nel pieno della guerra civile che si combatteva in Italia alla fine degli anni ’70. In calce a queste brevi righe abbiamo selezionato una piccola bibliografia che vuole essere in grado, seppur sommariamente, di ricostruire la vicenda di Enrico Triaca: l’obiettivo che ci prefiggiamo è, infatti, anche quello di riscostruire in maniera pubblica e collettiva una storia che è stata volutamente sepolta nel dimenticatoio della storia italiana per oltre 35 anni. Ciononostante, non è solo la vicenda di Triaca in sé a spingerci a scrivere e diffondere questo appello. Crediamo infatti che oggi, nei giorni in cui si fa forte nella sinistra antagonista la discussione pubblica sull’amnistia e sull’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento penale, sia doveroso non lasciare taciute le evidenti connessioni che legano la repressione di Stato odierna alla sistematica opera di distruzione, nei decenni ’70-’80, dei tentativi rivoluzionari e di tutte le esperienze politiche che portarono a un livello senza precedenti lo scontro di classe nell’Italia postbellica. Seppur con intensità differenti e direttamente proporzionali alle forze messe in campo dal movimento di classe, lo Stato ha agito una strategia di annientamento delle forze politiche e sociali che hanno provato a invertire e sovvertire i rapporti di forza nel nostro paese. Una strategia giocata senza esclusione di colpi, ricorrendo alla violenza politica e alla tortura, andando ben oltre i limiti consentiti dalle leggi “democratiche”, con buona pace della litania che ci propinano da decenni sulla “vittoria legale” dello Stato nella “guerra contro il terrorismo”. Il caso Triaca assume quindi una forte valenza simbolica, sineddotica: da un lato grimaldello per fare opera di memoria su quanto accaduto in Italia ai militanti politici tra il ’78 e l’82, dall’altro spiraglio per aprire un dibattito storicizzante sulle lotte degli anni’70, senza tabù e rischi di astrazioni decontestualizzanti volte a perimetrarne la portata e screditare con sommario arbitrio le esperienze rivoluzionarie che ne furono avanguardie.

La campagna che immaginiamo: vademecum per le lotte di oggi.
Proprio un’attenta analisi di questa linea di continuità nella repressione di Stato ci spinge oggi a prendere parola in questi termini, provando a inquadrare il fenomeno delle torture in un’ottica differente, di classe, capace di discernere il singolo episodio di sadismo delle forze dell’ordine da un disegno più ampio, studiato, calibrato sulla preoccupazione che le lotte sociali e politiche sono oggi in grado di destare nelle articolazioni nazionali del capitale. Testimone di questa nostra volontà è l’obiettivo che vediamo alla fine del processo che si sta istruendo: non una cieca volontà di risarcimento giudiziario (nonostante l’assoluzione di Triaca faccia parte del giusto risultato cui tende la campagna), ma una testimonianza politica che sia in grado di riportare alla luce del dibattito nazionale l’analisi delle strategie di Stato in termini di repressione e controrivoluzione preventiva. Le stesse sospensioni di diritto praticate nella caserma di Bolzaneto, nel 2001, sono figlie - siamo certi - di quella lunga e continua filiera repressiva che gli apparati di governo hanno messo a punto per esercitare non solo una certosina bonifica dell’insorgenza rivoluzionaria e di classe ma anche per perfezionare un sadico strumento di deterrenza preventiva. Con gli stessi scopi è stata negli anni varata una serie di provvedimenti - dai «braccetti della morte» dell’articolo 90 della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 (isolamento totale, divieto di corrispondenza, divieto di acquisto di libri e quotidiani), poi non rinnovato dalla metà degli anni ’80, al «regime di carcere duro» (un solo colloquio al mese attraverso un vetro divisore, censura della corrispondenza, una sola ora d’aria al giorno) previsto dall’articolo 41 bis della stessa legge e modificato nel 1992 - inizialmente diretti agli accusati per mafia e, in seguito, estesi ai militanti politici e ad altri detenuti. Pensati in chiave deterrente e terroristica, oltre ad essere veri e propri strumenti di “tortura raffinata”, essi mirano ad annientare (fisicamente e psicologicamente) i detenuti sottoposti a queste condizioni. Fare luce su ciò che incombe sul nostro passato è dunque il primo passaggio per avere chiaro quale deve essere il parametro con cui decifrare l’attuale stretta repressiva che i movimenti e le opzioni politiche antagoniste stanno subendo. Assumono così un senso ancor più profondo e chiaro le dure condanne per la giornata di piazza a Roma lo scorso 15 ottobre 2011, così come crediamo siano legate alla stessa logica di repressione preventiva le numerose carte che giacciono sui tribunali chiamati a criminalizzare le lotte per il diritto all’abitare come le lotte contro l’alta velocità, le battaglie sui luoghi di lavoro e quelle per la difesa dell’istruzione pubblica. Liberare gli anni ’70, favorirne un dibattito squisitamente politico, storicizzare il ciclo di lotte per cui oggi ancora qualcuno paga nella solitudine di una cella, crediamo siano i risultati cui mirare insieme. Contestualizzare all’oggi queste rotte di riflessione e legarle alle lotte contro il 41bis e l’ergastolo che molti detenuti politici hanno lanciato nel corso degli anni sono gli obiettivi che si pone questa specifica campagna, nella convinzione che senza una presa di coscienza collettiva su ciò che sono state la repressione e la tortura di Stato nei decenni passati non si può immaginare di affrontare con determinazione e forza d’animo le lotte che vogliamo costruire domani.

Verso l’udienza del 15 ottobre. Che fare?
Il tempo è galantuomo, e dopo 35 anni offre alla Corte d’appello di Perugia la possibilità di revisionare il processo che nel ’78 condannò Enrico Triaca a 1 anno e 4 mesi per calunnia. Ma il tempo è tiranno, si sa anche questo, e ci lascia un margine molto ristretto per ottimizzare le energie di tutte e tutti in questa campagna. Come primo step immaginavamo di poter sottoporre questo breve appello (i punti 1 e 2) a tutte le realtà, strutture e singolarità che vogliano impegnarsi in questa direzione; soggetti politici che condividano non solo la volontà di fare luce sul caso Triaca ma anche, e soprattutto, la necessità di chiarire quali furono le strategie di Stato che hanno oliato una macchina repressiva ancora oggi in funzione. A partire dall’inizio di settembre (lunedì 2), una volta che ogni soggettività avrà diffuso queste coordinate tra le proprie reti di contatti nazionali e non, vorremmo che tutti coloro che avranno sottoscritto l’appello e abbiano aderito alla costruzione della campagna formalizzino questo impegno nella costituzione di un comitato di scopo capace di tenere alta l’attenzione politica e mediatica sull’inizio del processo. Il futuro comitato, per il cui nome si pensava Comitato “La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio!”, si impegnerà a promuovere - attraverso l’autonoma condotta dei singoli aderenti - azioni, campagne di sensibilizzazione, interventi, segnalazioni e quant’altro sia utile all’implementare il dibattito in vista dell’udienza del 15 ottobre. Nella speranza e con l’auspicio di poter crescere giorno dopo giorno, firma dopo firma, valuteremo se dovessero esserci le forze per indire, nella giornata del 15 ottobre e a partire dalle ore 9, un presidio sotto la Corte d’appello di Perugia (Piazza Matteotti), in concomitanza con la prima (e forse più importante) udienza del nuovo processo, in cui verranno ascoltati i tre teste chiave (Nicola Rao, Matteo Indice e Salvatore Rino Genova. Per maggiore informazioni sui personaggi citati e il ruolo che ricoprono nella vicenda di Enrico Triaca rimandiamo alla bibliografia che segue).

COMITATO “LA TORTURA E’ DI STATO! ROMPIAMO IL SILENZIO!”

Settembre 2013

Prime adesioni:
Valerio Evangelisti (scrittore), Osservatorio sulla Repressione, Caterina Calia (avvocato), Cristiano Armati (Red Star Press), Collettivo Militant – Roma (Noi Saremo Tutto), Mensa Occupata – Napoli (NST), Insurgent City – Parma (NST), LP Gagarin 61 – Teramo (NST), Rete dei Comunisti, “Polvere da sparo” baruda.net (blog), Insorgenze (blog), La Scintilla – Bellinzona, Enrico Di Cola, Zaccaria Dale…

Bibliografia sul “caso Triaca”:

Progetto Memoria, Le torture affiorate, Sensibili alle foglie, 1998.

Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le BR. La storia mai raccontata, Sperling & Kupfer, 2011.






http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0482/sed0482.pdf - Resoconto stenografico delle sedute alla Camera del 22 e del 23 marzo 1982 “Interpellanze e interrogazioni sulle presunte violenze subite dai detenuti accusati di terrorismo”

http://legislature.camera.it/_dati/leg08/lavori/stenografici/sed0528/sed0528.pdf - Resoconto della seduta alla Camera del 6 luglio 1982 “Interpellanze e interrogazioni sull’arresto di cinque appartenenti alla polizia di stato”


https://www.youtube.com/watch?v=HqI1QPSqYWg - Intervista a Triaca e a Genova (in cui ammette la tortura) a "Chi l’ha visto?"


Fonte:

rompiamoilsilenzio.wix.com/home



Per info e adesioni:
rompiamoilsilenzio@autistici.org
 
rompiamoilsilenzio.wix.com/home

www.facebook.com/latorturaedistato















lunedì 16 settembre 2013

VALLE DEL GIORDANO, UN INTERO VILLAGGIO DEMOLITO

Stamattina i bulldozer israeliani hanno distrutto la comunità di Khirbet Makhool, 120 palestinesi rimasti senzatetto. Dal 2009 trasferiti quasi 4mila palestinesi.

lunedì 16 settembre 2013 11:16



dalla redazione

  Betlemme, 16 settembre 2013, Nena News - Un intero villaggio raso al suolo. È successo questa mattina, all'alba: i bulldozer militari israeliani hanno demolito Khirbet Makhool, comunità palestinese beduina nella Valle del Giordano, nel distretto di Tubas. Centoventi i residenti rimasti senza un tetto sopra le testa, dopo la distruzione delle loro abitazioni e delle strutture agricole del villaggio. Aref Daraghmed, sindaco delle comunità di al-Malih e al-Madarib, ha raccontato all'agenzia palestinese Ma'an News, che le autorità israeliane sono giunte sul posto senza prima inviare alcun ordine di demolizione:"Israele sta tentando di giudaizzare la Valle del Giordano - ha detto Daraghmed - e lo fa attraverso il trasferimento forzato della popolazione palestinese".

La distruzione del villaggio di Khirbet Makhool è solo l'ultima di una lunga serie di demolizioni nella Valle del Giordano, area sotto il controllo civile e militare israeliano, quasi completamente dichiarata "zona militare chiusa". Una politica implementata da tempo, che si accompagna al divieto per i residenti palestinesi di costruire qualsiasi tipo di struttura permanente: obiettivo finale è l'espansione delle colonie agricole israeliane e l'assunzione del totale controllo delle risorse naturali.

Secondo dati dell'agenzia delle Nazioni Unite OCHA, nella Valle del Giordano vivono oggi 60mila palestinesi, per lo più concentrati nella città di Gerico, l'unica in Area A (sotto il controllo civile e militare palestinese). A causa della politica israeliana di trasferimento forzato, oggi solo un quarto della popolazione palestinese vive in Area C, che copre l'87% dell'intera Valle del Giordano. Oltre 9.500 i coloni israeliani residenti in 37 insediamenti illegali.

Una simile politica è finita ad agosto nel mirino di Human Rights Watch, che ha fatto appello al governo di Tel Aviv perché interrompa subito le demolizioni illegali di abitazioni e strutture di proprietà palestinese. "Quando le forze militari israeliane demoliscono ripetutamente case nei Territori Occupati senza dimostrare che si tratta di un'azione necessaria a operazioni militari, si comprende che la sola ragione è costringere le famiglie a lasciare le proprie terre, un crimine di guerra - ha commentato Joe Stork, direttore di HRW Medio Oriente - La politica del processo di pace non rende meno illegali le demolizioni israeliane di case palestinesi".

Secondo il rapporto dell'organizzazione, nei primi otto mesi del 2013 sono già state distrutte 420 strutture e 716 persone sono state cacciate dalle loro terre e dalle loro comunità in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Dal 2009, data di insediamento del governo Netanyahu, secondo dati OCHA, le forze israeliane hanno costretto 3.799 palestinesi a lasciare le proprie case; nello stesso periodo, quasi 4.600 unità abitative per coloni sono state costruite negli insediamenti di Gerusalemme Est e Cisgiordania.

La giustificazione che Tel Aviv dà a tale politica è la mancanza di permessi di costruzione. Permessi quasi impossibili da ottenere: in oltre il 90% dei casi le autorità israeliane non concedono alle famiglie palestinesi il permesso di costruire in Area C, costringendole ad agire senza copertura legale e a restare in attesa di una prossima demolizione. Nena News.




Fonte:

Concerto per Aldrovandi, ecco il programma

Anche Marina Rei e Massimo Bubola suoneranno a Ferrara per ricordare Federico Aldrovandi a otto anni dall'omicidio. Continua la raccolta fondi.

lunedì 9 settembre 2013 17:07


 








Sabato 21 settembre 2013, dalle 16 in poi si terrà all'Ippodromo di Ferrara il concerto per commemorare Federico Aldrovandi, ucciso durante un violentissimo "controllo" di polizia, il 25 settembre di otto anni prima. Quattro agenti sono stati condannati in via definitiva per l'omicidio colposo e altri poliziotti sono sotto processo per i depistaggi innescati nei momenti successivi all'uccisione.

Suoneranno: I Nuovi Ranti, Dubby Dub, Hate the Nation, Massimo Bubola, Alessandro Fiori, Appino, Marina Rei, Majacovich, Strike. Continua la campagna di raccolta fondi.



Fonte:

Rostagno, il ricordo a 25 anni dall’omicidio tra un processo infinito e disinformazione



Di Leandro Perrotta | 1 settembre 2013

Sono passati venticinque anni dalla morte del sociologo, politico e giornalista, ucciso il 26 settembre 1988 a poca distanza dalla comunità Saman da lui fondata. E che per anni, in una delle ipotesi seguite per le indagini, è stata considerata come implicata nel delitto. Prima di arrivare al processo attuale e alla pista mafiosa. «Sono già 55 le udienze nel processo, che è complicatissimo e di cui nessuno parla», spiega il giornalista Lillo Venezia, che ieri, in un convegno alla Camera del lavoro di Catania, ha proposto la realizzazione di un centro di documentazione su Mauro Rostagno e il processo in corso a Trapani.


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 Sociologo, politico, giornalista: definire le tante anime di Mauro Rostagno, di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario dell’omicidio, non è mai stato semplice. Il convegno organizzato ieri alla Camera del lavoro di Catania, dal titolo Ciao Mauro, non fa molta eccezione alla regola. «Forse, la definizione migliore è questa: “Un comunista che lottava contro il padrone della Sicilia, la mafia”», spiega Lillo Venezia, giornalista, citando il collega Riccardo Orioles. Una lotta per la quale ha perso la vita, anche se non c’è ancora una verità processuale che dica perché Rostagno quel 26 settembre del 1988 fu ucciso a Lenzi di Valderice, a poca distanza dalla Saman, la comunità che aveva fondato a pochi chilometri da Trapani. «Il processo ha già avuto 55 udienze, è molto complesso e nessuno ne scrive. O spesso lo fa usando provocazioni giornalistiche», ricorda Venezia. Che propone la costituzione di un centro di documentazione, che raccolga innanzitutto gli atti del difficile processo in corso. Per fare «memoria» di quello che fu il personaggio Rostagno, che da Torino arrivò in Sicilia, scegliendo «una dimensione locale, dopo essere stato al centro degli avvenimenti del ’68 in Italia», ricorda il professore di Storia contemporanea Luciano Granozzi.


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Per l’omicidio di Rostagno, tra i fondatori del movimento Lotta Continua, sono state negli anni fatte varie ipotesi: ucciso dalla mafia, o per gli intrecci tra questa e la massoneria e la politica di una Trapani che, afferma Graziella Porto, direttrice del mensile Casablanca, «era una città dove la mafia non esisteva». Negli anni la procura di Trapani ha seguito due piste, che hanno avuto grande spazio sui giornali, a differenza del processo attuale che segue la pista mafiosa. La prima rimanderebbe all’omicidio Calabresi, seguendo un filo logico che parte dalla sua storia nella sinistra extraparlamentare. La seconda rimanderebbe addirittura a una pista interna alla sua comunità Saman. «L’esperienza di Rostagno diede grande valore alla controinformazione e al giornalismo di inchiesta. Oggi purtroppo non possiamo dimenticare che un giornalista come Marco Travaglio, considerato dai giovani un maestro del genere, è tra i maggiori sostenitori della pista interna», conclude Granozzi.
«Molte leggende metropolitane vengono portate avanti ancora sulla morte di Rostagno», conferma Paolo Brogi, giornalista anche lui in gioventù a Lotta Continua. Ma quelle che sono notizie e fatti realmente emersi dal processo, non hanno avuto altrettanto successo sui media. «Il cadavere di Don Ciccio Messina Denaro, padre di Matteo che ordinò di uccidere Rostagno, fu trovato nei terreni dei D’Alì – racconta Brogi – Qualche mese fa il ministro della Giustizia Annamaria Cancelleri andò a Trapani a firmare un protocollo antimafia proprio a braccetto con il senatore Antonio D’Alì. Se avesse letto qualcosa del processo in corso non lo avrebbe fatto», ricorda Brogi. Che spende anche parole di stima nei confronti di Rino Giacalone, «l’unico giornalista che segue con costanza il processo, che è stato costretto a lasciare il suo posto nel quotidiano catanese e ora fa il collaboratore per il Fatto quotidiano», conclude Brogi, senza dire esplicitamente il nome del quotidiano La Sicilia.
Per Nadia Furnari, dell’associazione antimafie Rita Atria, «se i giornalisti facessero il loro lavoro, se i giornali facessero informazione, le parole di Rostagno citate avrebbero un senso, per fare memoria». E ricorda le posizioni antimilitariste di Rostagno, in particolare sulla base Nato di Sigonella, e come oggi non ci sia nulla di diverso con la lotta contro il Muos. Per lo scrittore Ottavio Cappellani, invece, il fatto che non si parli del processo Rostagno sui giornali è dovuto alle emergenze della cronaca su altri fatti di mafia, «come la trattativa Stato-mafia». Ma il motivo principale sarebbe che «il processo Rostagno è un fallimento della magistratura che non si può mostrare».
Daniele Lo Porto, segretario provinciale di Assostampa, annuncia che «l’associazione di categoria cercherà di dare supporto al centro di documentazione, ma non materiale, solo morale». Sara Fagone, della Cgil, nel portare i saluti del sindacato ai presenti conclude il suo intervento con una considerazione di carattere generale. «Non esistono eroi, solo persone che fanno bene e fino in fondo il proprio dovere». E così fu per il sociologo politico Mauro Rostagno, giornalista con uno stile unico nella sua radio tele Cine. «Tutta Trapani, arrivati alle due del pomeriggio, si fermava per guardare il suo telegiornale», ricorda Brogi.



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