Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


giovedì 30 gennaio 2014

MAI PIU' CIE! 15 FEBBRAIO MANIFESTAZIONE A ROMA

Domenica 26 Gennaio 2014 16:37 

nocieMai più CIE – Diritti e accoglienza per tutti Sabato 15 febbraio 2014 corteo al Centro d'Identificazione ed Espulsione di Roma-Ponte Galeria 

Dopo le mobilitazioni dell’autunno per casa e reddito, la Roma Meticcia è tornata in piazza il 18 dicembre. Un corteo numeroso e determinato ha attraversato le strade della capitale nella “giornata internazionale dei migranti” per chiedere una legge organica che garantisca il diritto d’asilo, la chiusura dei CIE, un’accoglienza dignitosa contro il business delle cooperative a partire dal diritto all’abitare e l’abrogazione di tutti i provvedimenti legislativi in materia di immigrazione che minano la libertà e il diritto di scelta delle persone a muoversi e risiedere dove meglio credono. La mobilità transnazionale dei migranti sfida infatti le politiche neoliberali di austerity e confinamento, ponendo il tema della costruzione di un nuovo modello sociale, di una diversa modalità di vita in comune, che forza gli angusti confini degli stati nazionali ed al tempo stesso le retoriche bipartisan dell’accoglienza e del multiculturalismo. Mentre da piazza del Popolo qualche “forcone” rivendicava una “soluzione italiana” alla crisi, noi affermavamo con determinazione che “le lotte contro l’austerità non hanno frontiere”. Pochi giorni dopo in diversi nodi decisivi del sistema di governo dei flussi migratori esplodevano proteste auto-organizzate. A Mineo, nel CARA più grande d’Italia, i richiedenti asilo riprendevano la mobilitazione contro le condizioni di vita indegne e i tempi di attesa infiniti. A Lampedusa, i migranti intrappolati sull’isola e trattati come animali nel Centro di Prima Accoglienza chiedevano dignità e il trasferimento immediato. A Ponte Galeria, numerosi reclusi si cucivano la bocca e iniziavano uno sciopero della fame contro una detenzione ingiusta e illegittima e per la liberazione di tutti i migranti imprigionati nei Centri di Identificazione ed Espulsione. Anche nel dibattito politico le questioni connesse con le migrazioni e con il carattere meticcio della nostra società sono all’ordine del giorno dall’inizio dell’autunno appena trascorso. Da una parte, la Lega Nord e le formazioni neofasciste continuano a usare il colore della pelle di un ministro per promuovere una campagna razzista e dare visibilità alle posizioni anti-immigrati. Dall’altra, dopo ogni nuova strage in mare o "scandalo" sulla gestione dei CIE, i partiti di governo si lanciano in false dichiarazioni d’intenti, senza avere in realtà intenzione di modificare le politiche di controllo dell’immigrazione, se non in senso peggiorativo o per operazioni di facciata. La questione del reato di clandestinità e l’emendamento ipocrita appena approvato al Senato sulla materia ne sono l’ultima dimostrazione. In questo contesto, crediamo necessario mobilitarci per rivendicare dal basso una radicale trasformazione delle leggi che governano la vita di migliaia di cittadini migranti. In continuità con le proteste degli ultimi mesi dentro e fuori i CIE, chiediamo l’immediata chiusura di questi lager, dove migliaia di persone vengono detenute senza aver commesso alcun reato, dove i diritti fondamentali vengono calpestati quotidianamente. I CIE costituiscono uno degli ingranaggi del sistema di governo dei flussi migratori, che rende la popolazione migrante illegale e ricattabile, ai fini dello sfruttamento nel/del lavoro e nella/della vita e della collocazione in un ruolo subalterno nella società. I CIE hanno un costo umano e un costo economico - di soldi pubblici - che non abbiamo più intenzione di pagare. Al momento, oltre la metà dei CIE italiani sono stati chiusi grazie alle rivolte e alle proteste che li hanno interessati. È arrivato il momento di chiudere anche Ponte Galeria! Proprio oggi i cittadini migranti detenuti in quel luogo si sono cuciti nuovamente la bocca, ricominciando lo sciopero della fame: perché le promesse fatte dai rappresentanti delle istituzioni dopo la protesta di dicembre non sono state mantenute, perché i CIE non si possono riformare ma vanno chiusi per sempre. Vogliamo sostenere questa mobilitazione, aprendo una campagna condivisa e includente per mettere fine all’orrore di Ponte Galeria. Vogliamo farlo con i migranti auto-organizzati delle occupazioni, i movimenti per il diritto all’abitare, le reti e le associazioni anti-razziste, le comunità straniere e tutti coloro che credono che non debba esserci alcuno spazio per i CIE e per le leggi discriminatorie. Vogliamo avviare questa campagna nel mese di febbraio, anche verso un 1 marzo di mobilitazione meticcia che non lasceremo alle passerelle dei politici, recuperandone il significato originario della partecipazione e della pratica dei diritti messa in atto dai migranti.
Invitiamo tutti e tutte a partecipare a un’assemblea pubblica mercoledì 5 febbraio alle ore 17.00 al Nuovo Cinema Palazzo, per discutere insieme della campagna che ci porterà il 15 febbraio in corteo a Ponte Galeria per dire “mai più CIE” e “diritti e accoglienza x tutti”.

Reti antirazziste Movimenti per il diritto all'abitare

#cieNO

#FacciamoliUscire

#RomaMeticcia

Mercoledì 5 febbraio h. 17:00 Assemblea pubblica Nuovo Cinema Palazzo (piazza dei Sanniti 9A) Sabato 15 febbraio h.15:00 CORTEO AL CENTRO D’IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE DI ROMA #MAIPIUCIE chiudiamo Ponte Galeria





Fonte:


http://www.infoaut.org/index.php/blog/migranti/item/10429-mai-piu-cie-15-febbraio-manifestazione-a-roma 


ABUSI SESSUALI, STERILIZZAZIONI DI MASSA E DECINE DI MIGLIAIA DI BAMBINI MORTI NELLE SCUOLE CATTOLICHE RESIDENZIALI DEL CANADA DAL 1922 AL 1984 CON LA COMPLICITA' DELLE ALTRE CHIESE

Dal blog di Daniele Barbieri:

6 aprile 2010 

Con l’autorizzazione dell’autore, pubblico questa inchiesta di Marco Cinque uscita sul quotidiano «il manifesto» del 4 aprile 2010.  
 
Sono ormai diversi anni che Kevin Annet denuncia gli abusi e le stragi dei nativi canadesi nelle cosiddette “scuole residenziali” cattoliche. Prima col libro The Canadian Holocaust, poi col film documentario Unrepentant, diretto da Louie Lawless, Annet sta cercando di scuotere l’opinione pubblica internazionale sulle sistematiche violenze fisiche, gli abusi sessuali, gli elettroshock, le sterilizzazioni di massa e gli omicidi perpetrati ai danni delle popolazioni native nella seconda metà del XX secolo. «È necessario che il mondo sappia quello che è successo», recitava una donna nativa in lacrime all’inizio di Unrepentant, ma bisogna vedere se il mondo a cui viene rivolto questo drammatico appello abbia davvero voglia di sapere.
Sia il governo canadese che il capo della Chiesa cattolica hanno ammesso i crimini commessi nelle scuole residenziali. Infatti, l’11 giugno 2008 il presidente del Consiglio dei ministri, Stephen Harper, ha chiesto ufficialmente scusa per il genocidio e per gli abusi inflitti agli aborigeni. Dal canto suo papa Ratzinger, durante un’udienza con  Phil  Fontaine, leader discusso e non riconosciuto dalle First Nation, ha espresso «il proprio dolore per l’angoscia causata dalla deplorevole condotta di alcuni membri della Chiesa», che ha causato sofferenza «ad alcuni bimbi indigeni, nell’ambito del sistema scolastico residenziale canadese».  Queste scuse però, oltre a sminuire il senso delle proporzioni, somigliano a una sorta di confessione che in un sol colpo pretenderebbe di cancellare le responsabilità dei peccatori e di redimerne automaticamente  i peccati.  Se crimini sono stati commessi e ammessi, si presume che debbano esistere anche i criminali che li hanno compiuti e risulta strano che gli stessi non vengano né identificati né perseguiti a norma di legge.
Ammontano almeno a 50mila i bambini morti nelle scuole residenziali cattoliche, senza contare tutti coloro che resteranno segnati per sempre, fisicamente e psicologicamente, dalle torture e dalle violenze subite. Ma la situazione attuale nelle riserve indiane canadesi continua a essere tragica e i nativi  sono  ancora vittime di deprivazioni, violenze razziste, discriminazioni e misteriose sparizioni.  Negli ultimi 20 anni, circa 500 donne native americane sono svanite nel nulla in tutto il Canada.  Annet ha denunciato la scomparsa di molte ospiti aborigene del centro di Vancouver Eastside e il coinvolgimento di agenti della Royal Canadian Mounted Police (RCMP), della Chiesa e dello stesso governo. Tale coinvolgimento, supportato da prove documentali e da dichiarazioni di testimoni oculari, farebbe capo a una rete di pedofili e a un traffico di film porno e pedopornografia. Più volte Annet, attraverso il suo programma radiofonico Hidden from History, trasmesso dalla Vancouver Co-op Radio, ha rivelato l’esistenza di luoghi di sepoltura di massa per occultare i resti delle donne assassinate nell’area intorno a Vancouver.  Un esame necroscopico sui resti di ossa riesumate, rinvenute nella riserva degli Indiani Musqueam, vicino all’Università della British Columbia nel 2004, ha rivelato infatti che queste appartengono a giovani donne mischiate a ossa di maiale.
L’11 ottobre 2009, Annet si è recato a Roma per consegnare le richieste dei parenti delle vittime native ai vertici vaticani. A tutt’oggi, nessuna risposta è arrivata dalla Santa Sede.  Annet ha ufficialmente richiesto che il 15 aprile venga celebrato come giorno della memoria per l’olocausto dei nativi in Canada. L’autore di Unrepentant sarà di nuovo a Roma per presentare il suo documentario presso la Camera dei deputati, martedì 7 aprile, alle ore 14,30. Lo accompagneranno anche due anziani che hanno frequentato le Boarding School, in rappresentanza delle vittime native.
In attesa della sua visita gli abbiamo rivolto alcune domande:
Signor Annet, dall’inizio della sua denuncia pubblica, che sviluppi ci sono stati e quali le reazioni del governo canadese e del Vaticano?
La mia campagna è cominciata nel 1996, ma solo dal 2008 la Chiesa e il Governo canadese hanno cominciato a rispondere all’evidenza delle morti avvenute nelle scuole residenziali. I cattolici e le altre Chiese ancora si rifiutano di restituire i resti dei bambini che morirono sotto la loro responsabilità o di indicare i nomi dei responsabili. Le Chiese si nascondono dietro i loro avvocati e alle cosiddette “scuse” fatte dal Governo a nome di tutti. Nessuno è stato ancora processato o arrestato per quelle morti, anche se noi abbiamo dimostrato che più di 50.000 bambini indiani morirono lì.
Che risalto è stato dato a questa tragedia dai media canadesi, internazionali e anche italiani?
I media hanno generalmente ignorato questa storia, specialmente in Canada, dove questi crimini e le prove di questo genocidio sono deliberatamente censurati. In altri Paesi, i media ancora non si stanno occupando di questa storia, forse perchè il Canada dal punto di vista dei diritti umani ha la reputazione di Paese attento ed evoluto, cosa che non è. Ho inviato prove documentate e testimonianze dei crimini accaduti ai media per più di 10 anni, ma raramente le hanno pubblicate  e tantomeno trasmesse su radio o televisioni.
Ha mai ricevuto intimidazioni o minacce?
Ricevo regolarmente minacce di morte e di attentati. Ho perso il mio lavoro come pastore, la mia famiglia, il sostentamento. Sono stato aggredito fisicamente, picchiato, minacciato di azioni legali, sottoposto a campagne diffamatorie, censurato e molestato ad ogni livello.
In Europa e in Italia c’è una visione edulcorata, turistica e un po’ new-age dei nativi canadesi. Qual è la situazione reale nelle riserve e fra le comunità native?
Lavoro con diversi aborigeni a Vancouver e altre città canadesi, e nelle riserve indiane di tutto l’ovest canadese. La situazione è da terzo mondo: continue morti per malattia, malnutrizione, violenza, suicidi, e gli effetti delle scuole residenziali. C’è gente che muore e scompare tutti i mesi. È un piano per sterminare più indiani possibile e costringerli fuori dalle loro terre per arricchire le multinazionali.
In un documento, dodici anziani del Consiglio, in rappresentanza delle nazioni Cree, Haida, Metis, Squamish e Anishinabe hanno fatto una serie di richieste a papa Ratzinger e ai vertici vaticani, fra cui quella di presentarsi davanti al Tribunale internazionale sui crimini di guerra e sul genocidio in Canada. Che ne pensa?
Io sostengo le richieste di questi capi tribali al papa e credo che Joseph Ratzinger debba presentarsi davanti al Tribunale per i crimini di guerra per rispondere alle accuse di genocidio rivolte alla sua Chiesa. Il papa è direttamente implicato nella copertura dei crimini contro quei bambini, sin da quando scrisse la lettera al vescovo del Nordamerica ordinando di celare le aggressioni sessuali da parte di preti sui fedeli delle loro diocesi. Questo insabbiamento è lo stesso motivo per cui il mondo ancora conosce poco gli omicidi, le torture e le sterilizzazioni perpetrate per decenni nelle scuole residenziali indiane cattoliche in Canada.


IL CASO CANADESE
Dal Consiglio delle tribù sette domande al Vaticano
Le richieste rivolte a papa Ratzingher e ai vertici vaticani da dodici anziani del Consiglio che rappresentano le nazioni Cree, Squamish, Haida e Metis.
1. Identificare il posto dove sono sepolti i bambini morti in queste scuole cattoliche e ordinare che i loro resti vengano restituiti ai familiari per una degna sepoltura.
2. Identificare e consegnare le persone responsabili per queste morti.
3. Divulgare tutte le prove riguardanti questi decessi e i crimini commessi nelle scuole residenziali, consentendo il pubblico accesso agli archivi del Vaticano e altri registri delle altre Chiese coinvolte.
4. Revocare le bolle pontificie “Romanus Pontifex” (1455) e “Inter Catera” (1493), e tutte le altre leggi che sanzionarono la conquista e la distruzione dei popoli indigeni non-cristiani nel Nuovo Mondo.
5. Revocare la politica del Vaticano, in parte formulata dall’attuale papa, che richiede che vescovi e preti tengano segrete le prove degli abusi subiti da bambini indigeni nelle loro chiese invitando le vittime al silenzio.
6. Venire in Canada di persona per visitare i quartieri più poveri, dove abitano i sopravvissuti delle scuole residenziali e chiedere perdono a queste persone per il genocidio e per la politica messa in atto dalla sua Chiesa nei loro confronti, e giurare pubblicamente che tali azioni e politiche non si ripeteranno mai più.
7. Presentarsi davanti al Tribunale internazionale sui crimini di guerra e sul genocidio in Canada per rispondere alle accuse che lui e la sua Chiesa siano responsabili per la distruzione e la morte di milioni di Nativi Americani.


Il menù delle torture
Dai capelli strappati alle bastonate, dall’isolamento all’acqua ghiacciata
Decine e decine di sopravvissuti provenienti da dieci diverse scuole residenziali della British Columbia e dell’Ontario hanno descritto sotto giuramento le seguenti torture, inflitte fra il 1922 e il 1984, a loro stessi e ad altri bambini, alcuni di soli cinque anni di età:
Stringere fili e lenze da pesca attorno al pene dei bambini;
Inserire aghi nelle loro mani, guance, lingue, orecchie e pene;
Tenerli sospesi sopra tombe aperte minacciando di seppellirli vivi;
Costringerli a mangiare cibo pieno di vermi o rigurgitato;
Dire loro che i genitori erano morti o che stavano per essere uccisi;
Denudarli di fronte alla scolaresca riunita e umiliarli verbalmente e sessualmente;
Costringerli a stare eretti per oltre 12 ore di seguito sino a quando non crollavano;
Immergerli nell’acqua ghiacciata;
Costringerli a dormire all’aperto durante l’inverno;
Strappare loro i capelli dalla testa;
Sbattere ripetutamente le loro teste contro superfici in muratura o in legno;
Colpirli quotidianamente senza preavviso tramite fruste, bastoni, finimenti da cavallo, cinghie metalliche, stecche da biliardo e tubi di ferro;
Estrarre loro i denti senza analgesici;
Rinchiuderli per giorni in stanzini non ventilati senza acqua né cibo;
Somministrare loro regolarmente scosse elettriche alla testa, ai genitali e agli arti.


LE TESTIMONIANZE
«Quando avevo sei anni, proprio davanti ai miei occhi vidi una suora ammazzare una bambina. Era suor Pierre, ma il suo vero nome era Ethel Lynn. La bambina che uccise si chiamava Elaine Dik e aveva cinque anni. La suora la colpì con violenza dietro il collo e io udii quell’orribile schiocco. Morì proprio dinanzi a noi. Poi la suora ci disse di scavalcarne il corpo e andare in classe. Era il 1966». Steven H., St Paul’s Catholic day School, North Vancouver
«Nè io né nessuno dei miei fratelli potè avere figli dopo che fummo sottoposti ai raggi x nella scuola residenziale Carcross Angelican School, nello Yukon. Presero ognuno di noi e ci misero sotto la macchina a raggi x per 10-20 minuti. Proprio sulla zona pelvica. Avevo 10 anni. Io e i miei fratelli non avemmo mai figli». Steve John, Denè Nation, 7 giugno 2005
«Il primo a subire l’operazione fu il maggiore dei miei figli, quando aveva quattro anni. Era il 1975. Lo portarono via mentre io non ero in casa. Nel luglio del 1981 sterilizzarono il mio figlio più giovane, aveva nove anni. Lo portarono al Victoria General Hospital e lo tennero là per giorni. Nessuno dei due ragazzi può avere figli. Ci fecero questo perchè siamo discendenti dei capi originali, eredi di questi territori. Il governo sta ancora cercando di farci fuori». (Nomi non mostrati su richiesta) Vancouver Island, 18 maggio 2005
«Il dott. James Goodbrand sterilizzò molte delle nostre donne. Ho sentito personalmente Goodbrand dire che il governo lo pagava 300 dollari per ogni donna che sterilizzava». Sarah Modeste, Cowichan Nation, Vancouver Island, 12 agosto 2000
«Mia sorella Maggie fu scaraventata da una suora dalla finestra del terzo piano della scuola di Kuper Island, e morì. Tutto venne insabbiato, né venne svolta alcuna indagine. All’epoca, essendo indiani, non potevamo assumere un avvocato e così non venne mai fatto alcunché». Bill Steward, Duncan, BC, 13 agosto 1998
«Mio fratello morì a causa di una scossa elettrica data da un ago da bestiame. Aveva quattro anni, i pastori lo trascinarono e lo ferirono, gli tagliarono la pelle sotto la fronte con una frusta. Come la frusta dei cavalli. Era tagliente e aveva sopra delle lame. Io ero lì, lo sentivo gridare aiuto. Subito dopo c’era un mare di sangue sul pavimento, ma non lo portarono all’ospedale, in infermeria o altrove, e quello accadde allora, quando ero lì. Lo sento ancora che grida aiuto: “Rick, aiuto, mi stanno torturando! Sto morendo!”. E poi morì. Era il mio unico.. Il mio unico… Il mio miglior amico e il mio unico fratello che ho sempre amato». Rick La Vallee, Portage La Praire Residential School (Catholic Curch).
«Avevo soltanto otto anni, e ci avevano mandato dalla scuola residenziale anglicana di Alert Bay al Nanaimo Indian Hospital, quello gestito dalla Chiesa Unitaria. Lì mi hanno tenuto in isolamento in una piccola stanza per più di tre anni, come se fossi un topo da laboratorio, somministrandomi pillole e facendomi iniezioni che mi facevano star male. Due miei cugini fecero un gran chiasso, urlando e ribellandosi ogni volta. Così le infermiere fecero loro delle iniezioni, ed entrambi morirono subito. Lo fecero per farli stare zitti». Jasper Jospeh Port Hardy, British Columbia 10 novembre 2000
«Una sorta di accordo sulla parola fu in vigore per molti anni: le chiese ci fornivano i bambini dalle scuole residenziali e noi incaricavamo l’RCMP di consegnarli a chiunque avesse bisogno di un’infornata di soggetti da esperimento: in genere medici, a volte elementi del Dipartimento della Difesa. I cattolici lo fecero ad alto livello nel Quebec, quando trasferirono in larga scala ragazzi dagli orfanotrofi ai manicomi. Lo scopo era il medesimo: sperimentazione. A quei tempi i settori militari e dell’Intelligence davano molte sovvenzioni: tutto quello che si doveva fare era fornire i soggetti. I funzionari ecclesiastici erano più che contenti di soddisfare quelle richieste. Non erano solo i presidi delle scuole residenziali a prendere tangenti da questo traffico: tutti ne approfittavano, e questo è il motivo per cui la cosa è andata avanti così a lungo; essa coinvolge proprio un sacco di alti papaveri». (Dai fascicoli riservati del tribunale dell’IHRAAM, contenenti le dichiarazioni di fonti confidenziali, 12-14 giugno 1998)



Fonte:

http://danielebarbieri.wordpress.com/2010/04/06/marco-cinque-genocidio-canadese/



La responsabilità della Chiesa cattolica nel genocidio dei Nativi Americani è certa!




A questa pagina del sito http://www.nativiamericani.it/ 
è possibile vedere il documentario Unrepentant con i sottotitoli in italiano:

http://www.nativiamericani.it/?p=561 






sabato 25 gennaio 2014

DOMENICA 26 GENNAIO A ROMA PROIEZIONE DI “SHOOT” E SERATA A SOSTEGNO DELLA REALIZZAZIONE DELL’ASILO “VITTORIO ARRIGONI”

leave 2 


LEAVE THE KIDS ALONE#2_WeAreAllGaza::: DALLE ORE 19.00 
 
ANGELO MAI ALTROVE OCCUPATO
Via delle Terme di Caracalla, 55a


Serata a sostegno di Freedom Flotilla Italia per la realizzazione di un asilo per bambini e bambine a Gaza e del progetto Gaza’s Ark.


Foto, video, street art, graphic journalism, reading, musica, cena e…




 shoot


Proiezione del film “SHOOT” di Samantha Comizzoli e incontro con Hakima Hasan Motlaq (fondatrice e direttrice della Fondazione Retai delle donne palestinesi di Asira) e Odai Qaddomi (fotoreporter)


Presentazione del progetto per l’asilo “Vittorio Arrigoni” a Khan Younis
A seguire: 

*Fotografi Senza Frontiere_Windows From Gaza [video-promo di presentazione del progetto]

*Windows from Gaza for Contemporary Art_Shareef Sarhan_Majed Shala_Basel El Maqousi [arte in resistenza]

*Simona Ghizzoni_Afterdark [foto_proiezione] 

*William Parry_AGAINST THE WALL.The art of resistence in Palestina [street art_proiezione]

*Joe Sacco_Palestina [graphic journalism_expo]

*Guy Delisle_Cronache di Gerusalemme [graphic journalism_expo]

*Maximilien Le Roy_Saltare il muro [graphic journalism_expo]

*Bluemotion [reading]

*Music For Gaza_LIVE con ospiti molto a sorpresa

*L’Osteria di Pina_We are all Gaza! [cena] 


Link consigliati:







////DOCUMENTARI////


SHOOT di Samantha Comizzoli


Questo documentario nasce da immagini catturate con videocamera e telefonino durante i tre mesi di attivismo per i diritti umani che l’autrice ha svolto in Palestina con l’International Solidarity Movement.

E’ una testimonianza sulla resistenza palestinese non violenta e sui crimini perpetrati da Israele.

Il documentario dura all’incirca novanta minuti ed è arricchito da alcuni filmati del reporter palestinese Odai Qaddomi, fotografo e videoreporter nelle manifestazioni di Kuffr Qaddum.

Due protagonisti della Resistenza palestinese saranno presenti per il tour del documentario: Murad per Kuffr Qaddum e Hakima per Asira.Hakima Hasan Motlaq, 35 anni, sposata, fondatrice e direttrice della Fondazione Retai delle donne palestinesi di Asira. Murad è coordinatore del Comitato di Resistenza Popolare a Kuffr Qaddum, come lavoro è responsabile delle pubbliche relazioni e dei media al Ministero dell’istruzione nel distretto di Qalqilya.
Il titolo “Shoot” (sparo) si riferisce a ciò che ha colpito l’autrice.

 
Hakima Motlaq Hassan di Asira, Nablus. Co- protagonista del documentario SHOOT.

Hakima è la fondatrice e presidente del Retaj Women Center di Asira. Il centro per Donne è nel centro di Asira, un bellissimo villaggio con molte rovine storiche (romane ed ottomane). Questo luogo viene attaccato quotidianamente dai coloni e dall’esercito israeliano, ma Asira Resiste. Un ulteriore invito ad andarsene da parte di israele è arrivato anche quando hanno tolto l’acqua al villaggio. Asira dal 1992 è senz’acqua. Ma gli abitanti, Hakima e le Donne Resistono.

Al Retaj Centre si svolgono workshop, seminari, corsi e le Donne producono artigianato palestinese che Hakima porterà per il tour in Italia. Sempre presso il Retaj si svolgono corsi e workshop anche per i bambini.

Hakima è una Donna palestinese molto forte che con il suo operato Resiste all’occupazione israeliana e nel contempo affronta i problemi sociali della Palestina, è un eroe della Resistenza Palestinese, di grande onestà itellettuale ed un esempio per tutte le Donne.
Odai Qaddomi, fotoreporter di Kuffr Qaddum. Ha gentilmente fornito alcuni video per il documentario SHOOT.

Odai è un fotoreporter che svolge il suo operato a titolo di volontariato presso Kuffr Qaddum. Il villaggio di Kuffr Qaddum è sotto occupazione israeliana da 10 anni, da quando israele ha chiuso la strada principale per costruirci un insediamento illegale. Da quasi tre anni tutti i venerdì il villaggio manifesta contro a tutto questo, ma la Resistenza di Kuffr Qaddum non è solo il venerdì così come non lo è solo l’occupazione israeliana che si manifesta ogni giorno. Kuffr Qaddum è al momento il luogo dove avvengono più episodi di violenza israeliana in tutta la West Bank.

Odai Qaddomi ha un ruolo fondamentale: documenta con la videocamera cosa accade. E’ grazie ai suoi video che si sono avute le prove per vincere processi e dimostrare la violenza israeliana. I giornalisti palestinesi non vengono riconosciuti da israele, pertanto ogni volta che si presentano rischiano l’arresto e gli spari che avvengono sovente.

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FOTOGRAFI SENZA FRONTIERE_WINDOWS FROM GAZA [video-promo di presentazione del progetto]

«Nelle situazioni più disperate, che sembrano le più estreme e senza via d’uscita, sempre l’uomo più cosciente è che dietro l’angolo può esserci la sconfitta, lo scacco, eppure ci prova lo stesso, con tenacia, con la fede assoluta nell’uomo e nell’arte che l’uomo è capace di esprimere.» (Andrea Camilleri).

Basel, Majed, Shareef e Samah sono quattro artisti. Sono pittori, fotografi, performers e organizzatori di eventi e di corsi di formazione artistica che vivono a Gaza, una striscia di terra assediata e tagliata fuori dal mondo: tutt’in torno, lungo i confini territoriali e marittimi, c’è l’assedio dell’esercito israeliano che, nel segno della lotta al terrorismo, costituisce una costante minaccia militare per la popolazione civile e ne impedisce i rifornimenti; all’interno, c’è il governo di Hamas, integralista, totalitario, oltranzista e autoritario, che esercita un rigido controllo sulla vita pubblica e sul pensiero; sulle teste e negli animi dei cittadini di Gaza, regna perenne lo stato di guerra e la costante minaccia di distruzione e morte.

In questa difficile e complicata situazione, che date le contingenze assurge a simbolo assoluto dell’oppressione e della mancanza di libertà, Basel e gli altri membri del collettivo di artisti “Finestre da Gaza” cercano di portare avanti la propria esistenza d’insegnanti d’arte e di artisti, dedicandosi ogni giorno a farsi portatori di un messaggio e di una propria visione del mondo in una dimensione in cui i problemi quotidiani legati alla vita in famiglia, alle relazioni sociali e al proprio lavoro – soprattutto, al proprio lavoro di artisti — si presentano come ostacoli insormontabili.

La quotidianità di questi uomini e di queste donne è costantemente condizionata dalle privazioni e dal controllo: assenza della libertà di movimento, incostanza delle forniture energetiche, difficile reperibilità di beni di prima necessità e di materie prime per lavorare, complessità nel trovare spazi per riunirsi e lavorare, mancanza di libertà di espressione.

Basel, Majhed, Shareef e Samah sono artisti, ma sono anche gazaui, abitanti di una città che nell’immaginario di chi la osserva solo dall’esterno e attraverso la lente dei mezzi di comunicazione di massa rappresenta il posto peggiore del mondo, un vero inferno in Terra.

È nel cuore sofferente di questo inferno che, attraverso il loro affaccendarsi, Basel, Majhed, Shareef e Samah con la loro attività ci aprono una finestra su un universo vitale e prolifico fatto di artisti, sportivi, intellettuali e cittadini appassionati alla cultura e dediti al libero pensiero. Per le strade di Gaza si aggira un vero e proprio cosmo umano fatto di dedizione e impegno creativo, passione e disciplina lavorativa, ricerca e libertà di espressione. Si tratta di donne e uomini pittori, grafici, fotografi, videomakers, media-attivisti, musicisti, cantanti, rappers, teatranti, parkouristi, pugili, giocatori di basket, skaters, filosofi, scrittori, promotori di eventi, poeti. Si tratta di un’ignota parte della società civile di Gaza che, nonostante la guerra e la repressione, ha scelto di sopravvivere nella disperazione e di reagire alla tragedia con le armi pacifiche della propria forza espressiva e del proprio talento.

Per Basel, Majhed, Shareef e Samah l’arte è innanzitutto uno strumento per esprimersi e comunicare: per porsi, da un lato, in costante relazione con il prolifico mondo culturale che anima la striscia di Gaza e alimentarlo con le proprie idee e le proprie opere; dall’altro, per entrare in rapporto col mondo esterno attraverso le pagine internet dei social networks parlando con una voce propria e mostrando una propria visione del mondo. Per Basel, Majhed, Shareef e Samah l’arte è uno strumento per rompere i pregiudizi e recuperare la propria dignità di esseri umani, uno strumento per salvare il proprio equilibrio psicologico e per raccontare la vita di Gaza oltre gli stereotipi.

Laddove ciò che è umano sembra non avere più cittadinanza ed è represso e annichilito, con Basel, Majhed, Shareef e Samah l’arte diventa un formidabile strumento di sopravvivenza e allo stesso tempo di reazione, che permette, nonostante tutto, di recuperare e dare vita concretamente a ciò che è umano, «con la fede assoluta nell’uomo e nell’arte che l’uomo è capace di esprimere».


////ARTE IN RESISTENZA////


WINDOWS FROM GAZA

The space around us is limited, the ideas in us are unlimited. We came together to think about how we could break out from here and reach the outside; and how we could open small windows and breathe fresh air. In this restricted/cramped space -Gaza – we express ourselves in a cultural-bound artistic language, when we talk to others. A language, that is part of us. Gaza is rich in details, that we try to illustrate using new, descriptive colours. A group of young artists, bound to a specific, geographic area, in which ideas converge. Deeply believing in collective co-operation, they try to develop together the creative aspects in the art movement. They are looking at the most recent contemporary art, that serves them to fully express their artistic abilities and put them into form. The ideas and reflections of the group come to a synthesis, that is brought to public attention by regularly holding meetings, exhibitions and workshops, in which both local and international artists participate. Each of them has taken part in numerous international events in support of their culture, their art concept, and their effort to interplay.
Shareef Sarhan

Born in Gaza in 1976, Sharif Sarhan works as an artist, professional photographer and free-lance designer. He is a founding member of the Windows from Gaza for Contemporary Art group and an active member of the Association of Palestinian Artists . Sarhan has a diploma in arts from the University of ICS in the United States. He had participated in several art training courses and workshops. He was involved in the activities of the September Dara Academy of Jordanian Arts from 2000 to 2003 under the supervision of the German from a Syrian origin artist; Marwan Kassab Bashi. Sarhan had introduced his works in many individual and group exhibitions in Gaza in the Arts and Crafts village, the Port Gallery, and exhibited some of his works in Ramallah, Bethlehem, Jerusalem, Amman, Britain, the United States, Sharjah and Cairo.
Majed Shala

Born in 1960 in Gaza, Shala graduated with a Master of Arts from Scranton University, USA in 2001. Shala’s work has been shown in a number of solo exhibitions, including Suwar min Gaza, in Beirut, Lebanon (2004) and Gaza Hanin il Makan, at the Arts and Crafts village in Gaza (2003). Between 2000 and 2001, he attended Jordan’s Daaret Al Funun academy. His international exhibitions have included in the Middle East ,USA, South Africa, Hungary, Brazil, Amman Jordan, and Qatar. Most recently he has participated in exhibitions in Italy and Norway and also with the United Nations.
Basel El Maqousi

Born in Gaza City in 1971, Plastic artist and free lance photographer Basel is a painter, photographer and video artist. He attended in 2000, 2001 and 2003 the summer Academy of Arts of Darat al Funun-Khalid Shoman Foundation in Jordan, run by Syrian-German artist Marwan Qassab-Bashi; and completed an arts course at the Gaza City YMCA in 1995. In 2003 he was awarded the Charles Asprey Award for Palestinian artists, was short listed for the A.M. Qattan Foundation’s Artist of the Year Award, and spent one month art residency in Bangalore – India. Magoussi participated in a number of local and international solo and group exhibitions, and teaches art at the Jabalya Rehabilitation Center for deaf and dome children. General observer for the games program of the UNRWA summer camps 2007. Winner of the bronze price for the best photo from the Union of Arab photographers – Europ, Germany 2008 After and before the war against Gaza, Basel did participate in several Arab and International exhibitions. He also won the Oscar of bianli Nile culture TV in Cairo on 2009 Because of the closure imposed over the Gaza Strip, Basel could not participate in 7 international art workshops in EUROE and some Arab countries during the years 2008 – 2009. Maqousi is a founder of (Windows from Gaza For Contemporary Art)


////FOTOGRAFIA////


SIMONA GHIZZONI_AFTERDARK [proiezione]

I reached the Occupied Palestinian Territories for the first time in 2010, on assignement to document the condition of Palestinian women in the Gaza Strip.

At that time, I had the access to the Gaza Strip denied by the Israeli Government.

So, I decided to spend a couple of months in Jerusalem and the West Bank in order to research and study the Israeli-Palestinian conflict.

That was the beginning of my long-term project about the consequences of war on women’s life, Afterdark.

A few months later I got the permission to enter the Gaza Strip, where I stayed as a whole around three months., documenting the aftermath of Cast Lead Operation (ended in 2009), especially focusing on the everyday life of women in the extremely complex context of the Strip.

Women in Gaza suffer of a double pressure: the isolation from the outside world imposed by the Israeli blockade, with all the economical, physical and psychological consequences, and, on the other hand, the worsening of women’s human rights condition under Hamas government, which is pushing the society towards an effective gender separation.

The latest trip was in December and January 2012-13 right after the Operation Pillar of Defense on the Gaza Strip (14 to 21 November 2012). During the course of the operation, the IDF struck more than 1.500 sites in the Gaza Strip, including rocket launchpads and cache sites, Hamas command posts, the Hamas run interior ministry and other government buildings, as well as dozens of houses and apartment blocks. More than 180 Palestinians died in the operation, a half of them being civilians. An additional 1.200-1.300 Palestinians were heavily injured.

Civilians paid the highest toll during this 8 days operation, mainly women and children who didn’t recover yet from the traumas of Cast Lead Operation .

Through the stories of the women I met, I’m trying to understand what really happens when a military operation is declared “a success”: how the return to a normal everyday life can be possible, and which sort of “normality” can actually be restored, during a long-term conflict, such as the Israeli-Palestinian one.


////STREET ART////


WILLIAM PARRY_AGAINST THE WALL. The art of resistence in Palestina [proiezione]

This stunning book of photographs captures the graffiti and art that have transformed Israel’s wall into a living canvas of resistance and solidarity.

Featuring the work of artists Banksy, Ron English, Blu, and others, as well as Palestinian artists and activists, these photographs express outrage, compassion, and touching humor. They illustrate the wall’s toll on lives and livelihoods, showing the hardship it has brought to tens of thousands of people, preventing their access to work, education, and vital medical care.

Mixed with the images are portraits and vignettes, offering a heartfelt and inspiring account of a people determined to uphold their dignity in the face of profound injustice.
Artists Arofish | Banksy | Blu | ericailcane | Sam3 | Filippo Minelli | How&Nosm | Irish | Peter Kennard | Ron English | Vin Seven | Wisam Salsaa | and others


/////GRAPHIC JOURNALISM/////


CRONACHE DA GERUSALEMME [expo]

Agosto 2008: un volo notturno porta Guy Delisle a Gerusalemme, dove il fumettista e la sua famiglia trascorreranno un anno della propria vita per dare modo a Nadège, la compagna di Guy, di partecipare a una missione di Medici Senza Frontiere. Vivranno a Beit Hanina, un quartiere nella zona est della città che sin dalla prima passeggiata si mostrerà, in tutta la sua desolazione, decisamente diverso dalla Gerusalemme propagandata dalle guide turistiche; e si destreggeranno più o meno goffamente in una quotidianità fatta di checkpoint e frontiere – teatro di perquisizioni e infiniti quanto surreali interrogatori –, delle mille sfumature di laicità e ultraortodossia, di tensioni feroci e contrasti millenari, e della disperata speranza, della rabbia e della frustrazione del popolo palestinese, in lotta ogni giorno contro l’occupazione, devastato dall’atrocità di un attacco (la tristemente nota Operazione Piombo Fuso) di cui l’autore si trova a essere basito spettatore. Una quotidianità condizionata dunque da grandi questioni, eppure fatta, come ogni altra, di piccoli momenti, narrati con stile impeccabile e travolgente potenza espressiva dall’autore di Pyongyang, Cronache birmane e Shenzen.


GUY DELISLE (Quebec City, 1966), è un fumettista canadese e un professionista dell’animazione. Ha seguito per diverso tempo la lavorazione di prodotti animati in Francia, Germania, Canada e in Asia: la sua esperienza in Cina e in Corea del Nord è ampiamente documentata in Pyongyang e Shenzen. Per seguire invece sua moglie, amministratrice presso Medici Senza Frontiere, Delisle ha vissuto a Myanmar, descritta in Cronache Birmane, e ha vissuto un anno a Gerusalemme, esperienza da cui nasce questo libro. È comunemente ritenuto, insieme con Joe Sacco, tra i migliori rappresentanti del graphic journalism. Vive nel sud della Francia con sua moglie e i suoi figli.
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PALESTINA [expo]

Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Joe Sacco ha trascorso due mesi in Israele e nei Territori Occupati, viaggiando e prendendo appunti. Ha vissuto nei campi palestinesi, condividendone la vita (o meglio, la loro sopravvivenza) in mezzo al fango, in baracche di lamiera arrugginita, tra coprifuoco e retate dell’esercito israeliano. Risultato del suo meticoloso lavoro d’inchiesta è questo volume che, combinando la tecnica del reportage di prima mano con quella della narrazione a fumetti, riesce a dare espressione a una realtà tanto complessa e coinvolgente come quella del Medio Oriente.

Ogni pagina racconta in modo approfondito chiaro i molti aspetti dell’ occupazione: le uccisioni, i ferimenti, le torture le detenzioni amministrative, le confische delle terre, la distruzione delle case. Senza la pretesa di dare giudizi, Palestina offre così al lettore una testimonianza ricca, articolata e diretta delle condizioni del popolo palestinese.
JOE SACCO (1960) è un fumettista e giornalista maltese, che vive e lavora negli Stati Uniti.

Dopo un primo periodo da fumettista satirico e da narratore di viaggi, Sacco trova la sua vera dimensione con Palestine (Palestina), una raccolta di racconti a fumetti più o meno brevi che fotografano i viaggi, gli incontri e le storie ascoltati dall’autore durante il suo soggiorno nei territori palestinesi e in Israele. Il volume gli è valso l’American Book Award nel 1996.

Negli anni successivi Sacco produce diverse altre opere di graphic journalism tra cui Safe Area Goražde (Goražde Area Protetta) con cui vince un Eisner Award e The Fixer (Neven, una storia da Sarajevo), entrambe sul conflitto serbo bosniaco. Nel 2009 pubblica Footnotes in Gaza (Gaza 1956).
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SALTARE IL MURO [expo]

Saltare il Muro racconta la vita di Mahmoud, un giovane palestinese che vive la situazione di ogni prigioniero, quella di non poter uscire fuori dalle mura che lo tengono rinchiuso all’interno della Palestina occupata. L’unico luogo in cui si sente veramente libero è la sua mente e attraverso questo artificio ripercorre la sua storia: quella di rifugiato palestinese, recluso dietro un muro di cemento e filo spinato, all’ombra delle torrette di vigilanza dell’occupazione.

I prigionieri, talvolta, ricevono delle visite. Mahmoud è sensibile al fascino delle belle straniere, ma decide di aprire la sua porta anche a Maximilien, un ragazzo venuto dalla Francia che disegna, sa vedere e ascoltare. Saltare il Muro è il risultato dell’incontro di questi due giovani ventiduenni, che insieme disegnano le immagini di una libertà per ora inaccessibile.

Maximilien e Mahmoud, distruggono simbolicamente non solo il muro in Palestina, ma tutti i muri che imprigionano gli uomini e li separano gli uni dagli altri. Uno dei migliori reportage a fumetti usciti nel 2010 in Francia


MAXIMILIEN LE ROY (1985) giovane disegnatore francese, si dedica interamente al fumetto e ai viaggi. Intrecciando le due passioni, viaggia attraverso Rwanda, India, Palestina, Europa e Vietnam utilizzando i viaggi come approfondimento e ispirazione per i suoi lavori.

Durante la guerra di Gaza coordina l’opera collettiva Gaza, un pavé dans la mer.

Nel 2008 è in Palestina dove conosce Mahmoud Abu Srournel abitante del campo profughi di Aida. Da questo incontro nasce, nel 2010, Faire le Mur (Saltare il muro), un racconto, una testimonianza della vita quotidiana di un ragazzo che vive in un territorio occupato; con la partecipazione grafica di Maya Mihindou.

Lo stesso anno realizza, con l’illustratore e scrittore Soulman, Les chemins de traverse l’incontro di due storie vere, quella di un israeliano e quella di un palestinese.






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