29 agosto 2013

E alla fine il momento arrivò. Dopo due anni e mezzo di sangue e oltre 120mila morti, l’opinione pubblica scoprì che in Siria era in atto un massacro.
 E via di inni pacifisti, di post contro Obama, di 
“vi-siete-dimenticati-dell’Iraq?” vari. Per carità, ben venga alimentare
 un sentimento condiviso contro la guerra, al cui sviluppo il nostro giornale non si è sicuramente tirato indietro. E mi ritrovo pienamente in accordo con la linea di Emergency,
 che dice: “Ai morti già causati dalla guerra in Siria se ne 
aggiungeranno altri, perché scegliere le armi oggi significa decidere 
sempre, consapevolmente, di colpire la popolazione civile: nei conflitti
 contemporanei il 90% delle vittime sono sempre bambini, donne e uomini 
inermi”. Ma dove siamo stati, noi tutti, negli scorsi due anni e mezzo?
L’intervento paventato di Obama fa rabbrividire e 
abbiamo ancora tutti negli occhi, come una terribile sequenza di scene 
agghiaccianti tratte da un film dell’orrore, la distruzione “salvifica”
 in Serbia, Afghanistan, Iraq e Libia. Solo per rimanere nella 
contemporaneità e non citare altri ben noti esempi ancora vivi 
nell’immaginario collettivo. Da spettatori impotenti non possiamo che 
ridurre la Siria, i suoi morti e il suo futuro a un mero esercizio 
intellettuale da bistrot, di quelli che si fanno quando si è già detto 
tutto su calcio, meteo e Berlusconi. Nel nostro chiacchiericcio si formano fondamentalmente due schiere: quelli che “la guerra è brutta ma dobbiamo fermare un dittatore che sta sterminando il suo popolo” e quelli che “è tutto un bluff imperialista, c’è di mezzo anche il Mossad e Assad è amato dal suo popolo”. E via, in questo secondo caso, all’esaltazione dei Paesi non allineati, come se l’essere anti-americani esenti automaticamente da ogni analisi sul rispetto dei diritti umani e sul livello di democraticità.
Bene, vorrei che nel nostro bistrot ipotetico ci sia una terza tipologia di partecipante al dibattito. Quella delle persone che si informano, che da due anni e mezzo hanno un peso sullo stomaco per ciò che sta succedendo dall’altra parte del Mediterraneo. Quelli che sanno che in Siria operano gli shabiha, civili sciacalli al soldo del regime per reprimere nel sangue ogni dissenso. Quelli che allo stesso modo sanno che le ingerenze dei Paesi stranieri (Russia e Iran da un lato, Qatar, Arabia Saudita e Usa dall’altro), hanno letteralmente straziato la Nazione. E non è più tempo di fare il tifo. Non voglio più sentire interpretazioni geopolitiche basate sul sentito dire. Piuttosto
 si faccia un passo indietro e si cerchi di capire. Magari passeggiando 
per la città fermiamo qualche persona siriana, offriamo un caffè e 
facciamoci raccontare le loro storie.
Due mesi fa a Domiz, un campo rifugiati al confine tra Siria e Iraq, conobbi un ragazzo siriano che, per motivi di sicurezza 
della
 sua famiglia, mi chiese di non essere ripreso dalla telecamera. Era un 
soldato di Assad, a 25 anni aveva già molti uomini sotto di lui e tanta 
responsabilità sulle spalle. Poi un giorno il suo superiore gli chiese 
di mitragliare, insieme alla sua squadra, una schiera di civili disarmati.
 Sospettava che tra loro ci fossero informatori dell’Esercito libero. 
Così fu costretto ad aprire il fuoco verso vicini di casa e parenti. 
Decise di disertare. Da allora vive come un fantasma in un campo 
profughi nel deserto, senza aria condizionata (e credetemi, lì si 
raggiungono i 55 gradi) e con una tenda da condividere con altre sei 
persone. “Racconta la mia storia, fratello”, mi chiese supplicandomi. 
Ecco, devo a lui e alle decine di siriani che ho conosciuto negli ultimi
 due anni questo post.
della
 sua famiglia, mi chiese di non essere ripreso dalla telecamera. Era un 
soldato di Assad, a 25 anni aveva già molti uomini sotto di lui e tanta 
responsabilità sulle spalle. Poi un giorno il suo superiore gli chiese 
di mitragliare, insieme alla sua squadra, una schiera di civili disarmati.
 Sospettava che tra loro ci fossero informatori dell’Esercito libero. 
Così fu costretto ad aprire il fuoco verso vicini di casa e parenti. 
Decise di disertare. Da allora vive come un fantasma in un campo 
profughi nel deserto, senza aria condizionata (e credetemi, lì si 
raggiungono i 55 gradi) e con una tenda da condividere con altre sei 
persone. “Racconta la mia storia, fratello”, mi chiese supplicandomi. 
Ecco, devo a lui e alle decine di siriani che ho conosciuto negli ultimi
 due anni questo post.
Non possiamo cambiare le cose, non basta una petizione o una bandiera
 della pace sul proprio profilo Facebook per fermare la follia 
collettiva. Quello che però possiamo fare, e a questo punto diventa un obbligo morale al quale chi è sensibile al Medio Oriente non può fuggire, è cercare di capire e di essere pronti ad ascoltare, prima di sputare le nostre sentenze. Perché la follia omicida di al-Nusra e delle altre compagini qaediste infiltrate in Siria (in Rojava questi robot antropomorfi pseudo-religiosi hanno rapito 350 curdi
 yazidi, torturando alcuni di essi e tagliando la gola ad un uomo 
davanti agli altri rapiti) non ha nessuna giustificazione morale e la 
loro presenza i siriani la pagheranno a caro prezzo per anni e anni. Ma 
dare dei “tagliagola” a tutti i giovani ragazzi ancora sbarbati che 
cercano di difendere dal regime le proprie famiglie è intellettualmente disonesto oltre che privo di ogni rispetto.
Frontiere News continuerà a urlare NO alla guerra americana
 e a ogni soluzione che preveda attacchi stranieri. Ma tra l’essere 
contro la guerra e l’imperialismo occidentale e l’osannare un dittatore macellaio, persino più spietato del padre tiranno (amici anti-sionisti, avete dimenticato il massacro di Tel al-Zaatar perpetuato da Assad senior contro rifugiati palestinesi
 inermi?) ce ne passa. Quindi fatevi un esame di coscienza prima di 
dividere il mondo in buoni e cattivi e mettere nella prima lista 
chiunque vada “contro”. E ora chiamatemi imperialista amico dei 
tagliagole.
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