


novembre 1, 2009
La denuncia dei familiari del detenuto morto nel centro clinico penitenziario del Pertini:
 «Chi ha ridotto così nostro figlio Stefano?»
Checchino Antonini
Liberazione 30 ottobre 2009
«Ciao  papà». L’ultimo abbraccio di Stefano suo padre se lo ricorderà  per  sempre. In tribunale, a piazzale Clodio. Il ragazzo in manette e   quattro carabinieri intorno. Impossibile dirsi altro che un ciao. Però   Stefano aveva già la faccia gonfia ma ancora si reggeva in piedi. Tanto   che quando è stata pronunciata l’ultima parola sulla sua permanenza in   carcere ha dato un calcio stizzito alla seggiola. Succedeva due   settimane fa, sarebbe morto dopo cinque giorni al repartino del Pertini,   il padiglione penitenziario. In galera per una ventina di grammi   d’erba. Ma se perfino i carabinieri, la notte prima, avevano rassicurato   sua madre che era poca roba e che magari tornava subito per i   domiciliari! Anche quella notte camminava sulle sue gambe e il viso era   pulito, senza i segni delle botte. Il proibizionismo è il primo   ingrediente della pozione mortale che ha ammazzato Stefano Cucchi,   magrissimo trentunenne che faceva il geometra nello studio di famiglia,   che soffriva d’epilessia e a cui hanno sequestrato, assieme alle   sostanze, le pasticche salvavita di Rivotril. Ieri i familiari e   l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso del caso Aldrovandi, hanno preso   parte a una conferenza stampa, promossa da Luigi Manconi, e affollata di   parlamentari e cronisti a Palazzo Madama. Nel dossier consegnato ai   giornalisti le foto choc scattate dopo l’autopsia perché alla famiglia è   stato negato dal pm di riprendere il corpo durante il primo esame.   L’ennesima porta in faccia dopo giorni passati in attesa di un permesso   per visitare quel figlio sparito nell’ospedale-bunker. E senza mai  poter  parlare coi medici. Il direttore sanitario del Pertini trasecola.   Spiega che non è mai accaduto che i familiari di un detenuto  restassero  così tanto tempo senza notizie. «Non c’è bisogno di alcuna   autorizzazione». Da mezzogiorno alle 14 i parenti possono parlare con i   dottori. A meno che gli agenti di custodia non abbiano fatto muro. I   familiari confermano di aver chiesto ripetutamente di parlare con i   medici. La polizia penitenziaria si lamenta dell’immagine negativa che   gli deriverebbe da questo caso ma non fa nulla per scalfirla. Il   dirigente di un sindacato, il sindacato Sappe, si limita a dire che la   collega che ebbe a che fare con i Cucchi avrebbe detto loro che il   repartino funzionava come un carcere. Ma perché negare un colloquio con i   medici? Il dossier è preciso: la domenica, alla richiesta di sapere   come stesse Cucchi, il piantone rinvia i genitori al giorno dopo. A   mezzogiorno del lunedì stessa scena. Dopo una vana attesa viene negato   l’incontro con i medici perché senza permesso del pm. Così pure   ventiquattr’ore dopo. Il permesso per la visita a Stefano arriverà solo   il mercoledì, sarà valido per il giorno successivo. Ma Stefano muore   all’alba. Da parte loro, i sanitari si dicono stupiti dal   sopraggiungere della morte ma insistono sull’immagine di un detenuto che   rifiutava le cure e che dicono di «non avere avuto modo di vederlo in   viso in quanto si teneva costantemente il lenzuolo sulla faccia».  Perché  Stefano era invisibile? L’opacità di certe istituzioni totali è  un  altro ingrediente del veleno che ha ucciso Stefano. Ma il più  potente  degli elementi del mix potrebbero essere state le botte, che  gli hanno  devastato la faccia, fatto uscire un occhio dall’orbita,  fratturato una  mascella, spezzato la schiena in due punti, ferito le  gambe. Aveva  sangue nella vescica e in un polmone. I genitori e la  sorella Ilaria  fanno una catena di telefonate ai parenti: «Non guardate  i tg, ci sono  le foto di Stefano morto». Anche la sorella Ilaria si  rifiuta di  prendere il dossier ma crede che quelle immagini servano a  contrastare  l’invisibilità a cui è stato condannato un ragazzo che  pesava 43 chili  prima di entrare in una caserma dei carabinieri della  periferia est di  Roma e 37 quando è morto cinque giorni dopo. «Non è  un’inchiesta  difficile – spiega Patrizio Gonnella di Antigone – ma la  velocità sarà  decisiva. Troppe volte le lungaggini hanno bruciato la  giustizia.  Facciamola subito quest’inchiesta e facciamola trasparente. E  le forze  dell’ordine non siano ostaggio dello spirito di corpo, per  una volta».  Da quel quadrante di Roma, intanto, giungono segnalazioni  sui metodi  “spregiudicati” delle squadre antidroga negli interrogatori e  nelle  perquisizioni. Si tratta di racconti piuttosto circostanziati  che  segnalano, in particolare, la pratica sistematica di far firmare  verbali  aggiustati. Uno stuolo di parlamentari bipartisan fà passerella  per  annunciare missioni ispettive ma finora non l’ha fatte nessuno.   Lucidamente Bonino e Perina dichiarano che è in gioco la credibilità   delle istituzioni. Qualcuno tira in ballo il ministro della difesa La   Russa. E’ lui che potrebbe riferire sull’operato dei carabinieri, due in   divisa e tre in borghese, che arrestarono Stefano e fermarono un suo   amico in un parco di Cinecittà. Perché da Regina Coeli sono piuttosto   netti: quel ragazzo era già malconcio quando è arrivato e fu spedito   immediatamente al pronto soccorso. Ma al Fatebenefratelli, ed è un altro   mistero, Stefano firmò verso mezzanotte del venerdì per tornare in   cella anziché farsi i 25 giorni di ricovro che gli erano stati   prescritti. L’avvocato Anselmo chiede di acquisire al più presto le foto   ufficiali dell’autopsia e prevede tempi lunghi per gli esami che   dovranno stabilire le cause della morte. Il pm non entra nei particolari   ma gli preme far sapere che accertamenti sono scattati fin dal primo   momento. E che avrebbe iniziato a indagare sulle modalità del fermo.
Fonte:
http://insorgenze.wordpress.com/2009/11/01/stefano-cucchi-le-foto-shock/
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