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Donatella Quattrone


lunedì 12 novembre 2012

Lividi e sangue… gli ultimi tre giorni di Cristian De Cupis

13 dicembre 2011


I buchi nella ricostruzione sulla fine del 36enne, “morto nel sonno” a Viterbo. Cosa è accaduto dopo la stesura del verbale? Perché quel “giro” di ospedali? I vestiti restituiti in parte alla famiglia: mancano quelli a contatto con le ferite.
La sciarpa della Roma stretta al collo, sopra le ecchimosi e i lividi che scendono dalla nuca alle spalle, gli occhi chiusi per sempre, quello sinistro piuttosto gonfio e tumefatto, come un pò tutta quella parte del viso che è violacea. Altre ecchimosi sul fianco sinistro e vasti ematomi sulle mani, letteralmente devastate. Almeno quattro ferite di forma circolare e di una certa profondità nella parte frontale del cranio, una lesione su quella parietale sinistra e un’altra più profonda dietro, sulla nuca, da cui deve essere uscito molto sangue, visto che sul giubbino - lavato o comunque smacchiato da qualcuno - restano degli aloni rossi. L’ultima immagine di Cristian De Cupis, un destino nel cognome, assomiglia un pò ai suoi ultimi tre giorni, sghemba, poco nitida, violenta. Ma è proprio quell’alone opaco che rende così dura la fine piuttosto strana di un uomo che pure era abituato a remare controcorrente e senza paracadute.
Ha perso la madre che era ancora un bambino, non ha mai avuto un vero padre, e all’età in cui si prende la patente si era già infilato sulla sua cattiva strada, già molto scivolosa. Dentro e fuori da caserme, celle e comunità: detenuto a Regina Coeli, Rebibbia, poi Terni, Viterbo, Velletri, Secondigliano, alternando periodi di cura ad Amelia da Pierino Gelmini, a Bologna, Ravenna, Milano, ma anche a San Patrignano, l’ultima volta, nel luglio scorso, due mesi e poi fuori, perché Cristian non ce la faceva più a passare da una prigione a un centro di recupero.
Denunce, verbali, carabinieri, polizia. Piccoli furti per racimolare qualche soldo per la dose, e dopo la dose daccapo coi furti, e via così per settimane, mesi, anni. Non ne faranno un santino, ma certo non meritava di diventare un fascicolo per omicidio colposo sul tavolo di un magistrato. Tocca a Stefano D’Arma, pm di Viterbo, e forse tra poco a un suo collega di Roma dove potrebbe essere trasferita l’inchiesta, cercare di capire come e perché è morto Cristian De Cupis.
A cominciare da quella mattina di un mese fa, il 9 novembre, all’incontro tra Cristian e gli agenti della Polfer al binario 10. Sono le 7.45, Termini brulica di pendolari e studenti. “Esco per lasciare un po’ di curriculum”, aveva detto uscendo di casa alla Garbatella, dove viveva da sempre con la zia e la nonna. Sperava in un lavoro nuovo e in una vita nuova, dopo aver pagato l’ultimo conto con la legge. Quello che è successo da lì in poi, però, al momento è tutto scritto in un verbale della Polfer.
E in quelle poche pagine, più dubbi che certezze. I tre poliziotti che lo hanno arrestato raccontano che stavano assistendo una persona colta da malore, quando De Cupis ha preso ad apostrofare uno di loro, minacciando lui e i suoi colleghi. Lo avrebbe colpito con un pugno e poi strattonato per il cinturone, prima di essere immobilizzato e caricato di peso sul veicolo elettrico. La scena non dura molto, dieci minuti o poco più, e passa inosservata, tra la gente che arriva, tolto l’avvocato che è l’unico testimone oculare. Fatto sta che alle otto Cristian è già negli uffici della Polfer.
Ci rimarrà sei ore, fino alle 14: un tempo notevole, anche per un arresto a seguito di “resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato”. Soprattutto, un tempo vuoto, perché nessuno sa cosa sia successo là dentro e perché Cristian ci sia rimasto ben oltre la stesura del verbale, fatta alle 11. Su quei fogli, gli agenti annotano anche atti di autolesionismo da parte di De Cupis che tra l’altro, scrivono, “danneggia le manette sbattendole al muro”.
Verso le 14 lo portano via con l’ambulanza, equipaggio 803, una volante al seguito, con direzione policlinico Umberto I. Dove, però, non lo prendono, nonostante passi oltre un’ora prima che entri al Santo Spirito: perché non resta al Policlinico? E che fa prima di essere condotto altrove? Forse c’entra la sua sieropositività? Gli ospedali che hanno reparti per infettivi, a Roma, sono appunto l’Umberto I, il Gemelli, lo Spallanzani, poi come carceri c’è Rebibbia, che ha un reparto ad hoc, e Regina Coeli, attrezzata alla meglio.
Cristian aveva fatto un check-up due giorni prima allo Spallanzani, dove era sotto controllo medico, ed era tutto a posto. Pesava 86 chili e voleva mettersi a dieta: più che florido, per uno con quei problemi. Inoltre, per la legge 135/90, “l’accertata infezione da Hiv non può costituire motivo di discriminazione”. Significa che De Cupis, per le sue condizioni cliniche, aveva diritto ad essere accolto e ricoverato ovunque, a Roma: invece è finito addirittura a Viterbo. Fatto sta che entra al pronto soccorso del Santo Spirito alle 15.15 (ed esce alle 18.52), con lesioni alla spalla e all’emitorace sinistro, oltre che al bacino e al cuoio capelluto.
Racconta di essere stato percosso e i medici descrivono almeno tre episodi di “amnesia post traumatica” connessi a perdita di memoria. Gli fanno Tac, ecografia e raggi X, ma è tutto negativo: certo, per un codice verde è un bel po’ di roba, un trattamento di lusso vien quasi da dire.
Negative anche le risposte a cocaina, cannabis e anfetamine. Cristian è positivo alle benzodiazemine e gli viene prescritto il Rivotril in gocce. Sul referto viene scritto che è in trattamento con metadone, ma la famiglia smentisce e nemmeno al Sert, a quanto pare, risulta. Lo ricoverano in medicina generale, dove rimarrà per un giorno, prima di essere trasferito al Belcolle, nella struttura di medicina protetta.
Chi ha deciso quel trasloco e perché? E che succede a Cristian in quelle 24 ore? Il suo avvocato di fiducia, Davide Verri, viene avvisato alle 17, ossia 9 ore dopo il fermo sul binario: non è stata certo una comunicazione tempestiva. L’udienza di convalida viene fatta venerdì 11, ma quando il giudice entra in aula Cristian non c’è. Da Viterbo dicono che “non è trasportabile”, eppure la sera prima lo avevano portato via dal Santo Spirito. Chi ha disposto quel trasferimento?
E perché? Eppure, perfino per i medici del Belcolle è tutto ok, anche se poi fanno una parziale retromarcia: De Cupis era inquieto e nervoso, altro che uno che fischietta sotto alla doccia prima di mettersi a letto, contento per la prospettiva dei domiciliari. E ai familiari, i medici avrebbero confermato che le percosse ci sono state, e che verosimilmente sono state il motivo del ricovero. Cristian - dicono - muore alle 5 e mezza di sabato 12 novembre, “morto nel sonno” dicono, ma quando la zia Maria e il fratello Claudio vedono il cadavere, cominciano ad avere qualche dubbio. I tempi dilatati diventano frenetici. Già il lunedì, pur con un fascicolo aperto in Procura, si fa l’esame autoptico. Ci sono i familiari ma non c’è il loro consulente: un’assenza che potrebbe avere un peso.
Secondo le prime conclusioni dell’autopsia eseguita da Maria Rosa Aromatario, medico della Sapienza, sul cadavere non c’erano lesioni di organi interni. Però non c’è neppure il motivo per cui Cristian è steso su quel tavolo della morgue, perché “l’arresto cardiaco” è - diciamo - l’effetto meccanico, e non la causa, di ogni decesso. Di certo, le foto scattate con un telefonino non depongono a favore di una morte improvvisa e naturale. E di certo non vengono restituiti la gran parte degli indumenti che Cristian indossava: non c’è traccia della maglietta, della felpa, degli slip e dei calzini. Tornano alla famiglia solo il giubbino, i pantaloni e le scarpe, ossia gli abiti non a contatto con le parti interessate dalle ferite. E restano le domande, molte. La più grande di tutte: cosa è successo a Cristian, 36 anni, tre giorni dopo essere uscito di casa per cercare lavoro?

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