Una pagina nera nel controverso capitolo della guerra al terrorismo:
l'esecuzione nel sonno, sommaria, di tre brigatisti [Paola Staccioli]
di Paola Staccioli
Hanno il colore grigio scuro dell'inchiostro nella foto in bianco e nero le pozze di sangue che circondano i corpi. Rivoli carichi di orrore, incapaci di produrre parole, che seguono i cadaveri sul pavimento lungo il corridoio. Quattro, in fila. Uno solo è vestito, dormiva in un sacco a pelo nel salotto. Gli altri sono stati sorpresi nel letto. Scalzi, con slip e maglietta. Tre giovani uomini e una donna. Piombati direttamente dal sonno alla morte. Genova, 28 marzo 1980. Il massacro di Fracchia.
È notte fonda. I carabinieri irrompono nella base delle Brigate rosse. A decidere l'operazione è stato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uno dalle maniere forti. Esperto nel lanciare messaggi di terrore agli oppositori. Come nel 1974, nell'assalto al carcere di Alessandria contro i detenuti in rivolta. Sette morti, il risultato. Due detenuti e cinque ostaggi. Nel 1980 ha in mano una pedina grossa. Patrizio Peci, dirigente della colonna torinese arrestato nel febbraio e subito passato dall'altra parte. Dalla Chiesa vuole ottenere il massimo da lui.
È un momento storico di inimicizie aperte e assolute. Il clima è pesante, lo scontro aspro da entrambe le parti. Nei mesi precedenti la colonna genovese ha sferrato un attacco durissimo contro le forze di polizia. Quattro carabinieri uccisi fra il novembre 1979 e il gennaio successivo. Dalla Chiesa vuole dare una risposta forte. Il delatore è disponibile. Indica al generale la base di via Fracchia 12, nel quartiere Oregina. Forse fa avere direttamente le chiavi. Un'ipotesi non confermata.
Una squadra di dieci uomini irrompe nell'appartamento nel cuore della notte. Urla, tonfi sordi, odore di polvere da sparo. Scaricano odio e piombo sui quattro corpi sorpresi nel sonno. Rimangono a terra Annamaria Ludmann, trentadue anni, nome di battaglia Cecilia, proprietaria della casa, Lorenzo Betassa (Antonio), Remo Panciarelli (Pasquale), Riccardo Dura (Roberto), identificato solo a distanza di una settimana in seguito a una telefonata dei suoi compagni. Il 30 marzo le Brigate Rosse fanno ritrovare un volantino in cui si onorano i compagni caduti. Trucidati dai mercenari di Dalla Chiesa. Per loro, come per molti altri operai, la scelta è stata precisa: combattere e vincere con la possibilità di morire; anziché subire e morire a poco a poco da servi e da strumenti usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. [...] Proprio mentre ci tocca lo strazio della loro scomparsa e onoriamo la loro memoria, si rinsalda in noi la convinzione che non sono caduti invano come non sono morti invano tutti i compagni che per il comunismo hanno dato la vita. Alla fine niente resterà impunito.
Hanno il colore grigio scuro dell'inchiostro nella foto in bianco e nero le pozze di sangue che circondano i corpi. Rivoli carichi di orrore, incapaci di produrre parole, che seguono i cadaveri sul pavimento lungo il corridoio. Quattro, in fila. Uno solo è vestito, dormiva in un sacco a pelo nel salotto. Gli altri sono stati sorpresi nel letto. Scalzi, con slip e maglietta. Tre giovani uomini e una donna. Piombati direttamente dal sonno alla morte. Genova, 28 marzo 1980. Il massacro di Fracchia.
È notte fonda. I carabinieri irrompono nella base delle Brigate rosse. A decidere l'operazione è stato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uno dalle maniere forti. Esperto nel lanciare messaggi di terrore agli oppositori. Come nel 1974, nell'assalto al carcere di Alessandria contro i detenuti in rivolta. Sette morti, il risultato. Due detenuti e cinque ostaggi. Nel 1980 ha in mano una pedina grossa. Patrizio Peci, dirigente della colonna torinese arrestato nel febbraio e subito passato dall'altra parte. Dalla Chiesa vuole ottenere il massimo da lui.
È un momento storico di inimicizie aperte e assolute. Il clima è pesante, lo scontro aspro da entrambe le parti. Nei mesi precedenti la colonna genovese ha sferrato un attacco durissimo contro le forze di polizia. Quattro carabinieri uccisi fra il novembre 1979 e il gennaio successivo. Dalla Chiesa vuole dare una risposta forte. Il delatore è disponibile. Indica al generale la base di via Fracchia 12, nel quartiere Oregina. Forse fa avere direttamente le chiavi. Un'ipotesi non confermata.
Una squadra di dieci uomini irrompe nell'appartamento nel cuore della notte. Urla, tonfi sordi, odore di polvere da sparo. Scaricano odio e piombo sui quattro corpi sorpresi nel sonno. Rimangono a terra Annamaria Ludmann, trentadue anni, nome di battaglia Cecilia, proprietaria della casa, Lorenzo Betassa (Antonio), Remo Panciarelli (Pasquale), Riccardo Dura (Roberto), identificato solo a distanza di una settimana in seguito a una telefonata dei suoi compagni. Il 30 marzo le Brigate Rosse fanno ritrovare un volantino in cui si onorano i compagni caduti. Trucidati dai mercenari di Dalla Chiesa. Per loro, come per molti altri operai, la scelta è stata precisa: combattere e vincere con la possibilità di morire; anziché subire e morire a poco a poco da servi e da strumenti usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. [...] Proprio mentre ci tocca lo strazio della loro scomparsa e onoriamo la loro memoria, si rinsalda in noi la convinzione che non sono caduti invano come non sono morti invano tutti i compagni che per il comunismo hanno dato la vita. Alla fine niente resterà impunito.
Alla Fiat di Mirafiori, in un reparto dell'officina 76, compare uno striscione in onore ai compagni caduti a Genova.
Esecuzione sommaria, vendetta di Stato. Lo pensano i compagni degli uccisi, lo pensano molti giornalisti. Giuliano Zincone, direttore de «Il Lavoro», lo dice chiaramente, facendosi nemico Dalla Chiesa. Anche Giorgio Bocca, intervistando il generale, si convince che la durezza delle sue parole risuona come un avvertimento: «Arrendetevi, altrimenti sarete tutti sterminati». Conflitto a fuoco, si affrettano a dire i carabinieri, che per giorni sequestrano l'appartamento. Nell'operazione un solo militare, il maresciallo Rinaldo Benà, rimane ferito a un occhio. A colpirlo, secondo la versione ufficiale, sono i brigatisti. Fuoco amico, ipotizzano altre ricostruzioni.
Per undici giorni l'appartamento viene blindato, presidiato dai reparti speciali. In balia dei militari e della versione ufficiale. L'unica possibile. Perché dall'altra parte nessuno ha più voce. Hanno lasciato solo cadaveri. E fori di proiettili. Dappertutto. L'8 aprile ai giornalisti viene concessa una visita guidata da un ufficiale dei carabinieri. Uno alla volta, per tre minuti. Non basta a nascondere.
La testimonianza visiva dell'orrore viene occultata e appare sulla stampa solo ventiquattro anni dopo. Il «Corriere Mercantile» di Genova pubblica nel febbraio del 2004 alcune foto del dossier riservato redatto dai carabinieri della Sezione rilievi del Nucleo operativo di Genova. Una sessantina di immagini. Nella loro cruda drammaticità, quei corpi sdraiati accrescono i dubbi su una versione ufficiale a molti risultata poco credibile fin dall'inizio. Anche la scena della foto sembra opera di un regista. Ricostruita. Innaturale. Con una pistola o una bomba a mano ordinatamente adagiate accanto a tre dei cadaveri. Ma qualcosa non torna. Un particolare stonato. Le braccia dei tre brigatisti in posizione prona sono piegate all'altezza della tempia. Come fossero caduti mentre tenevano le mani intrecciate dietro la testa, nella posizione di chi si è arreso.
Esecuzione sommaria, vendetta di Stato. Lo pensano i compagni degli uccisi, lo pensano molti giornalisti. Giuliano Zincone, direttore de «Il Lavoro», lo dice chiaramente, facendosi nemico Dalla Chiesa. Anche Giorgio Bocca, intervistando il generale, si convince che la durezza delle sue parole risuona come un avvertimento: «Arrendetevi, altrimenti sarete tutti sterminati». Conflitto a fuoco, si affrettano a dire i carabinieri, che per giorni sequestrano l'appartamento. Nell'operazione un solo militare, il maresciallo Rinaldo Benà, rimane ferito a un occhio. A colpirlo, secondo la versione ufficiale, sono i brigatisti. Fuoco amico, ipotizzano altre ricostruzioni.
Per undici giorni l'appartamento viene blindato, presidiato dai reparti speciali. In balia dei militari e della versione ufficiale. L'unica possibile. Perché dall'altra parte nessuno ha più voce. Hanno lasciato solo cadaveri. E fori di proiettili. Dappertutto. L'8 aprile ai giornalisti viene concessa una visita guidata da un ufficiale dei carabinieri. Uno alla volta, per tre minuti. Non basta a nascondere.
La testimonianza visiva dell'orrore viene occultata e appare sulla stampa solo ventiquattro anni dopo. Il «Corriere Mercantile» di Genova pubblica nel febbraio del 2004 alcune foto del dossier riservato redatto dai carabinieri della Sezione rilievi del Nucleo operativo di Genova. Una sessantina di immagini. Nella loro cruda drammaticità, quei corpi sdraiati accrescono i dubbi su una versione ufficiale a molti risultata poco credibile fin dall'inizio. Anche la scena della foto sembra opera di un regista. Ricostruita. Innaturale. Con una pistola o una bomba a mano ordinatamente adagiate accanto a tre dei cadaveri. Ma qualcosa non torna. Un particolare stonato. Le braccia dei tre brigatisti in posizione prona sono piegate all'altezza della tempia. Come fossero caduti mentre tenevano le mani intrecciate dietro la testa, nella posizione di chi si è arreso.
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