30 aprile 2013 di DB
di Sabatino Annecchiarico (*)
Hebe denunciò i responsabili. Denunciò i militari. Denunciò la Chiesa. Denunciò le aziende transnazionali. Denunciò i corrotti avvocati. Denunciò il silenzio di quelli che non erano innocenti. Reclamò in ogni istanza la «comparsa in vita»
dei cari, non solo egoisticamente i suoi, quelli di tutti. Socializzò
la battaglia per i diritti negati. Soprattutto per quelli che non
avevano voce. Oggi è la presidente dell’Associazione delle Madres de
Plaza de Mayo. In quella irreale realtà dell’autunno del ’77 solo
persone pazze, o di eccezionale coraggio, erano in grado di alzare la
testa, di alzare la voce. Fu un giovedì d’aprile di quell’anno che un
gruppuscolo di donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco si
diedero appuntamento nella Plaza de Mayo, storica piazza antistante alla
casa di governo, occupata dai militari.
L’autunno
australe a Buenos Aires si fa sentire. Il forte vento gelido che soffia
dall’Atlantico arriva in città dal sudest assieme alle fitte piogge che
bagnano persino le ossa; sono le caratteristiche climatiche di quella
passionale città già culla del tango. Uscire in piazza in quella
stagione, fare una passeggiata all’aria aperta, sono ricordi attaccati
nella memoria dell’estate appena trascorsa.
Ma quell’aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del Paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. Da allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea argentina, oggi nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo argentino, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembrava come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tran-tran quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arricchivano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del Paese era consentito pur di arraffare ricchezze.
In quell’assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quell’habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli «squadroni della morte», sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un’altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianchi cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano «chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga». Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il Paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nello spostare l’asse delle sorti del Paese, ribaltandone l’ignominiosa situazione sociale. Gli argentini ripresero coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, oggi non ci sono più. Hebe è lì, in piazza dal 30 aprile 1977 e al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.
Hebe María Pastor de Bonafini – il suo nome completo – è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Su lei, e sulle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una laurea ad honorem in Padagogia, e a ritirarla è Hebe con una delegazione di Madres. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 invece non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una radio. Sono protagoniste della costruzione di case nei quartieri più poveri del Paese. Partecipano alla vita sociale, a ogni lotta popolare, attive nelle fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zanon o dell’Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila: «Noi siamo state partorite dai nostri figli […] e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido, che soffia dall’Atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.
Ma quell’aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del Paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. Da allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea argentina, oggi nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo argentino, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembrava come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tran-tran quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arricchivano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del Paese era consentito pur di arraffare ricchezze.
In quell’assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quell’habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli «squadroni della morte», sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un’altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianchi cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano «chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga». Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il Paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nello spostare l’asse delle sorti del Paese, ribaltandone l’ignominiosa situazione sociale. Gli argentini ripresero coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, oggi non ci sono più. Hebe è lì, in piazza dal 30 aprile 1977 e al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.
Hebe María Pastor de Bonafini – il suo nome completo – è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Su lei, e sulle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una laurea ad honorem in Padagogia, e a ritirarla è Hebe con una delegazione di Madres. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 invece non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una radio. Sono protagoniste della costruzione di case nei quartieri più poveri del Paese. Partecipano alla vita sociale, a ogni lotta popolare, attive nelle fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zanon o dell’Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila: «Noi siamo state partorite dai nostri figli […] e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido, che soffia dall’Atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.
(*) Questo articolo era già uscito sulla bella rivista on line «El Ghibli».
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