Dopo 13 anni di prigionia il professore messicano Alberto Patishtán,
 indigeno dell’etnia tzotzil detenuto politico nel Chiapas, è stato 
rilasciato da poche ore in seguito alla decisione del presidente Enrique
 Peña Nieto che su twitter ha annunciato la concessione della 
grazia. Questa possibilità è stata aperta solo pochi giorni fa, il 29 
ottobre scorso, da un provvedimento legislativo motivato proprio dal 
caso dell’insegnante e militante chiapaneco, quindi è la prima 
volta che si applica in questa modalità. La figura giuridica era 
prevista dall’articolo 89 della costituzione messicana, ma la legge è 
venuta a specificarne i termini. La Camera e il Senato hanno approvato 
una modifica al Codice Penale Federale secondo cui il capo del governo 
avrà la facoltà di concedere la grazia, chiamata “indulto” nel testo 
messicano, a una persona  per qualunque delitto di tipo federale o di 
tipo comune “quando esistono indizi sostanziali di violazioni gravi ai 
diritti umani della persona sentenziata” e le autorità stabiliscono che 
“non rappresenta un pericolo per la tranquillità e la sicurezza 
pubbliche”.
Dopo l’invio del testo
 da parte delle camere l’esecutivo l’ha promulgato immediatamente. Il 
documento aggiunge quindi un secondo comma, un comma “Bis”, all’articolo
 97 del codice penale e stabilisce che “in modo eccezionale, per 
iniziativa propria o di una delle camere del parlamento, il titolare del
 potere esecutivo potrà concedere la grazia” e quando siano state 
esaurite tutte le altre possibilità giuridiche interne. Quindi la misura
 prevista dal parlamento è di tipo individuale ed è più simile a una 
grazia presidenziale che a un’amnistia o a un indulto.
Di
 fatto non è stata riconosciuta formalmente l’innocenza del professore, 
ma la violazione dei suoi diritti e del dovuto processo. In questo senso
 la lotta continua e ora i suoi comitati di appoggio chiederanno la 
riparazione del danno allo stato. Inoltre ci sono oltre 8mila indigeni 
detenuti nel paese che potrebbero venirsi a trovare nella stessa 
situazione del professore del Chiapas perché non hanno avuto un giusto 
processo o non hanno ottenuto un interprete-traduttore dalle loro lingue
 materne allo spagnolo. E c’è già chi invoca un’amnistia che superi 
questa situazione e valga per tutte le persone nelle condizioni del 
professore tzotzil.
La reale volontà 
politica di far fronte a questa emergenza della giustizia e del sistema 
penale si vedrà nei prossimi mesi, se il caso della grazia a Patishtán 
non rimarrà una semplice eccezione nel triste panorama carcerario 
messicano. In questo caso molto emblematico la pressione mediatica ha 
portato a una “risoluzione” accettabile che, come è successo nel marzo 
scorso con la francese Florence Cassez,
 aiuterà Peña Nieto a migliorare la sua immagine internazionale come 
“difensore” dei diritti e delle garanzie individuali. Il presidente, 
dopo le repressioni violente delle manifestazioni del 2 ottobre, del 
primo settembre, del 10 giugno 2013 e del 1 dicembre 2012, ha bisogno di
 mettere sul piatto qualche moneta per i diritti umani. La tenuta di 
tale immagine, ripulita per l’occasione, si vedrà quando e se verranno 
affrontati e risolti altri casi meno noti.
Il
 provvedimento sembra arrivare proprio mentre aumentano le critiche 
contro il governo per l’assenza di una strategia anticrimine, il che 
significa che c’è continuità con la gestione precedente e con la 
politica di militarizzazione del conflitto, e per le decine di migliaia 
di omicidi e femminicidi di quest’anno (oltre 15mila morti ufficialmente
 e, secondo la rivista Zeta, oltre 13mila decessi legati ai narcos): 
serviva dunque un colpo mediatico, senza nulla togliere all’opportunità e
 giustezza della decisione.
Patishtán
 era accusato di aver partecipato a un’imboscata in cui morirono sette 
poliziotti il 12 giugno del 2000 nella località El Bosque, in Chiapas, 
stato confinante a sud col Guatemala. Segnalato da un testimone, il 
professore è stato prima prelevato da quattro agenti in borghese senza 
mandato di cattura, poi imprigionato e malmenato in carcere. Due anni 
dopo è stato condannato a 60 anni di reclusione per omicidio solo in 
base alle deposizioni di un testimone. Secondo la Ong Amnesty 
International il processo è stato ingiusto, “non si sono considerate le 
contraddizioni nelle dichiarazioni del testimone che avrebbe 
riconosciuto Alberto e le testimonianze che indicavano che si trovava da
 un’altra parte”.
Infatti, Patishtán 
quel giorno stava dando lezioni in una città vicina, ma il suo alibi è 
stato ignorato dai giudici così come lo sono stati numerosi altri 
diritti fondamentali dell’ormai ex-detenuto. Il “Profe”, com’è 
soprannominato Patishtán, s’era inimicato il sindaco di El Bosque e il 
governatore del Chiapas per il suo attivismo politico e perché era a 
capo della protesta di un gruppo di cittadini contro l’ondata di omicidi
 e insicurezza che interessava la loro regione. Dopo la decisione 
sfavorevole presa dal tribunale il 12 settembre l’unica strada per il 
Profe era quella di cercare una sentenza favorevole della Corte 
Interamericana dei Diritti Umani. La Corte avrebbe potuto obbligare lo 
stato messicano a liberarlo, ma l’efficacia di una sua sentenza sarebbe 
dipesa comunque dalle possibili interpretazioni del diritto 
internazionale e avrebbe previsto un iter di vari anni.
In
 questi anni Patishtán ha insegnato a leggere e scrivere a decine di 
detenuti, ha lottato per migliorare le loro condizioni di vita e ha 
fondato il collettivo Voz del Amate che, collegandosi ai 
movimenti e alla società civile, è riuscito a far ottenere il rilascio 
di 137 prigionieri. Nell’ottobre 2012 il Profe ha superato un’altra 
prova, quella contro il cancro: un intervento chirurgico gli ha 
asportato un tumore al cervello. Ma anche per la sua salute la lotta 
continua e il Profe è attualmente in cura per asportare un’altra parte 
di quel tumore. Per questi anni di resistenza Patishtán è diventato un 
simbolo, ma, nonostante l’appoggio di alcuni parlamentari e di una parte
 crescente dell’opinione pubblica, non aveva ancora vinto la sfida 
contro l’ingiustizia. Con la decisione di liberarlo lo stato ammette di 
aver violato i suoi diritti fondamentali e di non aver saputo condurre 
un processo giusto nei suoi confronti. I grandi perdenti della vicenda 
sono il sistema giudiziario e il penale, incapaci di emendare i propri 
errori e di correggere il tiro. Il perdente è la cosiddetta “fabbrica 
dei colpevoli”. Patishtán aveva dichiarato di non voler chiedere la 
grazia, ma questa è arrivata comunque grazie alla nuova norma e alle 
forti pressioni nazionali e internazionali.
Di seguito un articolo riassuntivo sul caso del profe Alberto Patishtán pubblicato sul quotidiano l’Unità del 20 ottobre 2013 – In PDF a questo Link - Più dettagli a questo link su Carmilla.
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