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Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


mercoledì 21 dicembre 2011

STORIA DI SAID E’ STORIA DELLA PALESTINA


Dopo un viaggio in Europa per raccontare il suo Paese, il giovane 20enne di Ni’lin si ritrova di fronte la quotidianità dell’occupazione: raid nella sua casa, minaccia di arresto per il fratello. Un destino comune a quello di oltre 4 milioni di palestinesi.


EMMA MANCINI


Beit Sahour (Cisgiordania), 14 dicembre 2011, Nena News (nella foto, un giovane palestinese pianta un ulivo nel villaggio di Husan davanti ai soldati israeliani, foto Emma Mancini) – Un viaggio in Europa per parlare al mondo del piccolo villaggio palestinese di Ni’ilin, tre mesi trascorsi tra la Svezia e la Germania a respirare una libertà che nei Territori Occupati è negata da 63 anni. E al ritorno, il brusco risveglio: sei e resti un giovane palestinese sotto occupazione, non dimenticartelo.
Il chiaro messaggio è stato recapitato a Said dall’esercito israeliano solo due giorni dopo il suo ritorno in Palestina: raid notturno in casa e mandato di comparizione in carcere per il fratello minore. Una storia simile a tante altre, qua in Cisgiordania, ormai la routine. L’anormalità diventa normale, l’assurdo si trasforma in realtà.
La storia è quella di Said Amireh, un ragazzo di 20 anni del villaggio di Ni’ilin. A riportarla l’organizzazione Freedom Flotilla Italia, che pubblica la lettera scritta due giorni fa dal giovane dopo il raid dell’esercito. “Ho passato gli ultimi tre mesi in Europa – racconta Saeed – per parlare in vari eventi di Palestina, della nostra sofferenza, dei nostri sogni e delle nostre speranze. Ho imparato moltissimo e ho visto cose bellissime. Ma la cosa più importante che ho sperimentato è come sia dormire al sicuro e senza paura e stress per tre mesi. È stata l’esperienza più straordinaria della mia vita”.
Il nuovo mondo scoperto da Said al di là del Mediterraneo si è presto volatilizzato. Prima la morte di Mustafa Tamimi, 28enne residente a Bi’lin, ucciso durante la tradizionale manifestazione del venerdì da un gas lacrimogeno lanciato a breve distanza da un soldato israeliano: centrato alla testa, Mustafa è morto il giorno dopo in ospedale. Poi, l’attacco delle forze di occupazione israeliane alla sua casa.
“Due giorni dopo il mio ritorno, domenica 11 dicembre 2011 – continua Said – all’una di notte, mentre dormivo nella casa della mia famiglia, i soldati delle Forze Israeliane di Occupazione hanno invaso la casa di mio zio, che è vicina a quella della mia famiglia. Un altro gruppo delle Forze Israeliane di Occupazione ha invaso la casa dell’altro mio zio e l’hanno costretto a seguirli nella casa della mia famiglia – non ho idea del motivo. Hanno iniziato a colpire la porta di casa e a gridarci di aprire. Stavo dormendo e mio fratello maggiore mi ha svegliato”.
“Non c’è voluto molto perché 25 soldati, arrivati dal Muro dell’Apartheid (che è molto vicino alla casa della mia famiglia) aprissero la porta con la forza e facessero irruzione. Io ero molto nervoso, ero sicuro che fossero venuti per arrestarmi. Ci hanno messi tutti in una stanza, come fanno ogni volta che invadono una casa durante un’incursione notturna. Dopo cinque minuti sono venuti per il più giovane dei miei fratelli, Muhammed Amireh, di 18 anni. L’hanno portato in un’altra stanza, dove l’hanno fotografato. Gli hanno consegnato un mandato di comparizione, un documento per un interrogatorio: convocato giovedì 15 dicembre 2011 alle 10.30 alla prigione militare di Ofer”.
La famiglia Amireh è preoccupata. Nessuno sa cosa accadrà a Muhammed giovedì. Capita molto spesso che un palestinese convocato per un “semplice” interrogatorio non faccia ritorno a casa, ma venga rinchiuso dietro le sbarre di una prigione israeliana: “Nel dicembre del 2009, Ibrahim Srour, un diciottenne del mio villaggio, era stato convocato per un interrogatorio. Quando si è presentato, l’hanno arrestato: 22 mesi di prigione e una multa di 3.500 dollari. Ibrahim è stato rilasciato solo un mese fa”.
La tensione che asfissia villaggi come Ni’ilin e Bi’lin, l’intera Palestina, è continua, senza tregua. Esempi della resistenza popolare nonviolenta in Palestina, sono spesso target dell’esercito d’occupazione israeliano. Soprattutto durante le tradizionali manifestazioni del venerdì che nei due villaggi (come in altre comunità della Cisgiordania, da Al Masara ad Al Walaje) sono iniziate dopo la Seconda Intifada, principalmente come forma di protesta pacifica contro la costruzione del Muro di Separazione.
A Ni’ilin, comunità del distretto di Ramallah, la popolazione del villaggio scende in strada ormai da tre anni: insieme a internazionali e attivisti israeliani gridano slogan e sventolano bandiere contro la confisca di terre, gli attacchi dei coloni, i soprusi del regime di apartheid. Solo a Ni’ilin le autorità israeliane hanno confiscato oltre l’80% delle terre appartenenti al villaggio, distruggendo la sua economia, basata essenzialmente sull’agricoltura.
Una resistenza nonviolenta a cui fa da contraltare la sproporzione della reazione militare israeliana. Candelotti di gas lacrimogeno, bombe sonore, proiettili di gomma che tra le mani dei soldati si trasformano in vere e proprie armi. Arresti indiscriminati e detenzioni amministrative diventano lo strumento per piegare la resistenza popolare, tagliando la testa alla leadership e rassegnando animi e motivazioni.
Eppure, a quanto pare, la resistenza nonviolenta è la sola attuale opzione in mano al popolo palestinese. Una lotta che non è fatta semplicemente di manifestazioni settimanali, bandiere e slogan. La resistenza, quella vera, è quella dei contadini che continuano a lavorare la loro terra al di là del Muro, costretti ad attraversare ogni mattina un checkpoint militare.
È quella di chi continua a piantare alberi di ulivo nonostante vengano costantemente sradicati da soldati e coloni. È quella dei bambini che camminano per chilometri per raggiungere la loro scuola perché non autorizzati ad attraversare le strade riservate ai coloni. È quella delle cooperative di donne in città come Hebron e delle comunità che ricostruiscono con acqua e fango le case demolite nella Jordan Valley.

“Ridere, danzare, piantare alberi di ulivo, accompagnare i bambini a scuola, fare l’amore, proteggere le nostre pietre. Questa è resistenza. Dipingere, costruire una casa. Questa è resistenza. Stare per quattro ore al checkpoint e alla fine attraversarlo. Questa è resistenza. Noi siamo ancora qui” (Nassar Ibrahim). Nena News

Fonte:

http://nena-news.globalist.it/?p=15487

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